Sinistra.ch accoglie un’intervista ad Arminio Sciolli – portavoce del centro culturale locarnese “Il Rivellino” – a proposito delle dinamiche di cooperazione culturale internazionale, al fine di meglio comprendere a quale genere d’impatto sistemico tali interazioni possono condurre.
Il testo in questione è apparso in versione originale sul settimo numero di #politicanuova (leggibile qui), quadrimestrale marxista edito dal Partito Comunista.
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A cura di Aris Della Fontana
1. In quali dinamiche consiste una cooperazione culturale fra realtà differenti? Qual è l’utilità di queste interazioni? La cooperazione culturale può essere un presupposto per una più generale partnership fra gli attori in gioco e, in tal senso, costituire un incentivo per l’affermarsi di relazioni politiche ed economico-commerciali, o sono invece queste ultime a permettere lo schiudersi degli altri settori, tra cui la cooperazione culturale?
La ricerca di relazioni culturali tra popoli, nazioni e gruppi è essenziale. Lo scambio di attività culturali costituisce, in genere, la forma iniziale di ogni contatto: la cultura è il vero mercurio dei popoli. Queste relazioni, infatti, rappresentano un fondamentale punto d’avvio per capirsi l’un l’altro, per comprendere il linguaggio e il modo di pensare dei popoli, con la loro storia, etc. E, una volta che si sia verificato tale primo aggancio – il quale, occorre sottolinearlo, non è affatto un’operazione facile -, successivamente si aprono tantissime forme di rapporti, come quelli di tipo politico ed economico.
Oggi la cultura subisce un impoverimento legato alla concezione distorta che di essa ci si fa, specialmente per quanto riguarda ciò che si pretende di ottenere attraverso la dimensione culturale. Si crede e si vuole, in tal senso, che la cultura attiri turisti e permetta di realizzare guadagni rapidamente. Invece non è così: nell’ambito delle relazioni culturali esiste, strutturalmente, una prima fase connotata dal contatto e dal vicendevole conoscersi; e questo preludio, comprensibilmente, non possiede, per forza, le caratteristiche atte a consentire un arricchimento economico. È solo col progredire qualitativo dei rapporti che sarà possibile soddisfare anche queste finalità – ed è in questa fase che diventa fondamentale sapere cogliere le varie opportunità.
2. Come si presenta la panoramica delle relazioni internazionali del Festival del Film di Locarno? Esistono dei partner privilegiati e quindi una geometria di carattere geo-politico?
Le manipolazioni hanno luogo anche in ambito culturale. La cultura, infatti, rappresenta un mezzo per raggiungere altri popoli con i quali si è intenzionati a intavolare determinati rapporti; e dunque essa è discriminatoria, sia a destra che a sinistra, sfortunatamente.
In qualità di osservatore – qualificato, ma esterno – ho la netta impressione che l’attuale Festival di Locarno sia sostanzialmente discriminatorio; e, probabilmente, negli anni Cinquanta e Sessanta, in virtù di un’estrema apertura, lo era molto di meno (l’industria cinematografica era anche un’altra cosa: la gente andava al cinema). Oggi il Festival sta diventando una riserva di caccia per diversi tipi di cinema, stili o correnti, prodotti afferenti a un certo novero di Stati, che si connotano per il fatto di avvicinarsi alle istanze di determinati sponsor. Questa è senza dubbio la parte più triste. Si consideri che il Festival, nel passato, si era caratterizzato proprio per la capacità di scoprire; a Locarno, per fare un esempio, fu scoperto il primo Kubrick (1); Jim Jarmusch e molti altri grossi nomi sono spuntati sulle rive del lago Maggiore. Attualmente questo fondamentale aspetto è pressoché assente perché si sta favorendo un certo cinema: e tale atteggiamento si può rilevare sia osservando i rifiuti operati – personalmente ho sperimentato ciò con il caso relativo al “Gosfilmfond” (2), ma anche col rifiuto di Peter Greenaway – sia osservando la dinamica dei privilegi che tendenzialmente vengono effettuati – quest’anno è il caso della rassegna di film provenienti da Israele: se, da una parte, non ho proprio nulla contro al fatto che si proiettino pellicole israeliane, dall’altra, ritengo che si sia peccato di parzialità, nella selezione delle produzioni israeliane stesse e nell’elusione della possibilità di concedere uno spazio anche al versante palestinese.
Una parte ironica, per non dire ipocrita, del Festival è il fatto di invocare, continuamente, la libertà artistica del suo direttore. Ma, prima di tutto, oltre a chiedersi che cosa s’intenda con libertà artistica, occorrerebbe interrogarsi su che cosa sia, essenzialmente, il Festival. Ritengo, in tal senso, che, attualmente, sussista una forte dicotomia tra, da un lato, quanto è rappresentato dal consiglio di fondazione, nettamente controllato dai gruppi d’interesse, che sono politici e partitici, ma soprattutto economici – e tale situazione, anche solo vent’anni fa, non credo vigesse – e, dall’altro, quanto concerne la direzione artistica. Quest’ultima istanza, in genere, dipende dalla forza, dalla capacità d’imporsi del direttore; il Festival è stato molto marcato da Marco Müller (3), il quale effettivamente utilizzava la propria libertà d’espressione – egli, per esempio, nascose dei registi che non avrebbero potuto nemmeno entrare in Svizzera. L’attuale direzione, invece, sembra molto sottomessa, e dunque la scusa della libertà artistica rappresenta un mero pretesto: la direzione è ben lungi dall’essere indipendente (quanto alla libertà artistica, pensare di averla non è altro che una presunzione).
3. Nell’ambito degli interscambi culturali, quale ruolo dovrebbero giocare le istituzioni pubbliche (cantonali e nazionali)? E, in tal ottica, come dovrebbe definirsi la “divisione del lavoro” tra pubblico e privato? Come s’inserisce, in questo discorso, l’esempio concreto de “Il Rivellino”?
Ho sempre odiato i termini “pubblico” e “privato”. A parer mio la cultura deve essere una cosa, intesa nel senso di res, il termine giuridico romano: una cosa di tutti, comune. (Di tutti, peraltro, non equivale a concepire la stessa cultura per tutti; la cultura, per forza di cose, deve accogliere, al proprio interno, elementi diversi; la Svizzera, poi, è l’unione di diversi popoli e di diverse lingue: e, dunque, già un piccolo paese come il nostro può essere confrontato con tante culture diverse). Quando si dice privato si pensa all’azione di gruppi quali le lobbies, con le accezioni negative ad esse connesse. E, tuttavia, quello che occorre prioritariamente sottolineare, è il fatto che oggi ci ritroviamo con un pubblico in gran parte manipolato da gruppi privati. Prendiamo quella che secondo me attualmente è la maggiore espressione culturale, la stampa: essa, in Svizzera, si trova in piena crisi, perché se la stanno accaparrando pochi gruppi – attualmente “Ringier” e “Tamedia”, le due maggiori sigle, dominano il 70% dell’informazione -, e questo è il primo grande danno, culturale quanto democratico (ricordo, in tal senso, che in Svizzera la libertà d’espressione non è ancorata alla Costituzione, ma deriva dalla libertà di stampa, ed è dunque logico che la libertà d’espressione, come valore umano, sociale e politico, sta alquanto decadendo). Da quarant’anni – a partire da Reagan – quelli che invocano il “meno Stato” sono coloro che lo utilizzano per conseguire i propri fini privati – in tal senso essi lo invocano per utilizzarlo meglio. Questa dinamica sta avendo luogo anche a livello culturale, e ciò è veramente tragico: l’interesse primario è diventato quello dei contratti, e cioè quello di arricchirsi, di svuotare le casse per concedere liquidità a gruppi privati non certo d’interesse pubblico.
Credo che, in ogni caso, tra le istituzioni e le entità private ci dovrebbe essere una dinamica che preveda ruoli ben definiti e, nel contempo, una forte collaborazione. Credo pure che una cultura pubblica esista; e la popolazione, nel contempo, è sempre più interessata alla cultura; occorre anche, del resto, proporre delle iniziative che siano in grado di attirarla. Credo si debba impostare un progetto che preveda due piani. Da una parte è fondamentale portare delle star – non per forza profili finanziariamente oltremodo onerosi, ma semplicemente personaggi di punta. Queste devono fungere da volano per i “piccoli”, per le iniziative locali, probabilmente non ancora riconosciute. Ed è con i “piccoli” che si tocca veramente la popolazione, giovani e anziani.
Sono sempre stato un forte ammiratore delle grandi iniziative pubbliche sul piano culturale, e ci credo. Senza la cultura di Stato, pubblica, forte, non si sarebbe potuto rilanciare una città come Parigi, che ancora all’inizio degli anni Sessanta si trovava in una condizione alquanto negativa, non c’era più nulla: in un ventennio sono stati costruiti tre straordinari musei, che favorirono la rinascita culturale parigina. E in tal senso è importante che gli esponenti delle istituzioni preposti alla cultura siano, in qualche modo, straordinari: essi non devono essere degli apparatčik, dei funzionari (e né André Malraux né Jack Lang (4) meritano il termine di funzionari, e da ciò la loro grandezza). In Svizzera e peggio ancora in Ticino si stanno scegliendo molti tecnocrati, gestori, Buchhalter: ci vuole un tecnico – se proprio vogliamo usare questo delicato termine, soprattutto in questo caso -, uno specialista, e cioè un’artista. Si stanno designando i dirigenti della cultura con dei criteri che si applicano per altre tipologie di funzionari; ma la cultura è per forza artistica, e perciò non è sostenibile scegliere un profilo preposto alla cultura con i medesimi criteri coi quali lo si fa per un direttore di banca. Non voglio affatto sostenere che non vi sia la necessità di gestori, i quali, per esempio, abbiano le competenze per occuparsi del frangente contabile. Ma ciò di cui occorre rendersi conto è il fatto che gestire la cultura non significa gestire dei conti.
Il “Rivellino” è frutto di un gruppo veramente bizzarro. Gli si è dato il nome di galleria, però è diventato un centro culturale. Esso si è costituito attorno ai “cocci rotti” della cultura locarnese: al momento della sua nascita – 7 anni fa – molti luoghi di ritrovo, iniziative, erano stati chiusi; era deceduto Szeemann, erano partiti importanti direttori di musei e avevano chiuso dei musei; insomma, c’era una forte crisi. La cosa più interessante mi sembrava congiungere tali “cocci”. Credo che questo sia stato un gioco di privati: tutti eravamo molto motivati. Personalmente ho cercato di tenere il “Rivellino” al di fuori di una collocazione partitica; per quanto concerne invece la proiezione politica, affermare che il Centro, attraverso le proprie attività, non abbia una tonalità politica, sarebbe una grande menzogna; e ciò perché fare effettivamente cultura, coinvolgere gli interessi culturali della gente, è automaticamente fare politica.
4. L’anno scorso Nikolai Borodachev (5), direttore del “Gosfilmfond” (6), dopo aver investito un milione di franchi nella Casa del Cinema, mostrò il desiderio di avere una piccola rassegna all’interno del Festival del Film di Locarno. Ma la proposta ricevette il niet del presidente Marco Solari, che gridò all’ingerenza. Qual è il suo giudizio, in qualità di protagonista diretto (7), a proposito di tale vicenda? Essa è, in un qualche senso, paradigmatica?
“Gosfilmfond” non ha messo il milione; è stato firmato un accordo con la città – che presumo sia ancora valido – per il “Palacinema”. Per Borodachev o perlomeno per la cineteca russa questo investimento equivale ad ottenere una vetrina, un piccolo spazio, nell’ambito del Festival del Film. Solari, effettivamente, ha urlato all’ingerenza; la realtà, tuttavia, è che l’ingerenza è operata proprio dai gruppi che egli rappresenta, e ciò si vede molto chiaramente quest’anno. Uno dei principali sponsor del Festival è “Manor” e, di riflesso, si è realizzata una rassegna dedicata ad Israele. L’ho già detto precedentemente: trovo buono che venga fatta, però si dovrebbe ammettere che essa è stata modellata secondo le volontà di un ben definito gruppo di persone che vivono in Israele, non di tutti i suoi abitanti (il passaporto israeliano lo possiedono pure arabi, palestinesi, musulmani, cattolici, cristiani di diversa fede, etc.). Solari si sarebbe dovuto scandalizzare anche per questa rassegna, nella quale, per esempio, Elia Suleiman (8) – insieme a molti altri – non è stato considerato. Marco Solari è stato Amministratore delegato di “Migros” ed è vice presidente della Direzione generale della “Ringier”; e dunque ha svolto ruoli dirigenziali in due tra le maggiori aziende svizzere; è evidente l’influenza che sulla sua persona è impressa dagli interessi economici preminenti. Solari ha urlato all’ingerenza perché “Gosfilmfond” avrebbe richiesto una parte del finanziamento a dei gruppi russi, come “Gazprom”, sigla che finanzia già altri Festival nel mondo. Quelli rappresentati da Solari sono gruppi in qualche modo, tendenzialmente, filo-americani e, in tal senso, hanno ancora delle riserve mentali proprie dell’era della guerra fredda. Quando è caduto il muro di Berlino si è conclusa la prima guerra fredda mondiale; credo che negli ultimi 4-5 anni e in modo più marcato con gli eventi d’Ucraina, si sia affacciata una seconda guerra fredda mondiale. Durante l’interruzione tra queste due fasi il mondo si è riformato, e in tale processo il gruppo nordamericano si è trovato confrontato con un’altra Europa, un’Europa tedesca, nella quale il marco è stato sostituito dall’Euro; e nel contempo il blocco atlantico ha visto il sorgere di una serie di realtà economicamente alquanto dinamiche, che si riassumono nei BRICS (9).
5. Quali sarebbero, potenzialmente, le prospettive concernenti la cooperazione culturale tra il Ticino e i paesi dei BRICS? E, laddove queste fossero concretizzate, quali conseguenze – complessivamente – avrebbero?
Da parte dei paesi BRICS c’è un enorme interesse per il Ticino. Per quanto concerne la Russia, occorre tenere conto che al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel nostro Cantone sono giunti molti russi, ucraini, azeri, kazaki. Negli ultimi tempi si sta affacciando lo Stato cinese, che ha comprato alcune aziende, tra cui la “Duferco”, leader mondiale nel mercato degli acciai. Gli indiani, seppur non si riesca ancora a chiarire nitidamente in che modo, ci stanno raggiungendo, ma piuttosto a Ginevra e a Zurigo. Un gruppo brasiliano, “Btg Pactual”, ha comprato la Banca della Svizzera Italiana (BSI).
Dato che sono piuttosto essi a venire alle nostre latitudini, è fondamentale saperli accogliere. Il fatto che investano qui è positivo in termini strategici, anche e soprattutto perché rafforza un’economia in realtà di provincia, contadina fino alla seconda guerra mondiale. Il caso russo è alquanto emblematico: sono arrivati innanzitutto con la carta culturale. Con i cinesi, in tal senso, è un po’ più difficile, data anche l’estrema diversità culturale. Molti artisti indiani sono venuti in Ticino negli anni Cinquanta e Sessanta, ed è molto sintomatica la mostra attualmente ospitata al “Museo delle culture” di Lugano (10) : essa è una dimostrazione che gli indiani vogliono entrare. L’Azerbaijan ha tentato diverse volte di portare delle mostre in Ticino; è uno Stato che sta crescendo molto e che è molto interessato al Ticino (si consideri che in Svizzera la compagnia statale azera “SOCAR” ha rilevato le stazioni di benzina “Esso”).
Chiaramente sono necessarie ampie disponibilità finanziarie per fare cultura, e nel caso specifico per portare artisti stranieri in Ticino; ma è un investimento strategico che non può essere eluso e che, in tal senso, sul lungo periodo si può rivelare alquanto fruttuoso, su diversi versanti.
6. A Lugano Drago Stevanovic ha lanciato “OtherMovie”, un piccolo Festival del Film finalizzato a mettere in contatto Oriente e Occidente. Come valuta una tale idea?
È un’ottima iniziativa, nutrita da molta passione; si è riusciti a portare film e registi molto interessanti. Ma mi pare abbia bisogno di forze, anche economiche. A Drago ho consigliato di coinvolgere “Gosfilmfond”: si tratta di un Festival che deve lavorare soprattutto con le cineteche, e specialmente con quelle dei paesi BRICS, che potrebbero costituire una corposa fonte di materiali. Questo è il classico caso nel quale l’istituzione pubblica dovrebbe attivarsi, dato che in questi anni “OtherMovie” è stato supportato in misura preponderante dal cinema privato – e, a tal proposito, occorre considerare che il privato può anche decidere di fare un passo indietro. In tal senso, credo che almeno il “LAC” (11) debba mettere a disposizione i propri servizi; sono assolutamente necessarie delle sale, fondamentali per un Festival. Temo che, nei prossimi anni, “OtherMovie” avrà maggiori difficoltà. E l’intervento pubblico, oltre ad essere necessario, è utile in un senso più complessivo, dato che questi eventi, laddove sono ben funzionanti, dinamizzano il tessuto socio-culturale e, inoltre, possono avere dei benefici anche a livello economico.
Note:
(1) “Il bacio dell’assassino” (1955)
(2) La questione “Gosfilmfond” verrà approfondita nell’ambito del quesito numero 4
(3) Direttore artistico dal 1992 al 2000
(4) Entrambi ministri della Cultura di Francia. Il primo dal 1959 al 1969; il secondo dal 1981 al 1986, e dal 1988 al 1993
(5) Borodachev ha ricoperto incarichi di primo piano in passato nel Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), divenendo pure vice-ministro della ex-Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan
(6) La cineteca statale russa (e prima sovietica) – l’archivio del cinema più grande al mondo. L’ente in questione è partner della “Cinémathèque Suisse” e, tra le altre cose, detiene anche copie di pellicole svizzere introvabili nel nostro Paese
(7) Fu proprio Arminio Sciolli, assieme ai colleghi de “Il Rivellino”, grazie ai contatti privilegiati decennali con le massime istituzioni russe, a portare a Locarno il “Gosfilmfond”
(8) Regista, sceneggiatore e attore nativo di Nazaret
(9) Brasile, Russia, India, Sudafrica e Cina
(10) Il museo nasce con il nome di “Museo delle culture extraeuropee” e nel 2007 viene rinominato “Museo delle culture”
(11) “Lugano Arte e Cultura”, il centro culturale della Città di Lugano