Una conferenza di Giorgio Gattei sulla crisi economica fa il giro d’Italia

In diverse città italiane è in corso una campagna di discussione e confronto che prende spunto dalla presentazione del volume “Il vicolo cieco del capitale. A che punto è la crisi sistemica?”, una pubblicazione che raccoglie le relazioni presentate al forum promosso dalla Rete dei Comunisti tenutosi a Napoli nel luglio scorso.

Lo scorso mercoledì 28 dicembre é toccato alla città di Bologna accogliere questo evento. Attraverso le relazioni di Giorgio Gattei, professore di storia del pensiero economico presso l’Università di Bologna e di Luciano Vasapollo, professore di Analisi Dati di Economia Applicata all’Università «La Sapienza» di Roma, un folto pubblico ha potuto affrontare e approfondire la questione della crisi economica.

In questo primo articolo verrà presentato l’intervento del professor Gattei, il quale si é occupato di eseguire una diagnosi della profonda impasse in cui l’Italia – assieme a molti altri stati mediterranei – é immersa. Una situazione che é molto più difficile da risolvere rispetto alla crisi economica del 1929 poiché attualmente – dato l’ordinamento globalizzato in cui ci troviamo a vivere – le potenziali politiche nazionali vengono decisamente spiazzate. Gattei ha iniziato la propria relazione illustrando le tre strategie di fuoriuscita dalla crisi che in questi tempi sono state evocate dai diversi soggetti istituzionali ed economici interni al capitale: in primo luogo il traghettamento dell’Euro verso un percorso di apprezzamento che spiazzerebbe il dollaro e porrebbe le basi affinché la valuta europea diventi moneta di riserva mondiale; in secondo luogo il percorso inverso, ovvero la forte svalutazione dell’Euro, il cui maggiore beneficio sarebbe costituito dal fatto che le merci europee avrebbero le chanches per essere maggiormente competitive; in terzo luogo – la soluzione che sta emergendo – la creazione di due valute europee.

Il capitale impegnato in lotte esterne ed interne; i lavoratori subiscono e stanno a guardare

Sembra strano: stiamo assistendo ad un confronto duro e serrato eppure i lavoratori sembrano essersi messi da parte (o – quantomeno – non esprimono quella incisività combattiva che sarebbe auspicabile nel momento in cui si verificano tali aspri attacchi al mondo del lavoro su scala nazione e sovra-nazionale). Un altro conflitto é comunque presente e percettibile e si svolge all’interno dello stesso fronte, quello del capitale, tra due parti, quella finanziaria e quella industriale.
Nella fattispecie assistiamo a un confronto tra creditori e debitori. Queste due condizioni si collegano ad una dimensione geografica ben precisa che va inscritta nella dimensione Europea, nella quale vi sono macro-aree sostanzialmente debitrici ed altre sostanzialmente creditrici. L’Italia – assieme agli altri PIIGS, simpatico e tristemente azzeccato acronimo coniato per definire tutti quei paesi (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) caratterizzati da precari livelli dei conti pubblici che si uniscono ad una scarsa competitività sul mercato internazionale – si trova in debito. I nostri maiali sono vieppiù accomunati da una bilancia commerciale costantemente in rosso. Tale condizione non risale tuttavia a tempi remoti, bensì é legata indissolubilmente ad uno scenario ben definito: il progetto di integrazione europeo e specificatamente l’introduzione di una valuta comune (Euro) alle nazioni aderenti. I dati mostrano con efficacia come l’Italia abbia subito una forte contrazione delle esportazioni al momento dell’entrata in vigore di tale nuova valuta.

Il ruolo nefasto della moneta unica

I motivi di questa regressione commerciale sono presto spiegati: con l’Euro non é possibile effettuare delle svalutazioni competitive e dunque la battaglia tra le diverse merci nazionali si gioca maggiormente sul rapporto tra qualità e prezzo. L’indebitamento sovrano dei paesi mediterranei non è dunque l’effetto di governi eccessivamente spendaccioni, bensì del mal riuscito amalgama, all’interno dell’Unione Monetaria Europea, di economie nazionali organicamente difformi per capacità di produzione e, soprattutto, di esportazione – e questo proprio quando la moneta unica toglieva ai paesi in deficit commerciale la possibilità di adottare “svalutazioni competitive” della propria moneta per pareggiare i conti con l’estero, come era stato il caso della svalutazione della lira nel 1992.
Un’economia ad alto valore aggiunto come quella germanica non ha alcun concorrente quando sono assenti vincoli protezionistici (i quali nelle nazioni aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio non sono attuabili) e strumenti di politica monetaria nazionale. E così, gli Euro con cui l’Italia e gli altri stati mediterranei hanno pagato quote maggiorate di importazione riappaiono sotto-forma di credito – conseguente all’acquisto di titoli del debito pubblico – da parte della Germania. Tuttavia, se lo scompenso della bilancia commerciale è stato pagato dai “maiali” in moneta comune, essi se la sono vista restituire in cambio di titoli dei loro debiti sovrani così da lucrare interessi fino al loro rimborso. E il circolo vizioso si avvita quando le aziende che permangono sul territorio vanno in contro a scenari di chiusura (si pensi alla Tyssen Group e all’Ilva): la desertificazione produttiva, la meggiornificazione si rivelano come le definizioni più calzanti per descrivere il cammino affrontato da queste aree periferiche (é palese, per quanto riguarda la specificità italiana, come non sia possibile sostenere l’economia nazionale con il lusso, il celeberrimo made in Italy: é invece necessario disporre di un’industria che metta sul mercato quantità considerevoli di prodotti di massa). E, con il peggiorare della situazione, di fronte alle trattative relativa al rinnovo del debito, l’unica possibilità per continuare a fruire del sostegno finanziario tedesco é quella di accettare un aumento dello spread.

La Germania impone il Fiscal Compact

D’altro canto, nel caso fosse dichiarato il default dei “maiali”, uno stato come la Germania, che possiede i titoli di questi stati, si troverebbe con quella loro parte di portafoglio inesigibile e andrebbe in contro ad un declassamento ad opera delle agenzie di rating che si tradurrebbe nella perdita della “tripla A”. In questo potenziale frangente, per difendere la massima valutazione del proprio debito sovrano, la Germania ha imposto ai “maiali” di non far scherzi e di obbligarsi a ripagare i loro creditori senza esitazioni. Tutto ciò attraverso l’accordo di Fiscal Compact sottoscritto dai governi europei nel marzo 2012 poi passato alla ratifica dei parlamenti nazionali. La “filosofia” del fiscal compact – secondo Gattei – è presto detta: “se lo spread peggiora la situazione finanziaria dei bilanci pubblici dei paesi “maiali” minacciandone il default, il rimedio sta nel rimborsare la più parte del debito sovrano esistente vincolandosi contemporaneamente a non accenderne più altro”. Il Fiscal Compact – che non é stato assunto dall’opinione pubblica secondo le reali e gravi conseguenze che potrebbe avere nel contesto socio-economico italiano – ruota attorno a due cardini. In primo luogo il bilancio dello stato dovrà essere obbligatoriamente in pareggio e ciò sarà realizzato attraverso una stretta sul deficit. In tal senso é stato stabilito che, nel caso (sperabile) in cui lo stato effettuasse delle spese, esse dovranno essere completamente coperte dal gettito fiscale. E «siccome tra le spese sono compresi pure gli interessi da pagare sul debito esistente, i governi si obbligano a realizzare un avanzo di bilancio primario, che è il saldo positivo d’imposte e tasse sulle spese statali. Se così non verrebbero più contratti nuovi debiti, per quelli vecchi che fare? Qui interviene il secondo vincolo che prevede il rientro in vent’anni della parte di debito eccedente il 60% del PIL, che è la percentuale originariamente prevista dagli accordi di Maastricht. Allo scopo di capire l’entità dello sforzo finanziario richiesto ai paesi “maiali”, si consideri il caso dell’Italia: a fronte di un debito pubblico che sfiora i 2000 miliardi di euro (120% del PIL), in vent’anni lo si dovrebbe ridurre della metà a colpi di 50 miliardi all’anno (50×20 = 1000). Ma considerando che ci sono anche gli interessi dai pagare sul debito esistente (sebbene in diminuzione per la riduzione progressiva del suo ammontare), si stima la necessità di un avanzo primario di 65 miliardi di euro all’anno da coprirsi con l’imposizione fiscale anche in assenza di qualsiasi spesa pubblica». Un cotale gap di partenza (quando si dice partire con il piede giusto!) é la garanzia più solida e certa del taglio al welfare. In questi frangenti, il fatto che venga addirittura nominato un pro-console che giudichi i progetti di legge sul bilancio nella condizione di rifiutare quelli che denotano lontani sentori d’indebitamento pubblico, rende alquanto bene l’idea circa la sostanziale perdita di capacità parlamentare dello stato nazionale di fronte ai diktat di un’entità sovranazionale come l’Unione Europea (UE). E se Wolfgang Schäuble, Ministro delle Finanze tedesco, profeta della cosiddetta austerità espansionistica, persevera nel ribadire che i piani di austerità non creeranno recessione bensì sviluppo, pure il Fondo Monetario Internazionale (FMI), dopo un’iniziale dichiarazione circa gli effetti positivi della stretta di bilancio (cioè dell’austerità), ha dovuto rivedere le proprie stime.

 

La Germania si incastra

E se i paesi mediterranei – data la recessione viziosa in cui sono affogati, aggravata dai piani di austerità che deprimono la domanda – non importano più nella misura in cui lo facevano nel passato, la situazione si ritorce anche contro la stessa Germania, che si trova privata di un’area da irrorare con i propri prodotti d’esportazione. Si sono incastrati da soli: é la fine del gioco e urge, per questo paese, individuare una strategia valutaria e commerciale alternativa sul medio-lungo periodo. In tal senso, se può correttamente apparire non decisivo il fatto che Angela Merkel sia corsa più volte a Pechino per concordare contratti d’esportazione con la Cina (in ragione del fatto che questo paese si sta progressivamente concentrando sullo sviluppo di un solido mercato interno e quindi non dovrebbe voler assorbire le merci germaniche), Gattei – citando una recente notizia – ricorda che la Bundesbank ha reso nota l’intenzione di inventariare le proprie riserve d’oro sparse in giro per il mondo. La maggior parte di queste sono custodite negli Usa. Al fine di accertarne il valore – come fece De Gaulle che, non potendo dormire sonni tranquilli, nel 1965 ordinò a una nave della marina di attraversare l’Atlantico per recuperare 150 milioni di dollari in oro custoditi nei caveaux della Fed di New York e trasferirli nella Banque de France a Parigi- ne saranno importate 50 tonnellate all’anno. Queste importanti riserve potranno e dovranno fungere da sostegno alla nuova moneta (Neuro, ossia l’euro del Nord) che – in lotta valutaria con il dollaro nell’accaparramento del risparmio alle diverse scadenze debitorie del 2012 – Germania e altri paesi (principalmente nordici) adotteranno. Abbandonando al suo destino una Unione Monetaria fallimentare allo scopo di riprendersi una piena sovranità monetaria, la Germania, separandosi dai paesi “maiali”, potrebbe esprimere il proprio debito sovrano in marchi o in altra moneta (Neuro). Se da un lato vi potrà essere una perdita di competitività per quanto concerne l’export, dall’altro, questa area valutaria, non dovrà sobbarcarsi il salvataggio dei paesi mediterranei e garantirà la valutazione “a tripla A” per la Germania. Affaire à suivre…

Aris Della Fontana, coordinatore della Gioventù Comunista della Svizzera Italiana

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