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Xi Jinping e Italo Calvino a Baghdad

Fiera del libro di Baghdad, dicembre 2022. Mentre un megaschermo trasmette il quarto di finale dei mondiali che i brasiliani perderanno con i croati, centinaia di iracheni si affollano tra gli spazi espositivi e portano in mano un sacchetto di plastica con qualche libro comperato e su cui è ritratto Hadi Alawai, a cui è dedicata la fiera di quest’anno, scrittore marxista e maoista, storico dell’Islam, linguista, che ha vissuto tra Pechino e Damasco, morendo in esilio nella terra socialista del suo amico Hafez al Assad. Così che non parrà strano di trovare le opere complete di Xi Jinping in bella mostra e ugualmente i romanzi del marxista italiano Italo Calvino.

L’Iraq delle minoranze cristiane, caldee, latine, siro-giacobite, della preponderante presenza musulmana, un terzo sunnita, due terzi sciiti, con tutto il carico di consapevolezza delle guerre subite, due aggressioni statunitensi, nel 1991 e nel 2003, una guerra civile fomentata dalle forze di occupazione, fino alla terribile stagione dell’ISIS, altro prodotto aberrante dell’imperialismo, è una nazione giovane più forte delle piaghe del passato.

Proprio il culto dei martiri, caduti per amore della libertà, in un sacrificio estremo che rimanda nello sciismo appunto a quello di Ali, cugino del profeta Muhammad e padre dello sciismo, porta ad avere ovunque, su ogni palo, lungo tutte le strade e autostrade, le immagini dei martiri, a cui si aggiungono ripetute per centinaia di volte quelle di Qassem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, comandante di Al-Hashd Al-Shaabi, ovvero le Forze di Mobilitazione Popolari irakene, uccisi insieme il 3 gennaio 2020 (leggi qui), ancora una volta dalla NATO, che mantiene basi, ruba petrolio, conferma una presenza che destabilizza e pone problemi politici, ben al di là della positiva ricomposizione intersciita tra Moqtada al-Sadr e l’ayatollah Sistani.

La terra stretta tra il Dijla e il Furat, il Tigri e l’Eufrate, porta nelle vene le cicatrici che lasciano macerie di cemento in ogni città, in ogni luogo abitato, eppure la forza della fede è qui più grande dello scempio compiuto dagli uomini.  Ho attraversato tutta la nazione, da Mosul, ancora distrutta nelle sue chiese e nelle sue moschee per la barbarie dell’ISIS, il quale conformemente ai suoi finanziatori anglo-sassoni ha praticato il più feroce e brutale ateismo, distruggendo tutto ciò che rappresentava luogo di incontro e senso comunitario, dando prova del disprezzo per i sentimenti e le fedi delle donne e degli uomini di questa terra, città in cui ho versato profonde lacrime presso la moschea di Yunus / Giona, il santo profeta che ha ricordato ai cittadini di quella città quando si chiamava Ninive che il divino ama i suoi figli e per questo per secoli la sua tomba è stata venerata da ebrei, cristiani, musulmani, senza distinzione di fede, ancorché all’interno di un luogo islamico, fino a Najaf che custodisce le spoglie di Ali, passando per Samarra e lo stupendo minareto che si leva poderoso e incredibile verso la sommità del cielo alla ricerca di un richiamo alla preghiera che sia certezza dell’assoluto, adiacente ai resti della moschea del Venerdì di cui resta solo il muro perimetrale, ispiratrice dell’altrettanto meravigliosa moschea cairota di Ibn Tulun, nonché la moschea degli ultimi tre imam duodecimani, tra cui il Silente, Muhammad al-Mahdi, entrato nella ghayba, la vigile scomparsa, nell’874 cristiano. In questa moschea, dopo aver pregato presso le spoglie del padre Hasan al-Askari e del suo predecessore Ali bin Mohammad, al-Mahdi, in attesa di tornare nel giorno del giudizio proprio a Samarra, si è celato agli occhi del mondo, ma non ai cuori di quanti lo amano.

Sono stato a Kerbala, in cui il poeta italiano Piumini dice vi abiti una vecchia che fa tic-tac, spiegandoci che quel rumore altro non è che l’orologio del suo cuore e certo qui i cuori si fanno frementi, nel ricordo del sacrificio e della caduta in battaglia avvenuta il 10 Muharram dell’anno 61 dell’Egira, ovvero il 10 ottobre 680 cristiano in cui cadono Husayn e suo fratello vessillifero Abbas, entrambi figli di Ali, fino a Kufa, antichissima, in cui riposano Muslim ibn Aqil e i suoi compagni Hani ibn Urwa e al-Mukhtar al-Thaqafi, città in cui si è strutturata quella scrittura kufica, ancorché nata nella penisola arabica, capace nella sua spettacolare semplicità, di restituire il profumo della bellezza che accompagna le donne e gli uomini nel dialogo con il divino, riverberante per altro in ogni strada d’Iraq, massimamente nei giorni in cui si compie qualche commemorazione, come quelli della mia presenza in cui si è fatta memoria della scomparsa di Fatima, figlia del profeta Mohammed e sposa di Ali.

Il sole al tramonto si staglia basso, acceso e rosso, mentre corro tra le dune del deserto verso l’aeroporto, percorrendo i chilometri che mi separano da Baghdad.

Nella città delle Mille e una notte non volano più tappeti, come ai tempi in cui è stata la capitale del mondo islamico, la città più bella, più grande e più ricca del mondo, una città in cui accorrevano gli uomini di cultura da tutte le terre conosciute, per confrontarsi presso la Casa della Sapienza e studiare all’ombra dei suoi giardini, scegliendo tra i libri di quella biblioteca che è stata per secoli la più fornita dell’intero medioevo, tuttavia camminando oggi tra le strade impolverate dalle sabbie del deserto e dallo sbriciolarsi del cemento di quegli edifici distrutti da troppe guerre e non ancora rimossi, mentre si stagliano palazzi di chiara edificazione socialista, frutto del tempo in cui l’Iraq parte dei Non Allineati dialogava con Mosca e le altre nazioni popolari europee, donne e uomini dimostrano di voler costruire con ferma volontà un domani di pace e in pace per tutti gli iracheni.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.