La figura di Christoph Blocher, leader dell’Unione Democratica di Centro (UDC), è aleggiata come un fantasma per tutto il Festival del Film di Locarno, fino alla fatidica sera di ieri, quando il documentario del regista svizzero Jean-Stéphane Bron è andato finalmente in scena per il pubblico della Piazza Grande. Uno spettro che si è aggirato fino alla fine, tra le voci, che si sono più volte rincorse, sulla possibilità che una delle sedie potesse essere occupata dal protagonista della serata.
Protagonista, ecco, forse è il vocabolo più azzeccato per descrivere il tribuno democentrista. Come imprenditore. Come politico. Ma il regista mette in primo luogo al centro della sua narrazione la vicenda dell’uomo Blocher, all’insegna di un tentativo di codificarne le gesta attraverso le lenti del suo vissuto: nato un lunedì a Laufen Am Rhein, figlio di un pastore protestante, e settimo di undici figli il cui rumoreggiare, unitamente al frastuono provocato dallo scorrere del Reno, tempra il ruggito dell’indiscusso mattatore degli ultimi vent’anni della politica svizzera. Consegue in giovane età il diploma di agricoltore, contro i consigli del padre, che gli ricorda di essere sprovvisto di proprietà su cui dare avvio alla sua attività: «chissà quante volte quel monito sarà risuonato nella sua testa», si chiede Bron, alludendo ad una possibile genesi della sua fame di imprenditore. «Sei sempre dagli Schär. Sei uno Schär», gli fa notare ancora il padre, riferendosi ai vicini, che il giovane Blocher frequenta assiduamente per questioni professionali. Le origini tedesche, come un peccato originale, e le immagini di una manifestazione del 1952, contro la posa di una centralina sul Reno – una sorta di battesimo delle masse e del loro potere per il futuro condottiero della destra conservatrice – completano il quadro che nel disegno di Bron ne delineano la personalità e i tratti caratteristici che ben conosciamo: é lo sguardo sull’uomo di chi – e il regista lo esplicita chiaramente – non ne condivide le idee, ma cerca di comprenderne la formazione.
È un vincente, Blocher. La sua storia lo palesa in maniera evidente: studia, ottiene la maturità, si laurea in giurisprudenza ed emerge presto, scalando l’organigramma della EMS Chemie, industria chimica ubicata nei pressi di Coira, fino a divenire uno degli uomini più ricchi del paese. Le origini umili non lo fermeranno mai: dagli Schär agli Oswald, le sue capacità lo porteranno sempre a legarsi a personaggi all’altezza delle sue ambizioni, puntualmente realizzate.
Chi altro poteva dare vita ad una discesa in campo in versione elvetica?
È nel 1992, in occasione del voto popolare sull’adesione della Svizzera allo spazio economico europeo, che Blocher cambia i connotati della politica nazionale. Solo contro tutti, inaugura le sue battaglie anti-europeiste con un trionfo che stende la strana alleanza tra centro liberista e sinistra cosmopolita (o cosmopolla?), deciso a difendere il paese da un progetto politico ed economico da lui definito fallimentare. La storia gli darà ragione: parliamo di una persona che negli anni ’80 inaugurava fruttuosi affari con il governo cinese, avendone intuito le potenzialità con una trentina d’anni d’anticipo sui comuni mortali. È una vittoria storica ed esemplare, perché segna il prevalere dell’approccio delle destre su quello delle sinistre rispetto alla globalizzazione: la chiave di volta per un ventennio di vittorie della cosiddetta destra populista in tutta Europa, fatta eccezione per quei paesi dov’è sopravvissuta la sinistra non annacquata, di tradizione comunista.
Raccoglie lo storico Partito Agrario e ne guida la transizione al neo-liberismo, conservandone la base popolare a suon d’iniziative xenofobe. «Alla gente piacciono le vittorie superficiali», esclama nella sua automobile sotto le telecamere di Bron – che lo segue nel suo peregrinare per tutta la Svizzera per le elezioni del 2011 – tra la supervisione di un’intervista e l’altra. Cura il dettaglio Blocher: da buon vincente sa che è questo a fare la differenza tra i mediocri e migliori. La macchina da guerra UDC apre sezioni in ogni Cantone, scandalizza il paese con le sue grafiche politicamente scorrette: la politica svizzera è trascinata di peso in una nuova epoca, e ancora una volta sono le visioni blocheriane ad imporsi sull’esistente.
Il documentario fa tappa tra tutte le principali vicende politiche di Christoph Blocher: dalla sua elezione in Consiglio Federale alla sua esclusione dallo stesso, per mano di un’alleanza trasversale che lo rovescia nel nome della collegialità. La sinistra è in prima fila, in difesa dei pilastri dello Stato che era nata per combattere. Comincia qui la fase calante di una parabola con cui il regista sembra voler chiudere la pellicola: il leone ferito, che osserva il delinearsi della sua personalissima Marignano, la battaglia che soppresse una volta per tutte le velleità espansionistiche dei Confederati. Le stesse parole di Oscar Freysinger, uno dei suoi colonnelli di cui – da politico lungimirante – ha saputo circondarsi, sembrano darlo per spacciato in una trasmissione radiofonica che Blocher ascolta durante un ennesimo viaggio in automobile.
Fino a prova contraria, però, Blocher è ancora lì. Il personaggio che risulta dall’ottimo lavoro di Jean-Stéphane Bron non sembra conoscere resa, e forse quello del regista non è altro che un riflesso ormai incondizionato della crisi culturale di cui soffre oggi la sinistra: davvero non ci è rimasta che l’attesa della morte dei nostri avversari per cantare effimere vittorie? Per quanto tempo continueremo a nasconderci, fino a diventare invisibili, dietro l’indignazione per l’ascesa di formazioni politiche come l’UDC e non meglio precisati umori popolari, puntando il dito contro vere o presunte scorrettezze altrui, invece di capire, una volta per tutte, che all’origine dei successi dei Blocher e dei Bignasca risiede principalmente la nostra incapacità di coltivare e sviluppare le nostre istanze, di ritrovare la nostra progettualità in senso strategico e di poterci conseguentemente riconnettere con il paese reale, tornando protagonisti nel nostro ruolo irrinunciabile – pena una lenta morte – di forza popolare? Abbiamo davvero tanta paura di Christoph Blocher, oppure è soltanto una triste scusa per evitare di ammettere, con una trentina d’anni di ritardo, di aver sbagliato strada?
Janosch Schnider
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: TicinoLibero.ch