Il fallimento della “soluzione a due stati”: un’illusione coloniale
Per decenni, la formula dei “due popoli, due stati” è stata il mantra ripetuto da Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite. In realtà, ha funzionato da maschera per legittimare la continua espansione coloniale del sionismo israeliano. Già nel 1988, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) accettò questa soluzione, riconoscendo Israele. In cambio non ricevette né terra né sovranità: l’occupazione militare si intensificò, gli insediamenti illegali si moltiplicarono, e la repressione si fece sistemica.
Lo scrisse con lucidità Edward Said: “La soluzione dei due Stati è una trappola. Serve solo a prolungare il dominio coloniale israeliano su tutta la Palestina storica.”
I numeri parlano chiaro:
• Oltre 700.000 coloni ebrei illegali vivono oggi in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
• Gaza è sotto assedio dal 2007, bombardata ripetutamente in modo genocidario.
• Lo stesso regime israeliano è stato definito “apartheid” persino (!) da Amnesty International e Human Rights Watch, ma soprattutto da voci ebraiche antisioniste come Ilan Pappé ed altri.
Uno stato unico: laico, democratico, decolonizzato
L’unica alternativa giusta e praticabile è la costruzione di uno Stato unico nell’intera Palestina storica. Uno Stato che:
• garantisca piena uguaglianza giuridica e civile a tutti i cittadini,
• abolisca l’apartheid e ogni forma di suprematismo etnico,
• permetta il ritorno dei profughi palestinesi, in attuazione della Risoluzione ONU 194.
Come afferma lo storico Ilan Pappé: “serve uno Stato decolonizzato. Solo la fine del sionismo potrà portare giustizia e riconciliazione. La soluzione dei due Stati è morta: è una foglia di fico per l’occupazione.”

Il sionismo non è autodeterminazione, ma colonialismo di classe
Il sionismo non è mai stato un movimento di liberazione: è nato come progetto coloniale borghese di insediamento, sostenuto dalle potenze imperialiste europee. Marxisti israeliani come Tony Cliff e Moshe Machover lo hanno descritto come uno strumento di oppressione coloniale, che ha trasformato parte del proletariato ebraico in forza colonizzatrice al servizio del capitale. Il conflitto israelo-palestinese non è né etnico né religioso: è una lotta di classe tra colonizzati e colonizzatori.
La prospettiva anticoloniale delle forze rivoluzionarie arabe
Oggi, le principali correnti della resistenza palestinese – dal FPLP al DFLP, fino ad alcune componenti politiche di Ḥamās – rifiutano la logica dei due Stati e rivendicano uno stato unico, libero e decolonizzato. Il leader marxista George Habash (FPLP) parlava di una Palestina libera “dal fiume al mare”, dove arabi ed ebrei potessero convivere nella lotta comune contro il colonialismo. Questa visione si inserisce nella più ampia rivoluzione araba, che unisce la causa palestinese a quella di tutti i popoli oppressi del Medio Oriente.
L’OLP di Abū Māzen: dalla resistenza alla collaborazione
Negli anni ’70 e ’80, l’OLP incarnava la resistenza anticoloniale. Ma con gli Accordi di Oslo del 1993, firmati sotto pressione statunitense, ha avviato una parabola discendente. Oggi, sotto la guida di Maḥmūd ʿAbbās (Abū Māzen), l’OLP è percepita da ampi settori del popolo palestinese come una struttura collaborazionista. ʿAbbās ha accettato Israele come “Stato ebraico”, rinunciato al diritto al ritorno dei profughi, e mantiene un costante coordinamento “di sicurezza” con l’esercito israeliano (IDF). L’ANP, creata da Oslo, non è altro che una burocrazia neocoloniale, che reprime la resistenza in cambio di privilegi politici ed economici. Come scrisse Ghassan Kanafani, ben prima di Oslo: “chi accetta di sedersi al tavolo con l’occupante riconosce la legittimità del furto. Non c’è pace con chi ci ha espropriato: c’è solo lotta fino alla liberazione.”

Gli ebrei antisionisti: per la coscienza, per la giustizia
Esiste una voce ebraica antisionista, coraggiosa e coerente, che sostiene apertamente la necessità di uno Stato unico in Palestina:
• ILAN PAPPÉ, storico israeliano: “Non esiste pace senza il ritorno dei profughi e la fine del sionismo.”
• MONI OVADIA, intellettuale ebreo italiano (padre bulgaro, madre russa): “Israele è uno Stato teocratico e razzista. Serve uno Stato democratico per tutti.”
• MIKO PELED, attivista e figlio di un generale israeliano: “Israele è un progetto coloniale da smantellare. Solo uno Stato per tutti può portare giustizia.”
• JEFF HALPER, antropologo e fondatore dell’ICAHD (Israeli Committee Against House Demolitions): “Un solo Stato binazionale è l’unica opzione praticabile.”
• TIKVA HONIG-PARNASS, femminista e marxista: “Il privilegio coloniale va abolito. Solo uno Stato decolonizzato può garantire la liberazione.”
Per un futuro socialista: l’unità della classe lavoratrice
Il marxismo rifiuta ogni concezione etnica o religiosa dello Stato. L’unica prospettiva rivoluzionaria è quella di una comunità politica fondata sulla classe. Uno Stato per tutti – arabi, ebrei, cristiani, musulmani, laici – non è un’utopia: è una necessità storica per abbattere l’apartheid e costruire la giustizia. La liberazione richiede l’unità del proletariato palestinese ed ebraico, oggi diviso dall’ideologia coloniale e razzista.
La sola pace è giustizia, la sola giustizia è uno stato solo
Non ci può essere pace in un contesto di apartheid, occupazione e pulizia etnica. Non ci sarà mai giustizia in due Stati diseguali, in cui uno è colonizzatore e l’altro sottomesso. Uno stato unico, democratico, decolonizzato e socialista è l’unica vera alternativa rivoluzionaria alla barbarie del colonialismo sionista.