Devo ammettere che inizialmente avrei voluto commentare un’altra pellicola. Tuttavia l’insensato ostracismo di cui è stato vittima Feuchtgebiete ha fatto sorgere in me – per così dire – un moto di solidarietà. Ho sentito la necessità impellente di mettere alcune cose in chiaro, di porre delle contro-tendenze rispetto ad una liquidazione così superficiale. Il lavoro del regista tedesco David F. Wnendt ha suscitato – in Ticino più che nel resto della Svizzera – un’enormità di reazioni, per la maggior parte aspramente critiche: stando a questa fascia maggioritaria di commentatori si è trattato di un vero e proprio scandalo che ha oltrepassato la soglia del pudore. Non è mancata neppure la dimensione istituzionale: infatti un politico nostrano (che – tra l’altro – ogni anno, ad agosto, immancabilmente, assume le vesti di censore incorruttibile), ha voluto far presente il suo ribrezzo verso le performance veicolate nella pellicola.
Il fatto che nell’opera cinematografica il discorso filmico sia stato inventato dal regista (e, prima, in modalità romanzesche da Charlotte Roche) sembrerebbe apparentemente una constatazione superflua. Tuttavia ciò ci permette di introdurre una dimensione d’analisi incentrata sul messaggio (o sui messaggi) che coloro che hanno dato forma all’opera volevano comunicarci. Concepire il realismo come categoria di totale storicità – cioè in modo non astratto, l’arte come lettura dinamica e creativa (quindi non naturalistica) della realtà storica e delle esperienze umane che vi si raccolgono, ci permette di disporre delle premesse necessarie alla comprensione del messaggio contenuto nell’opera d’arte. Insomma, una pratica realista che si esplica attraverso la messa in evidenza dell’elemento ideologico che l’artista ha la volontà di elaborare di fronte al contatto critico-dialettico con quanto si trova di fronte nella realtà quotidiana. Ed è dunque la ricognizione dalla dimensione dell’esperienza umana a quella dell’elaborazione intellettuale, e più precisamente il fatto di «decifrare la realtà a fini di orientamento pratico» (Sanguineti), che ci permette di cogliere l’elemento specificatamente ideologico che l’artista ha voluto proporci. Ed è soprattutto in base a queste premesse che fermarsi allo stadio epidermico dell’immagine senza (cercare di) procedere ad un’indagine che accerti le cause che ne delineano i tratti restringe gli orizzonti di comprensione e, di fatto, impedisce di approdare all’essenza di quanto ci troviamo di fronte. Immergersi nelle logiche che governano una data produzione artistica, scandagliarne i fondali, è un’operazione metodologicamente e gnoseologicamente irrinunciabile.
Peraltro, anche l’esagerazione e l’iperbole (raggiunte – forse – in alcune scene) fanno parte delle risorse del realismo di matrice novecentesca, in qualsivoglia campo artistico, e costituiscono – assieme alla più complessiva dimensione del surrealismo – lo spartiacque con il naturalismo ottocentesco. Attraverso l’integrazione (anche strutturale) di piani di rappresentazione non forzatamente speculari e fedeli alla realtà effettuale del periodo descritto, prende forma un progetto artistico che si vuole realista nel momento in cui circostanze, fatti e questioni che concernono un determinato tessuto geografico-temporale vengono – indirettamente – fatte emergere. Insomma, il dato per così dire fantastico può, a tutti gli effetti, proiettare lo stato di cose di un determinato contesto. Con un’opera come il Il Fu Mattia Pascal (che certo non è il manifesto artistico di una prassi che si vuole fededegna alla realtà effettuale) Luigi Pirandello non volle forse sollevare tutta una serie di problematiche che effettivamente caratterizzavano la condizione della società in via di massificazione d’inizio Novecento?
Il film – è vero – veicola immagini crude, decisamente spinte. Tale constatazione, tuttavia, a livello analitico, non può e non deve essere l’approdo definitivo: si perderebbero di vista le coordinate qualificanti, ciò che effettivamente conta. Per entrare in dialogo con il regista, per capire quello che ci vuole dire – o, almeno, per provarci – è necessario approfondire l’architettura della pellicola e della realtà che essa vuole racchiudere. Solo in questo modo di procedere potremo comparare linearmente la crudezza dei contenuti alla gravità dei vissuto individuale. (Sarebbe assurdo pensare di sollevare, con una buona performance comunicativa, problemi ritenuti gravi attraverso immagini caratterizzate da un gradazione temperata).
Concependo l’esperienza del corpo come una coordinata da inserire in una prospettiva storica (e quindi non esclusivamente naturale) possiamo estrarre valenze comunicative anche dalla dimensione erotica, dal simbolismo insito nelle espressione più profondamente corporali (in stretta connessione con i meccanismi psicologici e importanti per la psicoanalisi). Appare evidente che in una pellicola come questa una tale operazione è preminente: eludere le pulsioni erotico-sessuali, non inserirle in un apparato di lettura organico (cioè – piaccia o meno – conferirvi il giusto peso come componenti della realtà di un dato soggetto storico) – tipico di una cultura sublimante e censoria – è, invece, penalizzante sotto diversi aspetti. Il corpo, in questo caso, si fa portatore – attraverso la trasgressione, lo smarcarsi dai modelli tradizionali – di un’istanza dinamicamente problematica. Il corpo si fa parola, grido d’aiuto, realismo allo stato puro. Ed è proprio in Helen che la centralità, sproporzionatamente ossessiva e morbosa del corpo, delle pulsioni libidiche, esplicita le gravi lacune delle restanti dimensioni, di tutto ciò che è extra-erotico. Carla Juri (bella quanto brava) l’ha detto a chiare lettere: la protagonista «vive un grande dolore e ha una grande mancanza, che ha cercato di ignorare. Per questo fa tutte queste cose». Ed è dunque partendo dalle lacune esistenziali, dalla mancanza di punti di riferimento e di fiducia in se stessi, dalla mancata individuazione di un proprio ruolo nella società, che va letta la crisi esistenziale di Helen e la conseguente reazione trasgressiva. Rifiutare le avventure scabrose di Helen equivale a non voler vedere le luce (in questo caso altamente problematica) che le proietta, la questione di cui sono rispecchiamento creativo. Significa chiudere gli occhi. Concretamente – oggigiorno – significa ignorare l’esistenza di situazioni sostanzialmente gravi legate al disagio di una considerevole frazione della nostra società. L’arte – a differenza di quello che vorrebbero alcuni benpensanti – non può irrigidirsi in istanze plasticistiche, in una pratica di cosmesi fine a se stessa: essa deve essere in grado di presentarsi come megafono delle infinite sfaccettature di cui la realtà si compone, anche e soprattuto quando ad essere protagoniste sono circostanze particolarmente tragiche.
Nel caso concreto, la condizione di disagio da cui è caratterizzata la giovane vita di Helen, ha ingenerato – nella sua architettura psicologica – tutta una galassia di opzioni sessuali che assolvono il compito di riempire lacune sostanzialmente esistenziali. Solo risalendo la fonte, cioè andando alla radice delle problematiche è possibile inserire queste immagini sparse, solo apparentemente caotiche, in una lettura organica che possa configurarsi come spaccato della realtà. Ecco che in questo modo tutto – verrebbe da dire magicamente – assume maggiore senso. Le struggenti contraddizioni del nucleo famigliare si sommano ad una schiera di ulteriori circostanze negative, determinando nell’adolescente il maturare di problematiche che – lasciate a sé stesse, non medicate – sono state foriere di evoluzioni viziose. Le mancanze, le lacune valoriali, formative (sintomatica l’antitesi dinamica fra l’insegnamento della diffidenza perenne nell’ambito dei rapporti sociali – echeggia ancora, in tal senso, la scena in cui il “non fidarti di nessuno” è manifesto programmatico dell’intera educazione materna – e la voracità nichilistica con cui, concretamente, Helen caratterizzerà i rapporti con coloro che gli stanno attorno) e affettive, l’insicurezza costante di chi non può contare su punti fermi di riferimento, sviluppano nel soggetto una reazione che s’incentra sulla volontà di trasgredire (sessualmente e socialmente).
Quest’opera cinematografica – pur raffigurando un caso singolo, in cui la crisi dell’istituzione famigliare (che in Zone Umide è un’etichetta formale che non esiste realmente e che Helen cerca invano di ricomporre) si sovrappone esplosivamente alle lacune delle istituzioni scolastiche, assenti in modo clamoroso quanto significativo nell’economia della pellicola – si è fatta interprete del vissuto di una fascia particolare quanto importante della nostra società: l’immensa galassia dei disadattati (a cui – peraltro – lo scandalo “perbenista” e “perfettino” dei “normali” non fa ne caldo ne freddo). Le immagini della corporeità quotidiana di Helen e la sua dimensione psicologicamente morbosa sono un manifesto originale della condizione di coloro i quali hanno un rapporto profondamente tribolato con la società e dimidiato con sé stessi.
I problemi che ci circondano vanno accettati. Si tratta di uno stadio irrinunciabile all’interno di ogni processo di risoluzione. Si tratta di comprendere la realtà. In tal senso gli schemi mentali dei cosiddetti “bigotti” sono proprio imperniati sulla stretta reciprocità tra il rifiuto dell’immagine (la rappresentazione “scenica” del problema) e il rifiuto del problema a essa correlato.
Insomma, al disagio, alla complessità dei vissuti, alla “bruttezza” (per dirla con Carla Juri), non si risponde con reazioni offese e scandalizzate (le quali altro non sono che la traduzione di una condanna moralista), ma con l’individuazione dei problemi e con la conseguente prevenzione.