I Fumi della Fornace – Festa della Poesia di Valle Cascia, sempre sotto la giovane, poliedrica e insuperabile direzione artistica dei profondi e pirotecnici Valentina Compagnucci, Giorgiomaria Cornelio, Lucamatteo Rossi è giunta nell’agosto 2023 alla sua quinta edizione e quest’anno si è potuta riappropriare dello spazio che ha segnato la storia di questa frazione del comune maceratese di Montecassiano, ovvero la fabbrica di mattoni, prima fonte di lavoro per gli operai del luogo, poi triste rudere di archeologia industriale, che ha portato con sé, insieme alla dismissione produttiva, la disoccupazione per i lavoratori, il dolore e le difficoltà per le famiglie.
Angelo Ferracuti così ha scritto di questa edizione per Il Manifesto: “è un luogo dove si intrecciano tradizione e avanguardia, l’antico e il futuro, in una commistione eccentrica e multidisciplinare (poesia, teatro, musica extra colta, arti visive), quello che gli organizzatori della associazione Congerie hanno definito un esercizio d’immaginazione collettivo. Quindi non un festival verticale di consumo e di promozione dell’industria culturale ma un luogo orizzontale di incontro e di creatività, un pensatoio diffuso”.
Grazie al rito teatrale collettivo che va in scena al tramonto, uno spettacolo che coinvolge come attori anche molti abitanti di Valle Cascia, insieme ai ragazzi e agli artisti a partire dai direttori artistici e a molte e molti dei loro amici che condividono la passione per l’arte e la cultura, la fornace è stata aperta, diventando palcoscenico vasto e a tratti incommensurabile del percorso di ricerca del senso, come sempre tra visibile e invisibile, tra concreto e immaginabile, tra tangibile e impalpabile, grazie alla scrittura di Giorgiomaria Cornelio,
Il titolo del rito collettivo di quest’anno è “L’ufficio delle tenebre. Una favola per uomini, bestie e piante rampicanti” e come sempre scandaglia la vita con le sue aspirazioni e le sue cadute, i suoi slanci e le sue debolezze. D’altronde Giorgiomaria Cornelio, citando un lontano comizio del 1953, ricorda che siamo rimasti senza ordine e senza rivoluzione.
Il rito si apre con parole scolpite come pietre, dolorosa memoria operaia: “Ecco: c’è lo sconcerto. E un lungo lamento di giorno che baccana. Ero all’ingorgo. Manodopera. Come a scrivere: servo.”
Perché si andava a lavorare in ogni condizione: “Tirava un freddo che smemorava la storia. La gente, poi, sapeva solo il pantano. Tutta l’orrenda fatica. Con vento ghiaccio, a sciabordate. Con molto azzardo di fango.”
Così, mentre nel vasto cortile della fabbrica da ogni direzione si muovono attori – operai con gli attrezzi del lavoro, poi in gruppo al cambio di turno e altri scendono in tre da svettanti scale a muro come a dismettere una ingiusta crocifissione, ci si ricorda che “quello con l’accetta e la pala, quello coi grovigli d’acciaio – coi grovigli di vetro -, quello è l’uomo, senza rammendo, per via dei padroni.”
Padroni che non disdegnano cattivamente quanto metaforicamente di chiedere il sangue ai lavoratori, di obbligarli a respirare veleni per i quali una tuta o una maschera sono esile, fragile, inconsistente difesa dalle più feroci e mortali malattie professionali.
Tuttavia piano piano affiora una consapevolezza di appartenenza a una classe, quella operaia: “Dicevano: da che mondo è mondo, è sempre andata così. … State a vedere: cambierà ogni cosa. Saremo giusti. Dopo di noi, il macellaio poserà il coltello.”
Fabbrica, ma anche lavoro agricolo, perché anch’esso a Valle Cascia non manca, con tutte le contraddizioni e i cambiamenti di questi anni: “Rinunciano all’erpice, ma non al campo. Lo pretendono. Temono ortiche e dardi, l’impiastro senza nome, il punto d’incrocio, di giuntura. Tutto in loro languisce e va dritto in cima al malore. È ancora troppo umana questa umana rivoluzione.”
La rivoluzione d’altronde, nella sua forza rigeneratrice, nella sua potenza di trasformazione e cambiamento è chiamata a eliminare l’ingiustizia: “distruggi dove c’è il superbo: crolla, defenestra, straccia l’usura. Rompi ciò che usurpa, che ci piega fino all’ammanco.” È un turbinio, perché se si vuole far scolorire il torto, si porta scompiglio più del vento: “bufera non fa caso né di sorella né di fratello; bufera non fa caso né di amica né di amico.”
Sarà una bandiera rossa, verso l’epilogo del rito collettivo, a rammemorarci che ogni tenebra ha una resurrezione, purché le donne e gli uomini abbiano consapevolezza che sia possibile e soprattutto trovino in loro il coraggio per realizzare la rivoluzione.