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Il papa si è dimesso: dopo l’inutile stagione del pastore tedesco, il tempo della scelta

“… s’i’ fosse papa / sarei allor giocondo, / ché tutti cristiani embrigarei.” (Cecco Angiolieri, 1260-1312)

Grazie alle dimissioni rassegnate lunedì 11 febbraio 2013 si chiude il pontificato del pastore tedesco, un ottennato che è stato esattamente parallelo al settennato di Napolitano alla presidenza della Repubblica italiana. Giusto preceduto di un anno. Ratzinger in realtà meriterebbe di passare alla storia per il suo lavoro al Sant’Uffizio, un quarto di secolo a produrre condanne a teologi e preti scomodi, perché liberi.

Quando è stato eletto nell’aprile 2005 avevo scritto che al contrario di Giovanni XXIII secondo cui “in tutto e in tutti si trova il bene”, Ratzinger ha sempre creduto importante difendere con la scure dogmatica la verità che riteneva indiscutibile, come uno e indiscutibile per lui è il bene, declinato nel noioso e poco fraterno catechismo della chiesa cattolica, altra opera del cardinal Ratzinger regnante Wojtyla. Rispetto al suo predecessore, Ratzinger ha cercato, forse e più che altro su pressione internazionale, di rimediare ai disastri della repressione sessuale dei preti e alla conseguenti degenerazioni violente e prevaricatrici della pedofilia, ha praticato poco il dialogo con gli altri cristiani e le altre fedi, si è chiuso in un mondo suo, forse anche per il costante peggioramento delle sue condizioni fisiche e cardiache.

Certo ha avuto un’idea medievale del pontificato, intellettuale e letteraria, più ancora delle sue scarpette rosse di Prada, hanno fatto sorridere i suoi paramenti sacri tutti desunti dai grandi dipinti del ‘400 e del ‘500, eppure il passato non può tornare. Ratzinger ha vissuto, ha provato a vivere, in una dimensione ideale e idealizzata del papato, pensava di essere Giulio II Della Rovere, di cui ha riesumato la berretta raffaellita, pensionata da Paolo VI, non capendo i tempi in cui stava vivendo. Il suo pontificato è poca cosa rispetto alla sua attività cardinalizia, travolto in questi otto ultimi anni anche dal suo disinteresse o almeno dalla sua incapacità a mettere mano ai guasti della curia. Forse ci ha provato, ma la curia lo ha sopraffatto, forse voleva essere riformatore, ma è stato travolto dalla burocrazia ecclesiastica, dai limiti impostogli dalle realtà politico-economiche che lo hanno eletto, a partire dall’Opus Dei, esempio tra i più nefasti di una diffusione e di un potere dei gruppi (CL, focolarini, legionari di cristo, neocatecumenali, …) implementato da Wojtyla contro le comunità cristiane territoriali, ovvero le parrocchie.

Le dimissioni sono forse l’unico atto libero, d’orgoglio, non sottoposto a una collegialità che si è rivelata non arricchente ma lugubre, quella del sistema di potere vaticano, al quale Benedetto XVI si è sottomesso in cambio della libertà di poter scrivere encicliche interessanti, teologicamente e letterariamente, ma che non hanno alcuna incidenza nella o aderenza alla realtà e che mai nessuno più leggerà dopo le sue dimissioni.

Il suo grido di mercoledì 13 febbraio 2013 in udienza generale: “Le divisioni ecclesiali deturpano la Chiesa, bisogna superare le rivalità”, risulta tardivo e dovrebbe obbligare Ratzinger a interrogarsi sul perché solo piccoli giochi di potere e di soldi agitino il palazzo vaticano. Prima di tutto perché lui ha ridotto tutto e tutti, da cardinale inquisitore, al silenzio. Il confronto non è sulle idee, come ad esempio il sacerdozio femminile, ma meschino gioco di potere dei cardinali.

In otto anni non ha scritto una “Populorum progressio” né una “Pacem in terris”, ma nemmeno qualcosa che avesse vagamente la forza di porsi dentro la realtà quotidiana di una umanità che è più dolente che  felice, più desiderosa di una parola sul senso della vita che sulla giusta interpretazione teologica e filologica del libro biblico di Baruc, che pure, come ogni altro testo sacro, potrebbe essere riletto alla luce del presente e delle sue domande, domande a cui Ratzinger non ha mai saputo rispondere, perdendosi nei rivoli di una esegesi biblica ammuffita e polverosa.

Le circostanze hanno avuto il sopravvento su di lui e si è lasciato zittire dalla curia, riducendosi così ad una autonomia fatta solo di riflessione teologica, fuga privata e privatistica di un uomo che dovrebbe avere obblighi pubblici, addirittura mondiali, come vorrebbe il ruolo rivestito.

Dante lo infilerebbe insieme all’altro dimissionario, Celestino V, tra gli ignavi, non tanto per le dimissioni, ma per la totale assenza di coraggio che si è trasformata in distanza dalla realtà, in distacco volontario/involontario dalle donne e dagli uomini fatti di sangue e di carne, di gioie e di disperazioni.

Per la chiesa sono stati otto anni inutili. Tempo perso.

Ora la chiesa ha davanti a sé la possibilità di smarcarsi dall’identificazione con l’Occidente, del quale può vivere, se vi resterà identificata, confermandosi religione dei paesi NATO e delle istituzioni finanziarie di questi paesi, in esatto parallelo, solo un brutale e rovinoso declino.

O la chiesa diventerà cattolica, ovvero, come dice la parola greca “universale”, o scomparirà presto. Perché essere cattolica significa non essere più euro-centrica, piegata a stampella religiosa di un sistema di potere al suo tramonto. Per altro il maggior numero di cattolici vive in tre nazioni che stanno fuori dal vecchio continente: Brasile, Filippine e Messico. Basterebbe iniziare ad avere un papa che rappresenti la base del cattolicesimo, non i soliti interessi.

Ma forse come dicono sinceri cattolici, meglio scompaia la bimillenaria istituzione politica, perché forse solo così tornerà a germogliare il fiore della fede, il fiore dell’amore per il prossimo, come ripete da anni l’ex presidente della “Rosa Bianca” italiana, che aspira a vedere il primo papa di nome Francesco, nome che da otto secoli i pontefici schivano inorriditi, puzzando troppo di amore per il prossimo e di povertà evangelica, concetti che mal si conciliano con lo splendore del potere che risplende da San Pietro.

Eppure solo amore per il prossimo e povertà potrebbero salvare una chiesa tanto piegata su se stessa da non vedere più il mondo, ma solo il proprio ombelico che, ovviamente, di quel mondo il centro certo non è.

Chi sarà il nuovo papa?

Potrebbe essere un reazionario peggiore del pastore tedesco, in quel caso il disinteresse accompagnerà il declino del Vaticano.

Oppure potrebbe essere un papa Francesco, magari proveniente dal sud del mondo, un papa africano, asiatico, latinoamericano, capace di indire un nuovo concilio che autorizzi quello che già accade, come in Belgio, dove un maestro di una scuola cattolica la domenica va a messa col compagno, a cui è unito da un atto sancito dallo stato, e i figli adottati. E poi ancora fine del celibato, della sessuofobia, della marginalizzazione delle donne, dell’esclusione delle comunità dall’elezione dei vescovi e parlo di comunità cristiane, non già di gruppi di pressione organizzati, quelli che decidono oggi. Occorrerebbe che rinunciasse al titolo di vescovo di Roma, da attribuire a un vescovo con sede in Laterano, ugualmente a quello di primate d’Italia, da decidere liberamente all’interno della conferenza episcopale italiana. Dovrebbe restare pastore della cristianità e capo di stato vaticano, due obblighi già sufficienti da assolvere, se li si vuole assolvere bene. Potrebbe iniziare a passare lunghi mesi a Gerusalemme, presso il patriarcato latino, non solo a Roma e Castel Gandolfo. Dovrebbe avere più familiarità con le periferie di Kinshasa, dove masse di bambini nudi muoiono di fame, piuttosto che con le stanze dei potenti, che dovrebbe certo frequentare, ma per portare la voce degli ultimi, non già vuote parole di confortante amicizia a chi ha la responsabilità del mondo e lo lascia così ingiusto e privo di eguaglianza. La carica di capo di stato sarebbe rafforzativa della missione universale del primato dei poveri e dell’amore. Altrimenti tale carica rischia di essere solo la copertura giuridica del riciclaggio dei soldi sporchi e mafiosi di passaggio nelle casse della banca vaticana, previa ovvia lauta offerta e sonnecchiosa distrazione del barone tedesco neo-presidente. Potrebbe anche procedere con ortodossi e protestanti a una revisione del calendario liturgico che dia unità ai cristiani, così come proporre un grande incontro a Hebron, sulla tomba di Abramo, in Palestina, tra i tre monoteismi delle due sponde del Mediterraneo, figli del comune patriarca. Un eccesso di dialogo interreligioso serve solo a qualche bella fotografia, magari con un monaco buddista e un capo pellirosse, occorrono invece gesti concreti che pongano basi serie e solide di dialogo tra cristianesimo, ebraismo e Islam. Insomma il nuovo papa avrebbe molto da lavorare, ma dovrebbe avere le idee chiare.

Se invece sarà l’ennesimo prodotto della burocrazia curiale, del conformismo conservatore, della paura retriva e anodina di tutto ciò che non è vecchio e noioso come lei, del peggior rigorismo imbalsamatore di una fede che invece corre libera in tante persone che sono cristiane oggi secondo gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, saranno altri anni inutili, probabilmente e per fortuna gli ultimi. La fine della più antica struttura di potere del mondo ancora operante. Un benefico e inevitabile ritorno all’insignificanza politica, come ai tempi del primo cristianesimo.

I numeri sono tutti contrari al cambiamento. I cardinali che entreranno in conclave sono 117. Cinquanta nominati da Wojtyla e 67 dal pastore tedesco, in larga maggioranza di orientamento fortemente reazionario. È abbastanza ridicolo immaginare che dei 231 cardinali nominati da Wojtyla, un numero strepitoso, più che doppio di qualunque suo predecessore, probabilmente mai nessuno diverrà papa. Perché se i cardinali si orientano su qualcuno che ha più di 75 anni, rischiano di mettersi nella condizione di avere a breve un altro dimissionario. Il cardinal decano non partecipa avendo 95 anni, è l’amico del dittatore cileno Pinochet Angelo Sodano, non essendo morto il papa, non avrà nemmeno l’onore di celebrarne il funerale. Il cardinale camerlengo che dovrebbe constatare la morte del pontefice, ma non in questo caso, è quel Bertone, salesiano fido compagno di Benedetto XVI e suo segretario di stato, l’uomo probabilmente più odiato dentro la curia romana, rude come il mitico terzino degli anni ’60 che porta il suo stesso nome, Tarcisio Burgnich, gestirà la sede vacante, poi scomparirà dalle scene per sempre.

Fare una previsione tra i molti nomi che circolano è del tutto inutile. La scelta è oggi inconoscibile, anche se complesse trame sono già all’opera. Gli italiani sono solo 28, gli europei minoranza, essendo 61, ma tutto ciò significa ben poco. I fili di una partita così delicata vengono tirati, anzi strapazzati a lungo. In prossimità della chiusura delle porte della cappella Sistina si potrà raccogliere qualche indicazione più precisa, liberamente o incautamente svolazzante tra il colonnato della piazza berniniana.

Si dice che nel tempo della sede vacante lo spirito soffi potente. Visti gli ultimi decenni verrebbe da dubitare, ma è anche questo il tempo in cui si può sperare di rimanere stupiti. Quindi confidiamo nell’imprevedibilità, che ci regali stupore, sperando sappia vincere il clericalismo bieco e arrogante di una chiesa da troppi decenni chiusa in una visione repressiva e cattiva di tutto ciò che è altro da lei.

Tutto volge al peggio e non occorre certo la presunta profezia di un tal  Malachia, oscuro affabulatore medievale, per raccontarci che, questo che arriverà, sarà l’ultimo papa “Petrus Romanus”.  È il mondo, o meglio la presenza dell’uomo sulla terra che, secondo scienziati affermati, volge di corsa verso la propria sparizione. Non è certo questo il tempo in cui prestar attenzione a un vecchietto che voglia farci la predica e la morale.

O sarà uomo capace di parlare all’umanità, oppure il nuovo papa sarà l’ultimo ragioniere che con piglio impiegatizio chiuderà la baracca, certo oggi molto fatiscente, del Vaticano spa.

L’amore e la povertà a volte vincono, è raro ma succede, abbiamo qualche giorno di sede vacante per sperare accada, più ancora che per il bene della chiesa, per il bene di una umanità  che si trova sprofondata nel doloroso collasso dell’eco-sistema, preda di furie speculative di una arrogante e arricchita tecnocrazia e di una imminente, come dice il governo statunitense, guerra per l’acqua.

413° anniversario del bruciamento per volontà papale di Giordano Bruno in campo de’ Fiori a Roma, per ordine del predecessore di Ratzinger al Sant’Uffizio, cardinale Roberto Bellarmino da Montepulciano, poi fatto santo con ricorrenza canonicamente celebrata il 17 settembre di ogni anno dalla chiesa cattolica.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.

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