Già Stuart Mill, capostipite del liberalismo moderno, affermava senza remori che il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con i barbari. E se nell’antica Roma “barbaro” era considerato quell’individuo estraneo agli usi e costumi dell’Impero, ecco ripresentarsi sotto il capitalismo una definizione gravida del medesimo potenziale discriminatorio. Un altro illustre filosofo della rivoluzione francese, Emmanuel Sieyès, sussumeva infatti i barbari a quei disgraziati votati ai lavori faticosi (…), a quell’immensa folla di strumenti bipedi senza libertà, senza moralità e senza facoltà intellettuali, ai quali si sarebbe potuto anche negare la qualifica di uomo.
Pays barbare è un documentario che rappresenta questa tradizione liberale, che pur mascherata dalle spoglie autoritarie del fascismo, appartiene al bagaglio culturale delle odierne democrazie. Nel corso della pellicola, usurata nonostante la sua grottesca attualità, vengono raccontate le nefandezze perpetrate dall’Italia fascista a danno dei popoli coloniali. Etiopia e Libia diventano così uno spettacolo di asservimento, di umiliazione e di conquista, la cui voce narrante sembra essere incarnata dagli oppressi e dagli espropriati, quasi fosse una malinconica litania. L’incalzante susseguirsi di queste immagini, intercalate da asettici telegrammi del Duce incoraggianti un rapido sterminio dei berberi più recalcitranti, pare suggerire allo spettatore una semplice domanda: com’è stato possibile che ciò avvenisse? La risposta si delinea in un esercizio di potere ritenuto proprio del fascismo, per cui alla sottomissione di un popolo straniero deve innanzitutto precedere il soggiogamento del proprio. Temi quali la missione civilizzatrice, l’arretratezza delle colonie e il diritto all’affermazione su di esse divengono quindi funzionali agli interessi di industriali, finanzieri e imprenditori, che vedendo disarticolata larga parte del dissenso trovano così un fondamento ideologico al loro sfruttamento. Il lungometraggio pone conseguentemente in rilievo i risultati della campagna ideologica del fascismo, il quale è riuscito a raccogliere anche la tacita approvazione di una certa sinistra che, postulando ieri con Gaetano Salvemini la propria solidarietà nazionale solo entro i confini della Patria, si dimostra ancora oggi miope quando appoggia con spirito umanitario i più spietati interventi dell’imperialismo. In questa orwelliana fabbrica del consenso, gli stessi soldati intenti a bombardare con gas e armi chimiche i civili inermi non sono definiti né perversi, né sadici, ma parte integrante di una totalitaria normalità spaventosa.
Ciononostante, c’è chi è ancora oggi convinto che questa fabbrica del consenso, questa macchina di formazione della cultura e delle opinioni, non abbia smesso di funzionare dopo Piazzale Loreto. Al contrario, un sistema di pacifica violenza sulla mente dell’individuo ha rappresentato per gli anni a venire lo strumento più economico per assicurare l’autoconservazione della società; anni per i quali i registi si dichiarano inquieti e sui quali interrogano, nelle ultime battute, il telespettatore. Ebbene, se all’Iraq che non conosceva la democrazia è toccata la fame; all’Afghanistan che non ha incontrato la civiltà il fucile; al primitivo medioriente i bombardamenti sotto gli occhi dell’opinione pubblica, sarebbe d’altronde difficile dare loro torto.
Edoardo Cappelletti
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: TicinoLibero.ch