L’ultima recentissima fatica della coppia di registi Simon Baumann e Andreas Pfiffner, ironica, tagliente e dissacrante, con semplicità e disinvoltura va a stimolare i nervi scoperti di una Svizzera ipocrita e benpensante che si troverà proiettata – non senza suscitare qualche risata – sugli schermi delle sale del Festival.
Intervistando passanti e bussando a varie porte, i realizzatori finiranno ricorrentemente, nella loro crociata di recupero del buon nome della patria, a scoperchiare con naturalezza disarmante e senza sforzo apparente i “lati oscuri” dell’animo del cittadino medio.
Prima constatazione di natura geografica e culturale: i realizzatori, confederati di madrelingua tedesca, non percorreranno nel loro viaggio le strade delle regioni latine, andranno però a sconfinare nella vicina Germania.
Il percorso è interessante, ispirato appunto dalla necessità di ristabilire l’immagine della Svizzera e degli svizzeri, avviata al declino a seguito dei recenti sviluppi politico-economici nella situazione mondiale. Per perseguire il loro scopo, i registi si faranno consigliare da varie figure: esperti di marketing, responsabili turistici, e si troveranno sulla base dei consigli ricevuti a percorrere strade diverse.
Partendo da un improbabile distribuzione di sporcizia sui verdi pascoli alle falde del Cervino per rendere meno stereotipato e socialmente accettabile il panorama da cartolina, fino alla messa in scena di un’improponibile scenario di espressione di amor patrio e orgogliosa apertura e accoglienza (dimostrazioni che risulteranno ridicole e poco credibili agli occhi dei vicini germanici cui verranno sottoposte), nel processo di coinvolgimento degli attori inconsapevoli si sfalda il castello di carte della percezione patriottica e della percezione di sé in quanto svizzeri che i cittadini interpellati scoprono essere inconsistente.
L’auto-identificazione svizzera sembra passare attraverso un carosello di cliché turistici promozionali, attraverso paesaggi di laghi e montagne. I personaggi nei loro interventi dimostrano di volta in volta di arrivare a rendersi conto della debolezza del proprio tessuto identitario, basato su un fragile nazionalismo esasperato fatto di bandierine e cioccolata.
L’apertura e l’accoglienza crollano goffamente di fronte alle uscite razziste (finanche naziste) di alcuni elementi interrogati che di pari passo rifiutano di riconoscere il ruolo della Confederazione nei processi di sfruttamento globale, imponendosi il mito di una Svizzera pulita e ordinata, che si è fatta da sé.
Nei quartieri popolari come nelle ville in riva al lago, ricchi e poveri ripetono la nenia che la classe dirigente pare essersi in fin dei conti auto-inculcata. Così la voce dei potenti risuona da ogni giardinetto dall’erba impeccabile e dallo steccato imponente ma lucido: gli svizzeri sono lavoratori (quando non impiegano stranieri al posto loro), gli svizzeri sono aperti (basta che i neri, i musulmani e la gentaglia dell’est si dia un contegno), …
Tra dinamiche da branco in una società percepita come insieme di gruppi inconciliabili e nostalgie nazifasciste – a “Adolfo” si riconosce il merito di aver iniziato una pulizia etnica purtroppo mai portata a termine – anziani dalla presenza simpatica e inoffensiva esibiscono un bagaglio di xenofobia e sentimenti discriminatori tutt’altro che indifferenti.
Senza commentare gli interventi di chi si è limitato a dichiarare alle telecamere, riferendosi agli stranieri: “c’eravamo prima noi”, è preoccupante notare come tra i cittadini residenti da poco in Svizzera, la principale e quasi unica virtù riconosciuta alla Confederazione sia l’assenza di conflitti armati interni alla stessa.
Solo una minoranza di informati ha speso qualche parola riguardo alla problematica del segreto bancario, utile solo a riciclare capitali sporchi di sangue e all’evasione fiscale delle sostanze estere, riguardo al commercio di armamenti e all’infausto operato delle multinazionali.
Piccolo calo di forza nel finale, quando ci si perde in considerazioni abbastanza ingenue (forse solo ulteriormente ironiche, ma ben mascherate?) riguardo a un’Unione Europea vista come simbolo di apertura, collaborazione e solidarietà.
Da parte di chi da tempo suona l’allarme per la guerra tra poveri e la messa in concorrenza dei lavoratori svizzeri e frontalieri, per le propagande padronali xenofobe, lo sfruttamento della manodopera straniera a basso costo e promuove uno sguardo critico nei confronti di una Unione Europea coordinamento dei poteri forti continentali (e non solo), la pellicola è ricca di spunti.
Spunti incoraggianti, perché si conferma un certo tipo di lettura della realtà, ma contemporaneamente preoccupanti, per l’incedere del rancore popolare incanalato in senso ultraconservatore, e di una permanenza di illusione europeista all’interno di un’importante fetta delle voci critiche.
Negli ultimissimi fotogrammi un’Elvezia simbolica, folcloristica (inscenata sulla base della “figura sulla moneta da 2fr.”) si scrolla di dosso qualunque cipiglio patriottardo, abbandona le effigi bellico-allegoriche e si incammina nella luce del domani a fianco del viandante d’altrove.
Sequenza senza dubbio condivisibile nell’ottica di un futuro veramente solidale, più ragionevole e giusto.
Dopo aver visto il film ed aver riso ma anche riflettuto (vale la pena ribadire l’impostazione leggera, il buon ritmo e l’approccio di regia agile e scanzonato), sulle labbra di coloro i quali ancora se la sentiranno di definirsi con disinvoltura e senza imbarazzo cittadini elvetici non potrà mancare la citazione dalla lettera di scuse agli stranieri, proposta come lettura ad alta voce ad una parte degli intervistati:
“…siamo svizzeri, ma cambieremo. Promesso.”
Amos Speranza