Il mondo sta guardando la scena con timore: un gruppo di tagliateste creato per ricambiare il gioco sanguinoso nella periferia del mondo – detta Medio Oriente – assedia una piccola città siriana di nome Ayn al-Arab che, nel 2012 era stata conquistata dalle milizie separatiste curde del PYD (il braccio siriano del PKK di Abdullah Öcalan) e che da quel punto in poi viene chiamata Kobanê soprattutto nei media occidentali.
Le immagini sono straordinarie: gli islamici stuprano le donne, uccidono i bambini, le donne resistono con le armi e il popolo curdo combatte il nemico che i loro compatrioti arabi e turcomanni combattevano da anni. A questo punto si realizza l’ipocrisia: la Sinistra occidentale (ormai davvero “sinistrata”) che taceva quando i turcomanni iracheni venivano massacrati dagli stessi mostri dello Stato Islamico o quando l’esercito siriano combatteva quasi tutti i gruppi salafiti nella regione, sono diventati “i sostenitori della resistenza curda” contro “un prodotto turco” (come dire che i fascisti di Pravij Sektor siano un “prodotto ucraino”, negando il burattinaio che li manovra). Una vittoria della disinformazione, forse?
È una domanda complicata, lo so. Poi quando si parla del Medio Oriente gli affari politici sono sempre complicati e spesso sporchi. Per fare un esempio: se una forza anti-imperialista come l’Iran si allea con i peshmerga (le milizie di Massud Barzani), i suoi ex-rivali filo-statunitensi, per poter sconfiggere lo Stato Islamico prima che intervenissero “i campioni della democrazia”, allora la situazione è davvero strana! In ogni caso, dobbiamo notare il successo dell’imperialismo statunitense: quando si pensava che l’Impero fosse morto, lo stesso Impero è riuscito a vincere in due fronti – ma questa è una questione più ampia.
In sintesi, si vede che l’ignoranza occidentale sulle questioni che riguardano il Medio Oriente è stata risuscitata con l’incursione dell’ISIS e più particolarmente con l’assedio di Ayn al-Arab/Kobanê. Una cosa da sottolineare: qui il motivo non è quello di sottovalutare lo sforzo di un popolo che lotta per la sopravvivenza, ma quello di indicare quanto è efficace la disinformazione in Occidente, soprattutto quando si parla delle figure politiche curde come Barzani ed Öcalan.
La minaccia che legittima la balcanizzazione
La frenesia dello Stato Islamico ha avuto inizio con la caduta della città di Mosul in Iraq a giugno. Nello stesso periodo, c’è stato un “cessate il fuoco” assai strano tra l’ISIS e il governo autonomo curdo ad Erbil (come evidenziato anche da note riviste di geopolitica come “Le Monde Diplomatique“) e queste due forze si sono unite di fatto nell’opposizione al governo centrale iracheno, il quale era decisamente filo-iraniano. Questo evento è stato seguito da una dichiarazione molto sincera da parte di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, che ha affermato apertamente che “il Kurdistan deve essere indipendente se vogliamo combattere l’ISIS” (fonte). Poi, noti ex-diplomatici israeliani hanno commentato che l’Israele dovrebbe “convincere i turchi che questa mossa è più anti-iraniana che anti-turca” (fonte), ma si vedeva che il regime di Tayyp Erdogan in Turchia non aveva bisogno di una tale convinzione: infatti, la prima esportazione ufficiale di petrolio del governo autonomo curdo è stato realizzato proprio grazie alla Turchia e l’importatore non era altro che …Israele (fonte 1 ; fonte 2)!
E questo che cosa c’entra con il PKK, che è un’entità diversa dal governo autonomo curdo in Iraq? Innanzitutto, è un dato di fatto che il PKK è stata la prima fazione ad avvantaggiarsi dall’autonomia curda in Iraq, considerando il fatto che il loro quartier generale sta a Monte Qandil che si trova proprio nella zona amministrata dall’attuale governo autonomo. Un’organizzazione che non ha sparato neanche una volta agli invasori statunitensi, il PKK è sempre stato di fatto protetto dalle azioni degli Stati Uniti nella regione, come appunto la dichiarazione di una “no-fly zone” dopo la Guerra del Golfo e l’opposizione degli Stati Uniti ad un’operazione militare turca nella zona amministrata dai curdi nel 2008 (la quale è stata seguita da una simile opposizione ad un’operazione militare iraniana più recente). Peraltro, il PKK e il governo autonomo curdo in Iraq sono alleati ufficiali contro l’ISIS e godono dell’appoggio degli Stati Uniti (come si può leggere qui; e anche qui). Si può dedurre la densità di questa alleanza anche dall’ultima lettera di Öcalan a Barzani (fonte). Due condottieri che lottano per il proprio “Kurdistan”, anche se non hanno delle ideologie molto diverse – è una storia che si può sentire in qualsiasi periodo di caos, ma di questo parleremo dopo.
L’ordine del giorno: negoziare
Non è un fatto ben conosciuto in Occidente ma il regime di Erdogan in Turchia e il PKK negoziano apertamente dal 2013 e ultimamente è stata emanata una legge che agevola i negoziati tra le parti (fonte). Infatti tali negoziati sono stati il primo motivo con cui il movimento separatista curdo decise di ritirarsi dalle proteste di massa contro Erdogan partite dal Gezi Park nell’estate 2013, dichiarando addirittura che “abbiamo visto dei manifestanti che volevano realizzare un colpo di stato e rovesciare il governo, perciò ci siamo allontanati da Gezi Park” (a questo link si può ascoltare l’intero discorso di Selahattin Demirtaş, il leader del braccio legale del PKK, l’HDP). Anche oggi vediamo che sia il regime turco che il PKK si minacciano vicendevolmente di “cessare i negoziati” quando l’altra parte non accetta le sue condizioni. In altre parole, mentre la Turchia rischia di diventare una nuova Jugoslavia e i cittadini coraggiosi della Siria combattono le orde jihadiste, questi “rappresentanti” dei propri popoli agiscono come se tutto questo fosse un gioco di poker in cui “è all-in: o si vince tutto o si perde tutto” (citazione di Aysel Tuğluk, parlamentare dell’HDP; fonte). Da non dimenticare che parliamo di un’organizzazione il cui leader si era definito chiaramente come un “subappaltatore” degli altri, possiamo davvero aspettare una minima sensibilità? (fonte).
Un “leader” in fuga
Quando c’è una lotta, i leader rimangono con i loro seguaci per guidarli: questa è la regola generale. Ciò comunque non vale nel caso della resistenza ad Ayn al-Arab/Kobanê, siccome il leader del PKK siriano, Salih Müslim, è scappato in Danimarca circa una settimana fa per “fare dei colloqui”. È una storia strana ma non finisce qui: dopo aver fatto i “colloqui”, Müslim è venuto in Turchia per dialogare con l’intelligence turca (il cosiddetto MIT) e il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu (come ha riportato il settimanale “soL”, organo del Partito Comunista (KP) di Turchia: fonte). La notizia è stata confermata da una fonte filo-governativa, il quotidiano “Sabah”, la quale ha sottolineato che Müslim ha promesso di “NON collaborare con l’esercito siriano” (contro ISIS) in cambio dell’aiuto turco (fonte). Più recentemente, lo stesso Müslim ha commentato, riferendosi ai suoi incontri in Turchia, quanto segue: “collaboriamo anche con il Libero Esercito Siriano per combattere lo Stato Islamico […] la Turchia dovrebbe sostenerci nella nostra lotta, è uno dei punti sui quali abbiamo raggiunto un accordo […] saremmo favorevoli ad una soluzione che include anche la Turchia” (vedi qui l’intervista su Al-Jazeera). A questo punto sarebbe opportuno ricordare che il PYD, ossia la sezione siriana del PKK, aveva collaborato col Libero Esercito Siriano prima di dichiararsi neutrale, e in seguito aveva cominciato a collaborare con l’Esercito Nazionale Siriano (guidato dal Presidente Bashar al-Assad e sostenuto dal Partito Comunista Siriano) solo dopo aver visto che quest’ultimo stava vincendo.
Una forza progressista?
Uno dei principali argomenti a favore del PKK è senza dubbio il “fatto” che esso è una “forza progressista” nella regione. Se il punto di riferimento è l’ISIS, allora anche Erdoğan potrebbe essere considerato progressista, ma per assolutizzare tale analisi ci vuole anche un approccio progressista generale. Mi pare che ci sia un po’ di confusione su questo punto. Infatti penso che nessuno sia venuto a sapere che il PKK usa una retorica assai islamista in Turchia e organizza eventi per promuovere una società “fedele alle tradizioni dei nostri popoli” per “combattere la modernità”. Uno di questi eventi era il “Congresso per un Islam democratico” (fonte) in cui Öcalan è intervenuto con una lettera nella quale ha affermato “ritengo che dobbiamo incorporare la nostra lotta democratica e popolare nei principi della religione islamica contro lo statalismo rappresentato dai due grandi centri politici dell’Islam attuale: il nazionalismo arabo e lo sciismo iraniano […] è importante vedere che il concetto moderno dell’Umma (unità religiosa nella terminologia islamica) è multiculturale.” Inoltre si vede che il PKK si allontana sempre di più dal concetto del socialismo. Infatti, Öcalan non si considera più un marxista, definendosi come “un hegeliano” e riferendosi alla sua lotta come “una lotta contro la modernità rappresentata dal capitalismo e dagli stati nazionali” (fonte). Più recentemente, uno scrittore del giornale filo-PKK “Özgür Gündem”, ha “sviluppato” questa posizione di Öcalan dicendo che “il concetto dell’autonomia democratica è un concetto più progressista del socialismo” (fonte). Abbiamo visto un approccio simile, che però ha avuto anche un carattere provocatorio anche durante le ultime manifestazioni a favore della resistenza ad Ayn al-Arab/Kobanê, in cui i manifestanti affiliati al PKK hanno bruciato le statue di Mustafa Kemal Atatürk, il comandante anti-imperialista e amico dei Sovietici, nonché fondatore della Turchia laica e moderna (fonte). Sul ruolo reazionario del PKK si possono dire tante cose, ci limitiamo ad affermare qui che la lotta per la sopravvivenza delle donne in Siria settentrionale non riflette l’ideologia dei personaggi che pretendono di essere i “rappresentanti” dei curdi.
Solidarietà e i vari toni di grigio
Come si può vedere, nel Medio Oriente, e più particolarmente in quest’ultimo assedio, non si può parlare di uno scontro tra nero e bianco, ma esistono i vari toni (scuri) di grigio. È vero che c’è una lotta orgogliosa da parte del popolo curdo contro le orde jihadiste create dall’imperialismo statunitense, ma è un dato di fatto che se le figure politiche curde non avessero “negoziato” con le forze reazionarie nella regione (come il Libero Esercito Siriano e il regime di Erdoğan) per balcanizzare la Siria, oggi lo Stato Islamico non avrebbe avuto la possibilità di massacrare il popolo curdo. In questa crisi politica ed umanitaria, un comunista dovrebbe opporsi a qualsiasi intervento militare dagli eserciti della NATO (e qui una parte della sinistra turca dovrebbe stare attenta), rimanere solidale con i popoli della Siria che resistono all’imperialismo, richiedere l’apertura dei confini per permettere ai contadini curdi di aiutare i loro parenti in Siria ed esigere che lo Stato turco smetta di fornire armi alle organizzazioni fondamentaliste e separatiste, lo Stato Islamico e il PYD in primis.
Aytekin Kurtul
[…] su sinistra.ch il 10 ottobre […]
[…] tra i leader curdi e lo stesso imperialismo occidentale. Avevo già trattato questo tema in un articolo su sinistra.ch, ma dopo la vittoria del PKK alcuni fatti si sono resi più […]