/

Expo di Maggio, lavoro selvaggio. Una prima cronaca dall’Expo2015 di Milano.

Di primo mattino, tra i militari che smontano dal servizio notturno e le scolaresche allegramente tradotte per una obbligatoria e plaudente iniezione di ottimismo renziano, la sensazione è quella di trovarsi in una coloratissima e scintillante festa degna della Roma del 410. I senatori, incuranti del declino irreversibile della loro società, mentre Alarico e i visigoti entravano in città, determinando la fine dell’impero, ancorché protratta artatamente nei libri di storia fino alla non significativa e solo simbolica deposizione di Romolo Augusto oltre mezzo secolo dopo, si divertivano in allegri banchetti e orgiastiche feste. L’Expo è un po’ questo, con banchetti spesso modesti, ma tutti rigorosamente, rigidamente e salatamente a pagamento, e priva di qualsiasi festosa carnalità. L’Occidente e l’Italia  si festeggiano, pur senza generosità verso i visitatori, mentre il declino irreversibile della loro parte del mondo a vantaggio dei BRICS e dei paesi del Sud del pianeta diventa concreta quotidianità.

expo_2015I visitatori si gettano in accaldate file per entrare negli spazi delle nazioni che conoscono, ovvero quelle europee e poche altre, perdendo così l’opportunità di entrare in quelli del Bahrein o del Sudan e di molti altri stati, continuando a ignorare tutto di quelle nazioni, quando invece potrebbero riceverne un grande arricchimento personale, stabilendo, per quanto superficiale, un primo contatto con realtà significative della terra.

Qualche scolaresca, guidata da docenti illuminati, evita la prosopopea dei padiglioni imperialisti per entrare in quelli del resto del mondo. Così a quello dell’Ecuador apprezzano la biodiversità, il rispetto dell’ambiente, la lotta bolivariana contro le multinazionali, raccontata anche da Bolivia e Venezuela, mentre a quello degli Emirati Arabi Uniti seguono un video toccante chiamato a spiegare il valore dell’acqua, soprattutto per una nazione sorta tra deserti e in cui la pioggia è un raro dono celeste.

Nel complesso l’Expo sembra una festa dell’Unità renziana, stile 2.0, in cui non si regalano i libriccini con le opere di Ho Chi Min, per altro purtroppo dismessi da oltre un quarto di secolo anche dalla sinistra piddina, ma si vendono porcellane vietnamite. Il partito neofanfaniano-liberista manda i suoi ministri all’Expo per corroborare il nuovo ottimismo di stato, ma capita che, mentre il ministro dell’istruzione sproloquia di sport nelle scuole a tutti i livelli, si incontrino a pochi metri le balde e bellissime ragazze dell’Istituto Professionale Sportivo di Bergamo, contraddistinto da una significativa caratteristica: non ha la palestra.

DSC01600Le dogane italiane stanno ritardando deliberatamente l’arrivo di quanto necessario ad aprire i padiglioni dei paesi socialisti, così quello di Cuba è ancora chiuso, la Bielorussia riesce ad aprire solo il ristorante e la Palestina ha lo spazio espositivo mezzo vuoto. I compagni e le compagne della Corea Popolare addirittura attendono ancora il visto a Pechino, ma intanto all’Expo nell’area loro riservata campeggia una gigantografia di Chollima, mitico e velocissimo cavallo alato, nella sua rappresentazione monumentale di Pyongyang,  sempre capace di emozionarmi, là dal vivo, come qui nella sua riproduzione.

Se si è attanagliati dalla fame è consigliato raggiungere il padiglione russo e rifocillarsi con “Pelmeni“, ravioli di carne, anche se io preferisco quelli al formaggio e un ottimo “Stroganoff”, manzo sminuzzato in salsa di funghi. Vicino è il padiglione del Turkmenistan in cui il presidente Gurbanguly Berdimuhamedov campeggia generoso tra i suoi concittadini in decine di riproduzioni che, nel più puro stile sovietico del culto della personalità, accresciuto da una dimensione estremo – orientale  del potere, per quanto il Turkmenistan  si trovi nel cuore dell’Asia Centrale,  esaltano l’amore per chi è capace di farsi concretamente carico della quotidianità dei popolo ed edifica con risoluta destrezza l‘avvenire. Per altro Berdimuhamedov ha raddoppiato gli stipendi dei docenti e aumentato considerevolmente le pensioni, insomma, si capisce perché sia nel cuore dei suoi concittadini.

Il padiglione dell’Angola mostra con forza le conquiste del popolo dopo la vittoria sul colonialismo portoghese, la dignità costruita col sudore di donne  e uomini per i quali l’orizzonte possibile è stato ed è quello dell’eguaglianza.

Al tramonto, mentre il sole smorza i suoi raggi e scolora e il cielo diventa intensamente blu, il pensiero corre al maggio poeticamente poliziano e al suo gonfalon selvaggio, sono infatti in fila per entrare nel meraviglioso e multimediale padiglione kazako, ricco di storioni natanti e video fantasmagorici sull’universo, il tutto in una costante tensione verso l’Expo 2017 voluta ad Astana dal presidente Nursultan Abisuli Nazarbajev, con me in coda anche alcuni volontari dell’Expo: divisa d’ordinanza, volto stanco, un mezzo sorriso, forse obbligatorio, come imposto dalla retorica trionfalistico – festosa del nuovo corso italico renziano, eppure nei loro occhi leggo la consapevolezza di essere lo strumento con cui si è distrutto definitivamente il diritto del lavoro in Italia, introducendo i prestatori d’opera volontaria e gratuita, ultima frontiera del liberismo occidentale, incapace e disinteressato a estendere i diritti, ma pronto, sempre, a distruggerli per tutti e a piegare i forzati senza retribuzione a sorridere “democraticamente” con tragico e remissivo ottimismo.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.

Lascia un commento