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Il ruolo della Turchia nella nuova fase della guerra in Siria

Nel contesto della recentemente riacutizzatasi crisi siriana, la Turchia svolge un ruolo fondamentale e, al tempo stesso, contraddittorio. Nei giorni successivi all’occupazione di Aleppo da parte del gruppo terroristico islamico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) abbiamo riscontrato una foga nel pubblicare analisi o commenti frettolosi. Purtroppo in questa tendenza sono cascati anche seri analisti arabi, russi e, in generale, sinceri fautori del multipolarismo, quasi sollevati nel poter finalmente gridare al “tradimento” dell’odiato Erdogan: con quella sottile islamofobia che permane anche nella nostra area. La categoria del “tradimento” è semplicistica: la lettura marxista della lotta di classe nel contesto dello scontro fra multipolarismo e imperialismo si dovrebbe insomma basare su ben altro.

Una questione di metodo

Lo dico subito: io non considero Erdogan un traditore, semplicemente perché non l’ho mai ritenuto un sincero e affidabile anti-imperialista, ma solo un leader nazionalista che talvolta, opportunisticamente e suo malgrado, ha fatto anche scelte anti-imperialiste che creano disagio alla NATO. Queste scelte per quanto coraggiose (che quando indeboliscono il sistema atlantico vanno sostenute), restavano misure puntuali e non un vero programma politico di alternativa. E ciò anche perché all’interno del Partito AKP e dell’apparato amministrativo turco convivono correnti diverse, alcune delle quali tuttora fortemente influenzate dalla setta gülenista che Erdogan non è ancora riuscito a liquidare completamente (sempre che lo voglia fare fino in fondo). Visto che mi guardo bene dal porre Erdogan sullo stesso piano di ciò che potrebbe fare un rivoluzionario al suo posto, e che so ancora distinguere il piano dell’analisi ideologica da quello della prassi politica, non mi aspetto soluzioni salvifiche da parte sua, evito illusioni e mantengono un distacco nell’analisi, senza tuttavia cadere in giudizi qualunquisti che portano anche i marxisti all’inattività e al non volersi “sporcare le mani”.

Il contesto interno turco

Oltre a dover tenere buoni gli oltre tre milioni di siriani (parzialmente ostili verso le autorità laiche di Damasco) accolti in Turchia dal 2011 e a cui in parte è stata pure concessa la cittadinanza turca, il governo guidato da Erdogan non ha oggi la maggioranza assoluta: per sopravvivere deve contare sui voti del Partito nazional-conservatore MHP, il quale però ha recentemente fatto una svolta inaspettata! Il suo leader, Devlet Bahçeli, strizzando l’occhio persino alla socialdemocrazia, ha invitato Erdogan ad essere più tollerante con i …separatisti curdi! Un fatto inaudito per la politica turca: in pratica gli ultra-nazionalisti adottano il programma della setta gülenista precedente il 2016 aderendo così ai diktat dagli Stati Uniti e mettendo in difficoltà la politica perseguita negli ultimi dieci anni da Erdogan (e dal MHP stesso). Il MHP, oltre a questa uscita “contronatura”, ha pure lodato l’azione di HTS contro la Siria, dando quindi un segnale ostile alla normalizzazione dei rapporti fra Ankara e Damasco sostenuta da Mosca e Tehran. La lotta di classe in Turchia è quindi presente e feroce, così come è ancora presente la lotta fra due linee persino nell’area di governo: anche per questo la politica di Erdogan è spesso zigzagante. Ma zigzagante significa anche dialettica, e quando c’è dialettica significa che vi sono equilibri politici che possono sempre mutare. Compito degli anti-imperialisti non è oggi l’equidistanza e nemmeno il disfattismo che pervade anche taluni settori di sinistra, ma anzi sfruttare al massimo ogni contraddizione per spingerla contro gli interessi atlantisti (e guerrafondai).

L’HTS non fa un favore alla Turchia

Tornando alla situazione di Aleppo. Reputo un errore pensare che l’operazione dell’HTS sia un momento di cesura che abbia “smascherato” il presidente turco: Erdogan infatti resta quello uscito indenne dal tentato golpe filo-atlantico del 15 luglio 2016, e cioè un leader politico controverso, che gioca su più fronti e che ambisce a una politica estera sempre più autonoma per il suo Paese nella regione, e che proprio per questo è inviso alla NATO (che ancora negli scorsi giorni ha adottato con Ankara una politica del bastone e della carota) ed è considerato al momento un potenziale alleato, per quanto “conflittuale”, dal fronte eurasiatico. Benché sia verosimile che i servizi segreti turchi abbiano avuto contatti coi terroristi (come li hanno con tutte le organizzazioni di ogni fazione che operano nella regione), i mandanti dall’attacco dell’HTS ad Aleppo vanno ricercati a Washington e Tel Aviv: lo ha d’altronde dichiarato esplicitamente l’ex-ufficiale dei servizi segreti israeliani Mordechai Kedar.

La tesi che tende ad escludere un diretto coinvolgimento di Erdogan è fatta sua anche del marxista turco Tevfik Kadan, giovane caporedattore di “Aydınlık” con una formazione militare alle spalle. Egli spiega che “dopo che l’intenzione di normalizzazione dei rapporti fra Siria e Turchia venne resa nota, alcuni gruppi affiliati all’Esercito libero siriano tentarono di ribellarsi e la Turchia decise di liquidarli. I gruppi ribelli che in quei giorni bruciarono la bandiera turca ora agiscono con l’HTS”. L’HTS quindi non risponderebbe all’Esercito libero siriano, questo sì effettivamente appoggiato da Ankara, e quest’ultima “con certezza […] non ha dato il via libera all’operazione Aleppo”. Ciò non significa ancora però, nel caso in cui Erdogan vedesse prossima la disfatta di Assad, che Ankara non possa iniziare ad aprofittarne, pur confrontandosi con russi e iraniani, di contrastare la nascita di un “Kurdistan” (che finirebbe per essere un protettorato sionista).

L’operazione dell’HTS, così spudoratamente e mediaticamente “filo-turca”, con tanto di ritratti di Erdogan e bandiere nazionali turche sventolate sul castello di Aleppo, appare fin troppo appariscente: il governo turco da tempo si sperticava nel dire di voler rispettare l’integrità territoriale della Siria, strano quindi che ora accetti di venir “smascherato” così platealmente da chi dovrebbe essere al suo servizio. E in effetti è una situazione che non convince nemmeno il documentarista Michelangelo Severgnini, il quale ha constatato che l’Esercito libero siriano (chiamato oggi anche “Esercito nazionale siriano”, SNA) quello appunto ostile a Damasco e legato ad Ankara, che controlla alcune parti del confine tra Siria e Turchia, sarebbe intervenuto sulla scena solo per contenere i separatisti curdi, strappando l’enclave di Tel Rifat al loro controllo, ma non per partecipare all’attacco dell’HTS contro le truppe governative siriane. I turchi infatti – lo conferma anche Stanislav Tarasov “sono preoccupati per una eventuale disgregazione statuale della Siria, che potrebbe poi allargarsi e toccare la Turchia, riaccendendo il fattore curdo”.

Lo sporco gioco del MIT

Il giornalista turco Ismet Özçelik, che non nasconde le sue simpatie per Assad, conferma poi che “in realtà il PKK/PYD non è un nemico dell’HTS: avevano già fatto un accordo tra loro. In effetti il fabbisogno petrolifero dell’HTS viene fornito proprio dei separatisti curdi”. Egli è piuttosto dell’idea che con l’operazione Aleppo, Washington e Tel Aviv stiano incastrando il governo turco per impedire a Erdogan di continuare la sua marcia di avvicinamento verso la Russia e la Cina. In questo senso, a dover preoccupare e molto, sono soprattutto le inopportune uscite dell’intelligence turca, secondo cui Assad avrebbe “perso le aree sotto il suo controllo in brevissimo tempo con l’inizio dell’operazione dell’opposizione contro Aleppo. Questa situazione ha spinto il regime siriano a cercare il sostegno dell’organizzazione terroristica PKK/YPG”.

La dichiarazioni del MIT sono molto gravi, anzitutto perché legittimano l’HTS, che da organizzazione terrorista (così riconosciuta anche dalla Turchia) ora la promuove a “forza di opposizione”, ma soprattutto perché trasmette il messaggio fuorviante di un presunto sostegno del governo di Damasco al separatismo curdo, che da solo “giustificherebbe” agli occhi dall’opinione pubblica turca ogni intervento militare sul territorio siriano. Il MIT insomma, rispondendo agli interessi sionisti e americani, gioca una carta molto pericolosa che non solo prova a deviare gli equlibri interni alla borghesia turca per influenzare la politica estera di Erdogan, ma addirittura tenta di favorire la balcanizzazione siriana. Essa comporterebbe però forti ripercussioni su tutto il Medio Oriente, e tutto ciò è ovvio a chi gioverebbe, oltre oceano!

Come abbiamo detto, però, oltre alle provocazioni del MIT, va tenuto conto della necessità per Erdogan di garantire oltre alla stabilità del suo governo anche la sicurezza ai confini della Turchia: qualora il caos in Siria continuasse e la crescente fragilità del potere baathista si rivelasse irreversibile dando adito a spinte secessioniste incontrollabili, e ritenendo prossima la disfatta di Assad, il presidente turco non avrà più remore per un massiccio intervento turco nel Paese.

La normalizzazione delle relazioni fra Siria e Turchia passano dalla … Cina

In effetti da anni era in corso un lentissimo ma reale processo di normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Siria. Le tempistiche molte lunghe sono dovute al fatto che entrambi i paesi hanno nelle rispettive élite, come abbiamo visto, correnti interne che frenano il dialogo e perché entrambi hanno per anni enfatizzato una narrazione a livello popolare a cui ora è difficile dare una svolta netta. Certo, Erdogan da tempo afferma di voler incontrare il suo omologo siriano, ma Assad comprensibilmente pretende dapprima il ritiro dei militari turchi dal territorio siriano, cosa che Ankara non potrà tuttavia concedere finché non avrà la garanzia che l’Esercito Arabo Siriano (SAA) abbia effettivamente la forza per riprendere il controllo del Rojava e tenere quindi a bada le spinte secessionistiche curde che la Turchia considera pericolosissime per la sua sicurezza nazionale. Non è un caso se le aspirazioni curde sono invece sostenute dagli USA e da Israele.

Questa situazione di impasse, che potrà essere risolta solo con la cooperazione di Iran e Russia, si aggiunge però a uno strategico progetto economico ispirato dalla Cina ma inviso ovviamente, e come sempre, a Washington e Tel Aviv: si tratta di un’arteria stradale e ferroviaria che dai pressi di Bassora in Iraq condurrà in Turchia e infine in Europa, consentendo all’Iraq la vendita del suo petrolio. Questa via di comunicazione dovrà raggiungere Hatay, sul confine turco-siriano, e avere sbocco sul Mediterraneo. Se però lì dovesse prevalere il terrorismo questo progetto non si concretizzerà, proprio come auspicano i sionisti e la corrente “svendipatria” e filo-americana che opera ad Ankara.

Massimiliano Ay

Massimiliano Ay è segretario politico del Partito Comunista (Svizzera). Dal 2008 al 2017 e ancora dal 2021 è consigliere comunale di Bellinzona e dal 2015 è deputato al parlamento della Repubblica e Cantone Ticino.