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Massimiliano Ay: “la normalizzazione è la sfida di dimostrare che la nostra identità comunista è quella che rappresenta gli interessi della maggioranza della popolazione”

Sinistra.ch accoglie un’approfondita intervista a Massimiliano Ay apparsa sul 6° numero di #politicanuova (Aprile 2015) – leggibile online qui -, quadrimestrale marxista di approfondimento edito dal Partito Comunista (PC)

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#politicanuova intervista Massimiliano Ay, Segretario Politico del Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC) e Candidato al Consiglio di Stato sulla lista Mps-PC alle elezioni cantonali di aprile 2015.

A cura di Aris Della Fontana e di Tobia Bernardi

1. La tua candidatura al governo è coerente con la volontà di raggiungere l’obiettivo sostanziale, cioè la “società nuova”? E, in tal senso, la volontà di realizzare una “politica progettuale” può darsi all’interno di un esecutivo operante secondo un sistema collegiale che, come già notava Guido Pedroli nel lontano 1962, è tendenzialmente immobilista e conservatore? Più in generale, che ruolo svolge il programma delle riforme?

Schermata 2015-05-31 alle 16.01.54Evidentemente la collegialità è funzionale alla riproduzione del consociativismo, che impedisce una reale alternanza democratica, in quanto esiste, fra tutti i maggiori partiti – formanti il Partito dello Stato, per l’appunto -, una perenne “unità nazionale” che permette di “spartire” la torta senza temere opposizioni, e in pieno stile corporativo. Un tale sistema, data la sua composizione e il suo funzionamento, è destinato alla tendenziale inazione, all’assenza di progettualità, e perciò impedisce delle modificazioni non solo radicali ma pure parziali che siano tali – limitandosi a gestire lo stato di cose corrente; di fronte ai problemi strutturali della società, cioè, esso non possiede la forza e gli strumenti per intervenire attivamente. Inoltre, valgono ancora le parole di Giorgio Canonica: «l’elezione proporzionale del governo costituisce un blocco all’evoluzione dei rapporti di forza politica, occulta i conflitti di classe a livello politico, mistifica l’opinione popolare, integra le forze opposizionali nell’ideologia del consenso». Per il Partito Comunista, tuttavia, da questa aspra critica del sistema di governo proporzionale-collegiale, non deriva né l’abbandono delle istituzioni, né una prassi politica extra-parlamentare: cerchiamo di muoverci dialetticamente nella realtà che critichiamo, mantenendo l’indipendenza propria della nostra identità di classe, e dunque senza farci fagocitare dalle logiche in questione. Concretamente, ciò equivale a partecipare al lavoro politico-istituzionale attraverso una prassi riformatrice (non riformista!) della struttura economica e sociale, la quale, oltre a rappresentare uno degli strumenti con cui costruire l’alternativa sociale, scardina o, quantomeno, non rispetta la collegialità. Anziché privilegiare la governabilità – uno strumento egemonico volto all’auto-conservazione dei rapporti di forza tra le classi -, riteniamo vitale porre al centro dell’agenda il conflitto, il quale, oltre a rappresentare un elemento di progresso – e nient’affatto di caos -, è imprescindibile nella società liberale, dove le differenze sociali sono alla base dello stesso sistema economico.

2. Nel suo Congresso del 2011 il Partito Comunista della Svizzera Italiana aveva varato il cosiddetto processo di normalizzazione. I comunisti, oggi, rispetto al contesto cantonale complessivo, sono diventati normali? Se sì, tale percorso è stato realizzato all’insegna della liquidazione del passato (storico e ideologico) e del “nuovismo”?

Fra il 2002 e il 2003 abbandonai il movimento giovanile del PS dopo varie delusioni di fronte a una politica che stentavo a riconoscere come socialista. Nel 2005 mi schierai con i comunisti dell’allora Partito del Lavoro (che nel 2007 cambiò nome in Partito Comunista), con la consapevolezza che bisognasse lavorare per cambiare la percezione di marginalità in cui essi versavano, spesso anche a causa di una prassi gruppettara e un appiattimento culturale in cui erano finiti nel corso degli anni ’90. Il processo di normalizzazione è stato teorizzato al Congresso di Locarno del 2011, ma in realtà era già partito fin dal 2008/2009 con una tattica elettorale piuttosto audace in quel di Bellinzona, dove il Partito Comunista, allora quasi inesistente, riuscì a emergere clamorosamente nel dibattito politico comunale. In sostanza si trattava di toglierci di dosso quell’aura di estremismo parolaio e inconcludente in cui eravamo finiti, quasi fossimo un gruppuscolo di folklore nostalgico, piuttosto che un partito marxista del XXI secolo, che sapesse rispondere alla nuova fase politica ed economica con cui si confrontava la popolazione. Il ragionamento era semplice: in paesi a noi vicini i comunisti, per quanto con risultati elettorali magari modesti, sono riconosciuti come componente del dibattito politico nazionale. Da noi essere comunisti è ancora visto come qualcosa di inaffidabile: si doveva assolutamente “normalizzare” la percezione che la popolazione aveva del Partito Comunista, rivendicando la nostra legittimità democratica e il nostro ruolo nella società come forza politica seria. E questo non significa liquidare il marxismo-leninismo o nascondere la nostra storia di cui siamo invece orgogliosi: ma semmai è la sfida di dimostrare che la nostra identità comunista è quella che rappresenta gli interessi della maggioranza della popolazione. Io credo che abbiamo fatto in questo ambito vari passi avanti, non ancora sufficienti, ma basta vedere come si è estesa la nostra proposta politica e l’apparato di analisi di cui disponiamo, per dire che la direzione è quella corretta. Insomma si tratta di fare politica cercando di incidere nella realtà e nei rapporti di forza, e non ridurci a romantici rivoluzionari autoreferenziali che sventolano la bandiera rossa in un fortino assediato.

3. In stretta connessione con quella economica, è legittimo parlare anche di una crisi politica? Le classi dominanti sono ancora dirigenti? E, cioè, riescono ad intravedere un piano strategico con il quale superare l’attuale impasse? In tale temperie, quale ruolo spetta ai comunisti? Questi ultimi debbono lasciare il capitalismo nel “suo brodo” oppure individuare e proporre uno sbocco progressivo, cioè un serio progetto d’alternativa? Quale senso ha, in tal ottica, definirsi un partito di governo, pur non essendovici effettivamente?

Schermata 2015-05-31 alle 15.37.24Abbiamo una classe politica estremamente confusa, che non sa nemmeno più fare i propri interessi borghesi, come è stato il caso di recente con la crisi ucraina dove addirittura contro la stessa economia nazionale la Confederazione ha continuato a schierarsi di fatto dalla parte dei decadenti alleati euro-atlantici. Il che come comunisti potrebbe anche farci piacere, se non fosse che la sinistra appare messa ancora peggio, in un contesto di declino generalizzato delle società occidentale. I comunisti non hanno come compito quello di gestire il capitalismo, ma anche “lasciarlo nel suo brodo” sarebbe irresponsabile anzitutto perché a pagarne le conseguenze sarebbe proprio la stessa classe lavoratrice che vorremmo invece vedere emancipata. Bando quindi all’estremismo parolaio, e facciamo i marxisti seri, quelli che stanno nelle contraddizioni della società e che intendono il comunismo come il movimento reale e non idealistico delle cose. Oggi vediamo una classe operaia in costante processo di pauperizzazione a seguito della crisi e delle politiche di “austerity”, che viene per di più lasciata a se stessa e che conseguentemente è aggregata da alcuni partiti – la Lega dei Ticinesi, ad esempio (non a caso attiva contro la Kultura) – in un’ottica (spesso virtualmente) “anti-sistema”. Si sta così formando una nuova pseudo-classe dirigente di livello estremamente basso (fatta anche di deputati semi-analfabeti e addirittura al limite del caso sociale) che non fa bene né al processo decisionale politico, né all’economia del Paese, né in ultima analisi alla stessa democrazia. La politica anzi si converte da una prospettiva di miglioramento a una mera amministrazione di un presente eterno. Si viene così a delineare persino un deficit nella formazione degli statisti, ma non solo: a risentirne è pure la formazione dei gruppi dirigenti dei sindacati e dei partiti operai. Non è un caso se la sinistra ticinese ha difficoltà a disporre di giovani e produce sempre più leader insipidi, prevedibili e banali, quando non sfacciatamente carrieristi (cosa che il PC sta facendo di tutto per impedire). Peraltro tale situazione svilisce la credibilità stessa delle istituzioni borghesi, e ciò – per quanto un comunista possa auspicarlo – in un contesto di forte crisi sociale ed economica e senza un’adeguata coscienza di classe rivoluzionaria (ciò significa partiti comunisti forti, sindacati radicati, e movimenti democratici di massa presenti), può solo dare origini a svolte autoritarie. Uno svilimento delle istituzioni borghesi può essere infatti fonte di progresso solamente nel contesto della formazione di un duopolio di potere, uno dei quali basato su forme consiliari in aperto conflitto con la borghesia, cosa che oggi non esiste. Fintanto che tale situazione non si avvererà – come spiegava lo storico dirigente del Partito Comunista Portoghese Alvàro Cunhal – l’interesse della classe lavoratrice è di lottare affinché “la dittatura della borghesia si eserciti attraverso le forme più democratiche possibili, poiché queste (…) le permettono di meglio (…) forgiare la sua unità, rafforzare le sue organizzazioni, limitare e indebolire il potere dei monopoli, conquistare le masse alla causa della rivoluzione socialista. Ecco perché si afferma che la lotta per la democrazia è parte fondamentale della lotta per il socialismo”. Ci ritroviamo insomma con una parte di sottoproletariato e di una porzione di classe operaia in forte decadenza sociale, abilmente manovrate da una parte della borghesia priva anch’essa di prospettiva, che vive secondo alcuni miti costruiti ad arte da una narrazione collettiva spesso di tipo sciovinistico, dove la scuola ha evidentemente delle forti responsabilità. La Svizzera ha però delle chance per uscirne in modo positivo, a partire dalla stabilità economica ancora relativamente presente e dal discreto apparato formativo, ma è necessaria una consapevolezza per svoltare subito!

4. Qual è il tuo giudizio a proposito dell’operato del governo cantonticinese nell’ambito di questa legislatura?

Estremamente negativo. Come affermato in precedenza, il consociativismo e la collegialità sono forme di castrazione e di immobilismo, a cui purtroppo anche la socialdemocrazia si è adagiata. E poi in modo molto concreto questo governo ha approvato la pianificazione ospedaliera che prevede di smantellare gli ospedali pubblici delle regioni periferiche, declassandoli e tagliando posti di lavoro in contesti economici già fragili, senza contare la valorizzazione delle cliniche private in cui bazzicano i vertici liberali e dove non manca lo zampino della curia. A questo aggiungiamo l’idea nefasta del freno all’indebitamento che impedisce allo Stato un controllo sull’economia e un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. E come se non bastasse i contratti normali di lavoro a tremila franchi mensili, che non sono un primo passo verso dei salari minimi come pensano i socialisti, ma sono degli strumenti di dumping salariale micidiale perché legittimano il padronato nella sua corsa al ribasso dei salari.

5. Secondo quale modalità il Partito Comunista intende rapportarsi ai soggetti che, genericamente, definiamo subalterni?

L’ultimo Congresso del Partito Comunista ha ribadito che non è il momento di organizzare prioritariamente la massa, poiché non abbiamo gli strumenti per esercitare l’adeguata egemonia e nemmeno per costruirla: dobbiamo anzitutto formare noi stessi nella qualità della proposta, nella compattezza identitaria e nella coerenza ideologica. Attraverso questo strumento che abbiamo definito in sede congressuale come “partito di quadri con vocazione di massa” stabilire alcuni esperimenti prioritari con cui interagire con i settori sociali più ricettivi in questo momento anche se meno chiari a livello di classe: gli studenti in primis, in seguito alcuni movimenti (come quello pacifista) e infine alcuni settori professionali ancora da identificare. Credere di potersi subito rapportare alla classe operaia nel suo insieme o – ancora peggio – al sottoproletariato è, al momento, semplicemente illusorio. Ecco quindi che va non solo ribadita la valenza centrale della politica rispetto al neo-qualunquismo dell’anti-politica, ma anche la centralità dell’aspetto pedagogico e formativo come campo di azione e costruzione dei comunisti. Quest’ultimo ambito è strategico poiché non vediamo la possibilità né di emergere come forza politica, né di conquistare le masse a una prospettiva socialista, se non si tutela la base democratica e laica della rivoluzione repubblicana ticinese oggi messa in pericolo da una destra securitaria e reazionaria la cui cultura è permeata, a causa dell’irresponsabilità dei Verdi ticinesi, anche a sinistra.

6. Il Partito Comunista propone di impostare il tessuto economico attorno ai parametri di una produzione ad alto valore aggiunto. Questa prospettiva non rischia di essere sprovvista di una (necessaria) connotazione di classe? Insomma, dove sta la lotta per il socialismo?

Il Partito Comunista da oltre un anno parla di alto valore aggiunto. Ora è sulla bocca di tutti, ma come formula vuota adatta giusto il tempo delle elezioni. Iniziamo con il definire questo concetto: l’alto valore aggiunto non è altro che una produzione destandardizzata e centrata su una manodopera altamente qualificata, che permette di produrre un bene e/o un servizio considerabile un unicumsull’intero mercato. Nel contesto del declino economico occidentale, il nostro Paese può restare competitivo solo se saprà sviluppare questo tipo di settori produttivi: produzione e logistica avanzata, medical devices, sensoristica e telemetria, biomimicry, health trives, ecc. Infatti un posto di lavoro nel settore dell’alta tecnologia crea un indotto di circa cinque altri posti di lavoro. In Ticino esistono aziende come l’AGIE, istituti come l’IDSIA specializzato nell’intelligenza artificiale, la DIAMOND attiva nell’ambito delle fibre ottiche, ecc. Realtà che se necessario potrebbero anche essere oggetto di un processo di nazionalizzazione. Lo Stato deve investire fortemente nel settore della ricerca e in questa direzione può essere letto il rilancio produttivo delle Officine di Bellinzona con il progetto del Centro di Competenze. La nostra riflessione in questo ambito è partita nel contesto del’accettazione in votazione popolare della disastrosa iniziativa “contro l’immigrazione di massa” lo scorso 9 febbraio 2014. Secondo il Politecnico di Zurigo i “rami ad alto valore aggiunto, come quello dell’industria delle macchine, non dispongono di un appoggio politico solido a Berna, al contrario di altri che creano invece meno ricchezza, come l’agricoltura. I comparti orientanti all’export avranno inoltre maggiori problemi perché l’iniziativa aumenterà i costi di reclutamento del personale, cosa che rincarerà i prodotti rendendoli meno competitivi a livello internazionale”. In tale contesto, evidentemente peggiorato con l’ultima votazione, occorre puntare in modo accelerato sull’alto valore aggiunto e riuscire nel contempo ad aprire il Paese a nuove forme di cooperazione con potenze emergenti. Va qui tenuto peraltro in considerazione anche il fatto che se l’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” dovesse essere totalmente applicata, l’UE potrebbe imporre, da un lato, dazi doganali aumentando in questo modo il costo di materie prime e prodotti semi-lavorati (che andrebbero inevitabilmente a incidere sul costo dei prodotti finiti che la Svizzera esporta e consuma); e dall’altro lato l’UE potrebbe imporre una tassazione particolare sui prodotti che la Confederazione esporta verso l’Eurozona. E’ chiaro a tutti che qualora ciò si verificasse il capitalismo svizzero farebbe ricadere almeno in parte tali spese sulle classi subalterne del nostro Paese, ad esempio con un incremento dell’IVA. E già qui abbiamo una risposta alla tua domanda sulla connotazione di classe. Si tratta di assumere una posizione propositiva, in cui far emergere la “nuova” Svizzera, consolidarne il benessere in un’ottica però che vada verso un discorso, se non internazionalista, perlomeno cooperativo. Tutto ciò sarebbe peraltro in piena sintonia con la prospettiva di un mondo multipolare come auspicato dal movimento comunista internazionale, dove – nell’affermarsi di relazioni internazionali pacifiche e nella rinuncia a prassi imperialistiche – potranno rinascere aspetti di sovranità popolare con potenzialità di sviluppare una democrazia progressiva, in cui i produttori (lavoratori del braccio e della mente) conquistino man mano, nel contesto evidentemente della conflittualità di classe, quel ruolo di protagonisti della storia che il socialismo prevede. E’ proprio per garantire una Svizzera prospera, con il minor numero di disoccupati possibile e capace di essere protagonista attiva della costruzione di nuove relazioni di cooperazione economica internazionale a favore di uno sviluppo equo e sostenibile, che una profonda riforma anche del nostro modello formativo (oltre che professionale) va progettata con sempre maggiore urgenza. Non si può insomma continuare con una situazione in cui la Confederazione è costretta ad assumere oggi medici dalla Germania e ingegneri dall’India, perché non ne dispone in numero sufficiente e adeguatamente qualificato. E’ impellente creare posti di lavoro capaci di avere futuro, in cui il lavoratore residente altamente qualificato, formato, competente e preparato possa essere impiegato con un salario adeguato senza temere concorrenze al ribasso. La proposta del Partito Comunista è quella insomma di orientarsi verso quella che i compagni Francesco Vitali e Mattia Tagliaferri su #politicanuovanr. 3 del febbraio 2014, definivano “una società dei saperi nella quale assumano un’importante centralità i poli d’eccellenza situati nei settori ritenuti strategici. Tali poli permetterebbero delle convergenze di carattere dialettico con le micro e piccole imprese di cui oggi ancor abbondiamo, permettendo di dare vita a un percorso virtuoso di know hownei più disparati settori, attraverso la crescita di distretti industriali che dovrebbero segnare un ritorno alla preminenza del capitale effettivo. Ciò permetterebbe di inserirsi all’interno di una divisione internazionale del lavoro rispettosa del multipolarismo che sta emergendo, attorno al quale è necessario modellare l’uscita dalla crisi”. Una posizione, questa, che se adeguatamente e creativamente riconosciuta come strategica dal Partito Comunista, può rappresentare addirittura un primo passo verso una almeno parziale pianificazione e socializzazione dell’economia nazionale stessa.

7. In tale prospettiva, quindi, la formazione scolastica gioca un ruolo fondamentale?

Certamente! La scuola non deve subire i diktat dell’economia; sono semmai scuola e ricerca che possono costruire una nuova economia. U’economia reale di punta necessita di un adeguato livello formativo. Tuttavia la crisi accentua la mancata armonizzazione fra forze produttive e rapporti di produzione, il che si traduce in una pauperizzazione della classe lavoratrice (e conseguentemente in una decadenza dell’aristocrazia operaia da Lenin), un allargamento del disagio sociale e quindi del sottoproletariato. Rendere il Paese competitivo (nella declinazione socialista del termine) dal punto di vista economico (e quindi occupazionale e di controllo macroeconomico da parte dello Stato) è un processo che deve partire non dalla sottomissione della scuola alle esigenze di corto periodo del padronato, ma al contrario istituendo l’obbligatorietà scolastica fino ai 18 anni, favorendo al massimo un’istruzione di grado liceale per ognuno e gettando le basi per una futura formazione politecnica che sappia superare alla base la divisione fra lavoratore manuale e intellettuale. Per implementare una tale riforma occorre anche procedere sul piano pedagogico, abituando i ragazzi al lavoro collaborativo e all’attiva partecipazione sindacale. La carente formazione nell’ambito del tirocinio è la causa dei problemi che oggi si riscontrano con vari giovani lavoratori neo-qualificati, incapaci spesso di assumersi responsabilità e di lavorare in maniera autonoma: conseguenza anche qui di un modello educativo paternalista, che toglie ogni spazio di reale autogestione da parte degli allievi e che, in sostanza, li de-responsabilizza a tal punto da renderli quasi degli automi.

8. Credi ci sia la possibilità di ripensare, in termini strategici, il futuro della piazza finanziaria luganese?

Il Partito Comunista già a inizio 2013 aveva dato vita – da solo – a una campagna specifica sulla piazza finanziaria di Lugano. Sempre meno impieghi, le prime ristrutturazioni senza piani sociali, la vendita di BSI, ecc. rendono la situazione molto precaria. Lugano da sola non potrà certamente influenzare sensibilmente le grosse dinamiche globali, ma il management della piazza finanziaria dimostra una totale cecità rispetto alla realtà. Se non si supera il paradigma capitalistico il sistema finanziario tende al massimo disordine e all’impossibilità di una coordinazione adeguata delle risorse disponibili. La crisi rende necessario un cambiamento radicale del sistema bancario e creditizio, facendo della sostenibilità e del soddisfacimento dei bisogni della popolazione la sua ragione d’essere. I fallimenti del Risk Management e l’incontrollabilità delle operazioni bancarie mostrano come l’attuale sistema finanziario sia in balia delle proprie contraddizioni. Negli ultimi anni l’attuale modello bancario ha vissuto mutamenti che hanno portato a preferire investimenti a corto termine, rischiosi, nell’economia finanziaria invece che investimenti in progetti a medio-lungo periodo nell’economia reale. Troppo spesso vediamo come questo sistema bancario preferisca concentrarsi su pochi colossi commerciali, le cui operazioni sono troppo spesso di matrice speculativa – e che quasi mai hanno un impatto economico positivo per la popolazione ed il resto dell’economia nazionale – anziché sulla miriade di potenziali piccoli clienti commerciali. Questi ultimi, come le famiglie, le microimprese a gestione giovanile e/o femminile, e le aziende strategiche per il tessuto economico nazionale, sono perciò messi in secondo piano e devono concorrere con questi colossi per l’accesso al credito. Una maggiore solidità e sostenibilità del sistema bancario può avvenire solo mutando strutturalmente questa logica, cambiando cioè i core business degli istituti finanziari. Per far questo è necessario che il settore pubblico intervenga sempre più in queste faccende, fino ad essere lui stesso promotore di attività finanziarie non per forza redditizie, ma capaci di incidere sulla prosperità del settore economico nazionale e non. Un primo passo in questa direzione, ed è la proposta del Partito Comunista concretamente, sarebbe la costituzione di una holding bancaria di proprietà pubblica, detentrice di almeno il 41% delle azioni delle altre banche esistenti. Questa coordinerebbe in modo razionale le concessioni di credito e gli investimenti delle sue affiliate secondo il principio di sviluppo sostenibile dell’economia produttiva in base ai bisogni della popolazione. Solo in questo modo è possibile dare la precedenza alle famiglie e alle microimprese, permettendo loro di svilupparsi nell’economia reale concedendo crediti a tassi ridotti. Il controllo pubblico sulle operazioni bancarie permette inoltre di creare un sistema efficace di vigilanza sulle transazioni finanziarie. Questo consente una maggiore controllabilità del settore che attualmente è asservito alla massimizzazione dei profitti e permette indisturbatamente il proseguo di attività finanziarie anti-sociali e non etiche, come il riciclaggio di denaro e il trasferimento di capitali verso i paradisi fiscali. Un sistema bancario e creditizio che non sottostia alle logiche del profitto a corto termine, ma che valorizzi maggiormente i propri dipendenti e i progetti a medio-lungo termine nell’economia reale, è l’unico capace di incidere positivamente sugli altri settori economici, salvaguardando l’impiego e lo sviluppo professionale dei salariati.

9. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana sostiene la necessità di rimodulare lo schema delle relazioni internazionali elvetiche in ottica multi-polare. Ritieni che questo indirizzo sia applicabile anche alla sola dimensione ticinese?

La domanda è complessa e non abbiamo ancora analizzato a fondo la questione per poter esprimere una chiara linea politica in merito (1). Tuttavia partendo dalla recente esperienza dei bambini ecuadoriani scolarizzati a Contone e in seguito espulsi dal Paese, mi viene da dire che il Partito Comunista ha agito proprio nell’ottica di costruire nuove relazioni internazionali anche nella mera dimensione ticinese: piuttosto che il piagnucoloso buonismo visto da una parte della sinistra, noi abbiamo incontrato il corpo diplomatico dell’Ecuador (un paese retto da un governo rivoluzionario) segnalando il caso concreto e tentando di togliere i migranti ecuadoriani dal racket della tratta di esseri umani, per inserirli piuttosto nell’interessantissimo progetto di rimpatrio organizzato dal compagno presidente Rafael Correa, che prevede forme di reinserimento scolastico e professionale. Per noi aiutare i migranti non significa farli vivere nelle roulotte e dar loro l’elemosina, non è questo l’internazionalismo!

10. L’imam della Lega dei Musulmani di Lugano ha proposto di insegnare l’islam nelle scuole pubbliche. Come vedi la questione della lezione di religione? E soprattutto come si pone il Partito Comunista di fronte a una certa destra che fomenta la paura sull’invasione islamica. Chiedo ciò perché il PC era rimasto cauto sulla questione dei profughi siriani.

Il Partito Comunista ritiene la religione una questione personale e chiede la sua abolizione dai programmi scolastici. Siamo contrari anche all’idea sostenuta dal resto della sinistra di una lezione di storia delle religioni e sosteniamo al contrario le tesi dell’Associazione ticinese dei Liberi Pensatori e del Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti: il fenomeno religioso, in forma rigorosamente laica e senza prevalenza del cristianesimo, va semmai visto in modo interdisciplinare nelle materie umanistiche, senza appesantire ulteriormente un orario scolastico già sufficientemente carico, come già una decina di anni fa avevano denunciato le assemblee dei genitori delle scuole medie ticinesi. E così ho risposto anche alla proposta dell’imam di Lugano, benché sia chiaro che se nelle scuole vi sono religioni che hanno spazio, al contrario di altre si crea malcontento. La nostra proposta risolve alla radice il problema e valuta positivamente semmai la centralità della razionalità nell’educazione pubblica. Per quanto concerne invece l’islamofobia strumentalizzata da certa destra, ritengo che soprattutto dopo gli attentati a Charlie Hebdo bisogna evitare a tutti i costi che si sviluppi un’irrazionale crociata contro tutti i musulmani e un clima di “scontro di civiltà”: ideologia, questa, che andrà a giustificare nuovi interventi militari nei confronti di Paesi ritenuti ostili, nonché a perpetuare la sudditanza dell’Europa e della Svizzera ai disegni geostrategici degli Stati Uniti, tesi a fare del nostro continente un campo di battaglia contro la Russia, il Medio Oriente e altri nostri potenziali partner strategici, con cui il nostro Paese non ha alcuna ragione di dover confliggere. Non si può però tacere il fatto che i terroristi islamisti che hanno colpito a Parigi erano gli stessi che nei mesi scorsi, con l’attiva complicità dei governi occidentali, partivano come mercenari per scatenare la guerra civile in Siria allo scopo di rovesciarne il governo laico. Quando vedo alcuni socialisti che si fanno ritrarre su Facebook con la bandiera tricolore con le tre stelle utilizzata dalle forze reazionarie in Siria pensando che stanno aiutando dei civili, mi spavento per l’ingenuità di questi compagni: noi come comunisti chiediamo che la Svizzera sostenga gli sforzi del Libano nella gestione dei profughi civili vittime dei ribelli siriani in loco e impedisca l’accesso sul nostro territorio, sfruttando magari il sacrosanto diritto all’asilo, di persone legate ai movimenti islamisti radicali come quelli che stanno mettendo a ferro e fuoco la Siria e il Medioriente. Il Partito Comunista, inoltre, forte delle relazioni con le forze secolariste dei paesi arabi, rivendica la normalizzazione immediata delle relazioni diplomatiche e di cooperazione economica con il Governo nazionale della Repubblica Araba di Siria, l’unico che può contrastare il terrorismo e intavolare con Damasco e, in questo caso anche con la Russia, un partenariato per la sicurezza. Urge inoltre che la Confederazione avvii un’intensa collaborazione con le comunità musulmane in Svizzera, partner vitale nell’ottica di evitare infiltrazioni di qualsiasi tipo sul nostro territorio.

11. Veniamo alla fiscalità. Abbassiamo le imposte o le aumentiamo?

tassa-dei-milionari1Non siamo e non vogliamo essere il “partito delle tasse”. Il Partito Comunista vuole abolire l’IVA e tutti i balzelli indiretti che colpiscono tutti indistintamente. Ma certamente noi vogliamo una fiscalità progressiva ed equa. La proposta che avanziamo dal 2011 è quella della Tassa dei Milionari, una patrimoniale che riguarderebbe solo il 2% della popolazione con un patrimonio superiore al milione di franchi (esentata la prima casa fino a un valore di Fr. 750’000.-). I milionari hanno avuto per decenni regali fiscali, hanno goduto di privilegi come nel caso dei globalisti, hanno speculato in borsa, addirittura per chi di loro è un evasore si parla di amnistia fiscale, e questo mentre nel contesto di crisi i salariati pagano fino all’ultimo centesimo. Applicando questa imposta solidale sulla fortuna il Cantone avrebbe un’entrata annua di 340 milioni di franchi, che sarebbe utilissima per le assicurazioni sociali. Lo spauracchio della fuga dei ricchi è poi una colossale montatura: una tale patrimoniale esiste anche in Francia con un tasso di fuga estremamente ridotto, questo perché esistono altre condizioni che interessano a una persona facoltosa: le infrastrutture, i servizi, la stabilità, la sicurezza, ecc.

12. Qual è il tuo giudizio, in termini di quantità e qualità, a proposito degli spazi di aggregazione giovanile in Ticino?

E’ un giudizio negativo. Io vengo da Bellinzona dove abbiamo fatto una figura barbina con la storia del 65 decibel o con la volontà di abbattere il centro giovanile (e questo proprio quando abbiamo vinto le elezioni come Sinistra Unita, un segnale disastroso all’elettorato giovane!). Ma di recente, Simone Romeo, nostro consigliere comunale a Locarno, si è scagliato contro le limitazioni dei concerti in quel comune. Si tratta insomma di un problema strutturale: fra proibizionismi e restrizioni agli eventi ricreativi le città sono letteralmente morte. Ora, qualcuno pensa che parlare di tali eventi equivalga ad affrontare dei problemi “grassi”, che nemmeno dovrebbero occupare i comunisti in quanto partito di classe. E’ una visione del tutto sbagliata: gli spazi di aggregazione sono fondamentali proprio per ricostruire una cultura comunitaria progressista fra le nuove generazioni. Oltre a ciò tali momenti e ritrovi sono determinanti per favorire il controllo informale nell’ottica di una strategia della riduzione del danno per quanto riguarda a rischio da parte degli adolescenti. E ciò è importante se vogliamo evitare di cascare nella repressione moralista e paternalista che purtroppo si sta facendo strada anche in certa sinistra. Nel contempo sono utilissimi per favorire la responsabilizzazione dei giovani, purché non li si ingabbi in consessi neo-corporativi della cultura borghese come i parlamentini giovanili e quant’altro. E’ chiaro tuttavia che se non miglioriamo e rendiamo gratuita ad esempio la rete di trasporti pubblici, tutto questo discorso risulterà vano e lo stesso vale per altre infrastrutture considerate troppo costose a favore delle nuove generazioni. Insomma l’aggregazione giovanile è un terreno anch’esso di un moderno conflitto di classe!

13. Quali sono le contraddizioni insite nella pianificazione ospedaliera prospettata dal governo uscente?

Sul numero 4 di #politicanuova ho già avuto modo di approfondire la questione della pianificazione ospedaliera che nel frattempo è stata contestata dalla preposta commissione. Essa è uno strumento per favorire le strutture sanitarie private, guarda caso in mano o ai soliti noti della politica liberale o alle organizzazione clericali. Insomma si vede che il PPD non ha perso tempo dopo aver ereditato il DSS nel 2011. Oltre a ciò la pianificazione ospedaliera sta procedendo a un declassamento che è un vero e proprio di nosocomi nelle periferie, minando il concetto stesso di servizio pubblico. E non va scordato che il rappresentante del PS in governo non si è opposto a questa tendenza; intanto attendiamo di votare l’iniziativa “Giù le mani dagli ospedali” per la quale abbiamo contributo a raccogliere le firme.

14. Tra gli aspetti più originali dell’elaborazione politica afferente al Partito Socialista Autonomo (PSA) troviamo l’aspra critica al sistema clientelare e lottizzante cantonticinese. Ritieni che tale questione sia ancora attuale ai giorni nostri?

Schermata 2015-05-31 alle 16.23.28Assolutamente sì, peccato che il PSA confluendo – passando per la tappa intermedia dell’ex-PSU – nell’odierno PS nel 1992 si sia adeguato a questa realtà. In pratica il PSA è stato inglobato nella spartizione della torta. Non è un mistero che oggi i partiti – e non è che la socialdemocrazia sia immune da ciò – sono comitati d’affari che spartiscono posti di lavoro, lottizzano l’amministrazione, piazzano parenti e amici in questa o quella commissione, in questa o quella direzione di liceo, in un modo in alcuni casi francamente imbarazzante. Soprattutto quando poi queste stesse persone pontificano sul comportamento immorale di altre organizzazioni. Il Partito Comunista è escluso da questi giochi perché il pedegree delle famiglie proprietarie della sinistra ticinese non ci è concesso (preferendo piuttosto tali famiglie fomentare nuove sigle anticapitaliste). E’ un fattore che ci rende orgogliosi perché questa partitocrazia di semi-feudale che abbiamo in Ticino sta portando il Paese nel baratro.

15. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana e il Movimento per il Socialismo (Mps), in vista dell’imminente momento elettorale, hanno mantenuto l’impostazione unitaria già manifestatasi in occasione delle elezioni cantonali del 2011. Ci si potrebbe domandare: per quale motivo limitarsi solamente a questo grado di unità, e non, invece, procedere con la fusione delle due sigle? In tal senso, quali sono le differenze essenziali – se ce ne sono – tra PC e MpS?

MPS e PC sono complementari, ecco perché la lista 3 mi soddisfa anche politicamente e rappresenta il voto utile a sinistra per il Granconsiglio: dal carattere fortemente sindacale il primo, che proviene dall’esperienza dell’ex-PSL di orientamento troskista e con una modalità di lavoro molto tematica; noi ci siamo invece caratterizzati per essere un partito molto concentrato sui giovani, sull’analisi economica e sulla cooperazione nell’ambito dei nuovi equilibri internazionali, nonché per tentare di costruire una nuova identità marxista che non scadesse nel folklorismo degli slogan roboanti ma che al contrario sapesse delineare delle soluzioni pragmatiche ai cittadini, come ho spiegato rispondendo in merito al processo di “normalizzazione”. Percorsi unitari sono possibili avanzando gradualmente, prestando attenzione ai contenuti e alle strategie partendo però dall’unità d’azione sul territorio.

Note:

(1) L’articolo di Nicolas Fransioli presente su questo numero di #politicanuova contribuisce a fornire contenuti teorici e pratici a questa prospettiva.

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