L’ultima edizione del Festival del Film di Locarno è stata più interessante di quelle che la avevano preceduta sotto la gestione di Olivier Père. Forse la maggiore esperienza e la più alta confidenza con la realtà locarnese, sicuramente diversa dalla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, hanno permesso al direttore artistico di origini marsigliesi di trovare una linea di maggior continuità nei dieci giorni di Festival. Oltre a ciò, particolarmente apprezzabile è stata la scelta di inserire un maggior numero di film che, direttamente o indirettamente, portavano argomenti di critica sociale e notevoli spunti di riflessione su svariati temi. Uniche pecche, sono state la poco convincente scelta delle pellicole per la Piazza Grande e il fatto di aver inserito diversi film di una certa età della sezione Open Doors dando così poco spazio a registi emergenti provenienti dalla regione scelta, quest’anno l’Africa francofona subsahariana.
La principale sezione del Film Festival, ossia il Concorso internazionale, ha visto quest’anno diversi film molto belli e ricercati sia nelle tematiche che nella realizzazione. Dal punto di vista personale, quello che sicuramente più mi ha colpito è stato “Compliance” di Craig Zobel. Il film narra la storia di una ragazza che viene trattenuta dalla propria gerente nel fast food dove lavora, su richiesta di un fantomatico ufficiale di polizia, a causa di una presunta accusa di furto ai danni di una cliente. Tramite un abile quanto inquietante gioco psicologico, il malfattore riesce ad attuare le proprie perversioni utilizzando le gerente e il proprio fidanzato, oltre ad alcuni colleghi. Fermandosi alla trama in sé, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un thriller psicologico ben orchestrato, ma all’inizio del film il pubblico viene avvertito che si tratta di una storia vera, e alla fine della pellicola che sono stati registrati 70 casi analoghi in 30 Stati diversi degli USA. “Compliance” ci pone all’attenzione svariati temi: dalla sudditanza nei confronti delle forze dell’ordine, alla padrona interessata più a difendere la reputazione del proprio locale rispetto alla tutela dei propri impiegati, oppure alle debolezze e agli istinti che l’uomo presenta e manifesta se messo in situazioni di potere assoluto.
Un altro film del concorso internazionale degno di nota, nonostante si tratti di una commedia, si è rivelato “Mobile Home” di François Pirot: lavoro originale nello sviluppo di una tematica ampiamente utilizzata come quella del viaggio. Dopo aver lasciato la ragazza e il lavoro, il giovane Simon torna al suo paese natale, dove ritrova il suo vecchio amico Julien. I due trentenni decidono di rispolverare un vecchio sogno dell’adolescenza: partire per un’avventura «on the road» a bordo di un camper acquistato con tutti i loro risparmi (o meglio: solo quelli di Julien). A causa di una serie di imprevisti, il viaggio non decolla, e i due sono costretti a lavorare come braccianti per racimolare il denaro sufficiente a pagare le riparazioni del camper e a far iniziare l’avventura. Tra sogni infranti, legami effimeri e la difficoltà nel lasciare tutto e partire, i giovani intraprenderanno strade diverse.
Impossibile non commentare il documentario svizzero “Image Problem”. Realizzato sullo stile di quanto fatto dall’americano Michael Moore, Simon Baumann e Andreas Pfiffer cercano di ristabilire l’immagine della Svizzera e dei suoi abitanti, sempre più in declino in seguito ai recenti sviluppi politico-economici nella situazione mondiale. Per perseguire il loro scopo, i registi si faranno consigliare da varie figure: esperti di marketing, responsabili turistici, ecc. che li indirizzeranno a percorrere strade diverse. Documentario incalzante e scorrevole, non senza diverse risate, porta il pubblico a riflettere sulla considerazione che ha il cittadino medio nei confronti dello straniero. Smentendo la falsa tradizione di accoglienza e apertura alla multiculturalità – anche se la pecca della pellicola è che documenta unicamente la situazione della Svizzera Tedesca sfociando nella Germania del Sud per catturare gli stereotipi sugli svizzeri – l’opera dei registi elvetici riesce comunque nell’intento di far riflettere lo spettatore sulla situazione del nostro Paese.
Da ultimo una menzione va anche a “Somebody Up There Likes Me” di Bob Byington, che ha ricevuto il premio speciale della giuria, che racconta la storia di un uomo annoiato dalla propria vita che si lascia travolgere dagli eventi senza opporre alcuna resistenza. Circondato da persone simili che invecchiano intorno a lui (che rimane sempre giovane grazie a una misteriosa valigetta) il film riesce a cogliere degli aspetti interessanti nella vita dei personaggi e nelle relazioni che si intrecciano tra loro.