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La vigilanza comunista: in ricordo di Roberto Bertuzzi

Non era famoso né ricco, non ha mai fatto “carriera” né si è mai pentito della sua storia e dei suoi ideali e non ha mai sparato a nessuno per fare il fanatico durante una festa di Capodanno, come invece è capitato di fare (in Valsesia) a un deputato di Fratelli d’Italia neanche un anno fa. Per questo, Roberto Bertuzzi era rappresentativo dei compagni della Vigilanza del Partito Comunista Italiano (P.C.I.). Eppure la sua storia è tanto significativa da essere toccante.

Non ha mai avuto una propria famiglia, e fin dalla più tenera età ha passato la sua vita negli orfanotrofi, dove ha fatto molto presto conoscenza con lo squallore di certe istituzioni (mi riferisco agli anni ’50 e agli inizi dei ’60) ed ha imparato molto bene cosa sono il sopruso, la prepotenza, la solitudine. Com’era normale, per una storia di questo tipo, dopo aver fatto le scuole dell’obbligo negli istituti che lo ospitavano è stato indirizzato al lavoro, ovviamente come operaio. Così, già nei pieni anni ’60, si ritrovò a lavorare alla Voxson, una delle più grandi fabbriche della Tiburtina, la principale zona operaia e industriale di Roma.

Lì si specializzò come fabbro e maturò una coscienza di classe che gli permise di convertire la rabbia e la violenza che aveva assorbito fin dall’infanzia in una limpida scelta di vita comunista, per una società nuova che potesse generare un’umanità nuova, libera dallo sfruttamento e dall’oppressione, per liberare tutte e tutti dalla solitudine della sopraffazione e dello sfruttamento. Fu uno dei tanti giovani componenti del Consiglio di fabbrica e si iscrisse alla cellula del P.C.I., in seguito organismo della Sezione Operaia Tiburtina (alla quale ero iscritto anch’io) del Partito. É da quei tempi che me lo ricordo, lo conoscevo di vista, per esempio incontrandolo agli attivi di zona della FIOM a Ponte Mammolo.

C’è una verità così eclatante che non si dice mai: tra tutte le forze politiche esistenti all’interno dei paesi aderenti alla Nato, era proprio il P.C.I. il Partito più temuto ed odiato dai circoli più reazionari e guerrafondai. Lo stesso vale, manco a dirlo, per il padronato del nostro paese.
Nulla è stato lasciato di intentato: dai mancati colpi di stato all’impiego della brutale violenza fascista, dall’uso della mafia al favoreggiamento del terrorismo in chiave anti-P.C.I.
Il P.C.I. non viveva di chiacchiere nei salotti televisivi ma di lotte e di continua mobilitazione delle proprie forze nella difesa da tutti questi attacchi. Difesa delle manifestazioni, delle sedi, dei dirigenti. Solo un Partito autenticamente di classe, rivoluzionario, internazionalista poteva essere capace di svolgere una funzione realmente democratica, di massa, nazionale, in modo da poter trarre continuamente tanta forza dal tessuto più profondo delle masse lavoratrici e popolari di tutto il paese.
È in questo quadro che si comprende meglio perché il compagno Berlinguer concluse il congresso nazionale del 1972 (quando fu eletto Segretario generale) dicendo letteralmente che -in caso di colpo di stato- il P.C.I. era pronto a mobilitare grandi forze e a reagire “su tutti i piani” aggiungendo perfino che “la DC” si sarebbe “rotta la testa”. Per tutto questo, la Vigilanza era uno dei vari compiti politici spettanti ai militanti e (soprattutto) ai quadri del Partito.

Il giovane operaio Roberto Bertuzzi -il quale aveva già dato prova di sé nelle lotte di fabbrica e per essere punto di riferimento di tante operaie ed operai- fu scelto in primo luogo per meriti e motivi politici per entrare nella Vigilanza delle Botteghe Oscure e poi per essere assegnato -permanentemente- alla protezione del Segretario. Solo secondariamente contavano altri requisiti e capacità, ovviamente necessari. Nella Vigilanza non si entrava per amicizia, per richiesta o in chissà quale altro modo: la sezione di appartenenza del compagno, con un atto scritto e sottoscritto dal proprio comitato direttivo, garantiva per la sua biografia e l’affidabilità politica e morale, per la sua reputazione tra i lavoratori o la gente della borgata o del quartiere.
In questo senso, il compagno Bertuzzi è stato come un contributo (ciò vale anche per Gabriele ed altri) della classe operaia della Tiburtina al Partito, in particolare a uno dei compiti che doveva svolgere come forza di avanguardia della classe operaia italiana.
La sua è stata un’esperienza nella quale ha messo alla prova anche la sua forza, il suo coraggio, nonché la consapevolezza di potersi trovare a colpire chi intendeva colpire il P.C.I. tramite il suo Segretario e -soprattutto – ad essere colpito per onorare il suo dovere.

Sotto questo profilo l’esperienza di Roberto è certamente ricca di aneddoti, di avventura, di singoli momenti (anche divertenti) che meritano di essere raccontati, come peraltro hanno già fatto lui stesso, Alberto Menichelli, Luca Telese ed altri.

Anche io (l’ho già accennato in un’intervista ad un noto quotidiano) ebbi modo di aggregarmi a lui e agli altri compagni della scorta in poche occasioni, per esempio durante il viaggio elettorale del Segretario generale in Calabria nel 1983, quando il più importante esponente dell’ndrangheta di Reggio Calabria tentò, invano, di raggiungere (forse per farsi fotografare vicino a lui se ci fosse riuscito) il compagno Berlinguer durante una passeggiata in quella città.

Tuttavia quello che vorrei sottolineare ora è che Roberto Bertuzzi non era “l’autista” (anche se sapeva guidare molto bene sotto il profilo della sicurezza) e neanche il “body guard” (anche se sapeva farlo meglio di molti altri) del compagno Berlinguer ma era un quadro della classe operaia, un quadro del P.C.I. che ha dedicato al Partito le risorse e le capacità migliori di cui disponeva, per ragioni politiche e morali.
La “questione morale” è semplicemente la scelta (o le scelte) di vita di milioni di italiani -di almeno tre o quattro generazioni- che non hanno mai ceduto alla prepotenza ma neanche alle lusinghe della corruzione, della vanità, dell’opportunismo. “Sono un metalmeccanico in pensione” mi ha ripetuto ancora poche settimane fa, quando già era in ospedale: si descriveva così!
Un uomo non modesto ma ricco di modestia e capace di rapporti fraterni e paritari con le persone più semplici e di umili condizioni.

Si è ammalato improvvisamente un paio di mesi fa, secondo me era ben consapevole di ciò che lo aspettava ma ha “ingannato” tutti noi che andavamo a trovarlo facendoci credere di essere molto ottimista e convinto di guarire. Tipico: anche in quelle condizioni si preoccupava lui per gli altri. Personalmente, però, durante una telefonata mi disse “stai tranquillo, io sono sereno” una frase poco compatibile con uno convinto di non avere nulla di grave.

Un paio di settimane fa parlavamo di manifestazioni politiche, disse che rimpiangeva i suoi trent’anni, per quello che riusciva a fare allora contro chi ci aggrediva! L’ultima volta l’ho sentito la sera di Natale, mi ha chiamato al telefono e mi ha detto che si trovava abbastanza bene nell’istituto dove era stato trasferito. Per gli ingovernabili disegni del destino, negli ultimi due o tre giorni ero riuscito a procurargli un importante ritrovato farmaceutico cubano (tratto dal veleno dello scorpione blu) che è ritenuto di grande efficacia sia come antidolorifico (molto meglio della morfina e altri ritrovati che si usano in casi come il suo) sia per la cura di alcune patologie. L’ho anticipato ieri sera ad una compagna di Albano in stretto contatto con lui: domani, gli ho spiegato, lo chiamo e gli dico di questa opportunità.
Per questo stamattina ho saputo ben presto che stanotte Roberto Bertuzzi ci ha lasciato. Ci ha “lasciato”? Si usa dire così, eppure spetta a noi non “lasciarlo”. Spetta a noi onorare la sua storia coscienti che un Partito che ci ha dato Roberto Bertuzzi è il Partito dei Partigiani e anche dei Partigiani dei nostri tempi, come sono stati i compagni della Vigilanza (e non solo) del P.C.I.

Di un Partito così, l’Italia ha bisogno, ha bisogno di tanti altri Roberto Bertuzzi (o Guido Rossa o Ciro Principessa o Pio La Torre e Rosario Di Salvo). Ce n’è bisogno per oggi e domani più di quanto ce ne fosse ieri. Grazie Roberto.

Norberto Natali

Norberto Natali, classe 1959, è stato funzionario del Partito Comunista Italiano (PCI) e segretario regionale della sua Federazione giovanile in Calabria negli anni ‘80. Membro del Comitato scientifico dell’Associazione Culturale Marxista. Operaio metalmeccanico licenziato per motivi sindacali, è oggi scrittore.