Crollo della borsa in Cina. Il governo interviene drasticamente contro le “sinistre forze di mercato”!

La Cina sta crollando. La bolla cinese sta mandando in tilt il sistema finanziario della Repubblica Popolare. Siamo davanti a una nuova crisi del 1929. In confronto la Grecia è niente. Sono questi i titoli che giornalisti di mezzo mondo hanno urlato in questi giorni, copia-incollando le solite notizie di agenzia, tutte stranamente identiche (ma non c’era il pluralismo dell’informazione?), prefigurando scenari apocalittici naturalmente con toni anti-cinesi a seguito dello scoppio di una bolla finanziaria che ha mandato in panico le borse di Shangai e di Hong Kong, con perdite che ricordavano quanto avvenuto nel 2008. In realtà in Cina già lo sapevano: cinque importanti accademici cinesi avevano allertato l’opinione pubblica già lo scorso 2 luglio 2015 (leggi), sostenendo che delle “sinistre forze di mercato” stavano sfruttando le debolezze del sistema finanziario cinese per profitto, paragonando la situazione alla crisi asiatica del 1997, quando il finanziere George Soros scommise contro le valute orientali. Le autorità di Pechino sono immediatamente intervenute togliendo oltre un migliaio di titoli dalle contrattazioni a causa dell’eccesivo ribasso e escludendo circa la metà dei titoli presenti sui listini. Ma andiamo a vedere se davvero la situazione è quella descritta dai giornalisti occidentali.

schermata-2015-07-09-alle-10-09-01Abbiamo interpellato Diego Bertozzi, un esperto di questioni cinesi, che ci aggiorna spiegando come Qu Hongbin, capo-economista della “Hongkong & Shanghai Banking Corporation” (HSBC) per la Cina, precisa che “gli effetti del mercato finanziario in Cina sono minori di quanto si creda, perché le azioni rappresentano meno del 15% dei beni in possesso delle famiglie cinesi e le emissioni azionarie meno del 5% del finanziamento complessivo delle società”. Inoltre “per la famiglia media cinese, la crescita dei consumi è guidata principalmente dalla crescita del reddito, non da variazioni della ricchezza. La maggior parte delle famiglie dirotta la propria ricchezza in contanti e depositi, non in azioni”. Intanto Pechino, facendo gridare allo scandalo le vestali della liberalizzazione capitalistica, ha deciso di vietare agli investitori che hanno più del 5% del pacchetto di una società di vendere titoli per i prossimi sei mesi, mentre le potenti aziende di Stato sono invitate a non vendere azioni, ma di acquistarne il più possibile per stabilizzare il mercato.

Su invito delle autorità di governo, e quindi – è sempre bene ricordarlo – del potente Partito Comunista, ci spiega Bertozzi, prosegue la mobilitazione dei colossi statali a sostegno del mercato azionario (ossia l’acquisto di azioni quando i prezzi scendono drasticamente). E naturalmente le iniziative messe in campo contro l’attacco speculativo-finanziario ordito dall’Occidente nel tenativo di far tremare l’avanzata del gigante asiatico scatenano le reprimende di coloro che vorrebbero la resa completa – la “normalizzazione” – al mercato capitalista della Cina socialista. Le reazioni più diffuse e ripetute ai vertici cinesi che operano per evitare quello che poche ore prima era il rischio di un nuovo 1929 sono però di altro genere: “le ultime mosse hanno messo un grande punto interrogativo sull’impegno ad abbracciare pienamente il capitalismo di mercato” e ancora: “Xi Jinping ha perso la sua credibilità di uomo del mercato e di coraggioso riformatore in nome del mantenimento del potere del Partito Comunista”, senza dimenticare questa: “il governo cinese è ancora troppo legato all’ideologia e all’economia pianificata”. Sì, concordiamo, è proprio così… per fortuna!

Putin-Vladimir-Xi-JinpingIntanto, però, in base all’accordo russo-cinese sulla sicurezza siglato lo scorso 8 maggio 2015, il governo di Pechino ha avvertito la Federazione Russa delle tensioni crescenti fra Cina e USA, invitando Mosca a prepararsi a scenari potenzialmente bellici nei confronti di Washington. Il motivo è proprio la perdita di oltre 3’700 miliardi di dollari sui mercati azionari cinesi di cui abbiamo parlato, sulle cui cause gli esperti cinesi sono unanimi: si tratterebbe di un attacco esterno ordito per far crollare il Paese e fra i colpevoli viene citato anche il gigante bancario statunitense Morgan Stanley. Stando a fonti provenienti dal Ministero degli Affari Esteri di Vladimir Putin l’attacco finanziario alla Cina è stato ordinato direttamente dal presidente Barack Obama, in reazione al presunto attacco hacker subito da Washington da parte cinese. Tesi peraltro suffragata da un relazione pubblicata dal Washington Post News Service. La situazione è indubbiamente tesa e Pechino, temendo di essere attaccata militarmente dagli americani, ha ordinato di rafforzare la capacità navale della propria marina militare. Come si legge anche in questo articolo (leggi) due generali, Kai Yingting e Zheng Weiping (quest’ultimo commissario politico della regione militare di Nanjing) hanno da poco scritto sull’organo di stampa del Partito Comunista Cinese, che: “ci sono profonde dispute territoriali alla periferia del nostro Paese, competizione geopolitica tra grandi potenze e attriti etnico-religiosi. Le tensioni nei circostanti punti caldi aumentano e il rischio di caos e guerra alle nostre porte è aumentato. Dovremmo essere più vigili… e prepararci mentalmente al combattimento”.

Il rischio non è insomma tanto la bolla finanziaria che il governo cinese dimostra di saper affrontare, ma la pazzia di un governo imperialista come quello del più guerrafondaio fra i presidenti americani, Barack Obama, che per risolvere la propria crisi economica e politica potrebbe decidere una mossa bellica di proporzioni gigantesche oltre che potenzialmente suicidaria.

Lascia un commento