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Redfish chiude: l’UE censura i media indipendenti

Questo articolo è una libera traduzione dell’originale di Redfish media pubblicato il 22 febbraio 2023: questa è la loro voce; laddove il traduttore interverrà personalmente, questo sarà segnalato in modo esplicito. L’articolo originale può essere visualizzato qui.


Dal 2017, Redfish si è dedicato a raccontare notizie e storie dal punto di vista delle persone che sono oppresse dal sistema capitalista ovunque tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo, e di tutte le caratteristiche di questo sistema: razzismo, guerra, imperialismo, patriarcato, ecocidio e disuguaglianza estrema. Guardando al passato, siamo immensamente orgogliosi di tutto ciò che abbiamo realizzato negli ultimi cinque anni, ma la realtà degli sviluppi attorno a Redfish quest’anno ci ha costretto a prendere una decisione difficile: Redfish chiude.

L’incessante campagna di diffamazione da parte dei media mainstream, del mondo accademico e dei think tank, la censura sui social media e ora le molestie autorizzate dallo Stato ci hanno reso impossibile continuare. Ecco cosa ci è successo, come siamo stati usati come banco di prova nell’armamento contro la “disinformazione” da parte dell’Unione Europea per spegnere le voci critiche e perché quello che abbiamo passato è solo l’inizio di un giro di vite che avrà un impatto su tutti, compresi coloro che hanno incoraggiato e applaudito la soppressione del nostro lavoro.

Recentemente i Twitter Files hanno giustamente portato molta attenzione su quanto sia radicato l’apparato militare e di intelligence degli Stati Uniti a livello esecutivo dei giganti dei social media come Twitter, che controllano le informazioni a cui abbiamo accesso. Completamente sottotraccia, tuttavia, il cuore politico dell’UE, in stretta collaborazione con le istituzioni militari alleate e con quelle stesse società di social media, ha sviluppato una propria strategia, completa di un’agghiacciante serie di strumenti, per reprimere le voci critiche nei confronti dello status quo dell’imperialismo capitalista occidentale. Nei circoli politici dell’UE il “pericolo” viene descritto come la “minaccia al progetto europeo” e la messa in discussione della “legittimità democratica dei rappresentanti degli Stati membri”. In altre parole, agli occhi dei dirigenti dell’UE, le voci che mettono pubblicamente in discussione l’attuale ordine politico e socio-economico dell’Occidente non hanno più diritto alla protezione giuridica internazionale e comunitaria che copre il diritto alla libertà di espressione. Al contrario, vanno trattati come una minaccia.

I media mainstream hanno volutamente ignorato questo linguaggio draconiano che compare in tutti i rapporti, le dichiarazioni e i documenti strategici della Commissione europea, non eletta e non responsabile (nel senso di unaccountable), e così facendo hanno creato un nuovo standard morale in base al quale la “nostra” repressione è legittima; l’indignazione colpisce invece tutti i titoli dei giornali quando le violazioni della libertà di espressione vengono commesse da Stati come la Cina, la Russia o l’Iran, come prova di autoritarismo e repressione dei diritti umani. Non solo, i media mainstream sono collusi in questa repressione normalizzando l’uso della parola d’ordine “disinformazione”, che l’UE definisce vagamente come “informazioni false o fuorvianti” che “possono causare danni alla popolazione”.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (OHCHR) ha avvertito che “la ‘disinformazione’ è un concetto straordinariamente sfuggente da definire per legge, suscettibile di fornire alle autorità esecutive un’eccessiva discrezionalità nel determinare cosa sia disinformazione, cosa sia un errore, cosa sia verità”. Con ciò, una dichiarazione congiunta, di cui è stato coautore il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione, ha espresso che i “divieti generali” sulla disinformazione “sono incompatibili con gli standard internazionali per le restrizioni alla libertà di espressione… e dovrebbero essere aboliti”. Nonostante questi avvertimenti importanti, l’UE sta usando la disinformazione come pretesto, e lo spauracchio russo come copertura perfetta, per giustificare un giro di vite quasi militarizzato sulle voci critiche nei confronti dei governi occidentali.

L’uso della disinformazione da parte dell’UE come pretesto per calpestare i nostri diritti fondamentali è iniziato seriamente nel 2015, quando il ministero della Difesa dell’UE, il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), ha creato EUvsDisinfo per “sfidare la disinformazione russa”. Questo “progetto di punta” dell’organismo militare dell’UE viene abitualmente citato dai media mainstream come “agenzia anti-fake news”. Se finora l’attenzione si è concentrata sulla Russia, la Commissione UE chiarisce che questo è solo l’inizio e che gli obiettivi sono anche “attori statali” di oltre 30 Paesi e “attori non statali” negli Stati dell’UE. Mentre questi bersagli sono allarmantemente vaghi e, come abbiamo sperimentato, i criteri per essere sospettati sono sia opachi che terribilmente inconsistenti, l’UE sta dedicando vaste risorse per metterli a tacere.

A collaborare apertamente con l’UE in questo giro di vite sono le grandi società di social media, che l’UE chiama Very Large Online Platforms (VLOPs): Meta, Twitter, Tiktok e Google, oltre ai media tradizionali, a una “comunità di fact-checking” approvata (che verrà analizzata più avanti) e a organismi militari come il SEAE e la NATO. Insieme, questi attori si coordinano per identificare chi prendere di mira e come. Le loro misure vanno dall’apposizione di etichette di avvertimento diffamatorie sugli account dei social media, ai “filtri di visibilità” (comunemente noti come “shadow-ban”) e alla loro rimozione, fino a garantire che le informazioni provenienti da “fonti autorevoli” selezionate dai “fact-checkers” e da “entità civili come i governi” prevalgano su quelle che sono state designate come bersaglio per la soppressione.

I principali attori della rete di fact-checkers approvati dall’UE, a cui viene data l’autorità di decidere da chi possiamo o non possiamo accedere alle informazioni, sono organizzazioni come la RTVE, di proprietà dello Stato spagnolo, la DPA, parzialmente finanziata da aziende mediatiche tedesche di proprietà dello Stato, l’AFP, finanziata in gran parte dallo Stato francese, la France TV, di proprietà dello Stato, e così via. Quindi, se riferisci ciò che piace al mainstream ti certificano come giornalista, se riferisci qualcosa che non piace a loro ti designano come una minaccia.

È chiaro che i media e i giornalisti che sostengono questo nuovo regime contro la “disinformazione” non vedono l’ironia di essere stati consacrati dalle autorità dell’UE per lavorare a fianco dei governi e delle più potenti società di social media del mondo per schiacciare il nostro diritto fondamentale a un’informazione autenticamente pluralistica. Alcuni di questi giornalisti si dichiarano antirazzisti, si sono indignati per il controllo sui nostri media esercitato da miliardari come Elon Musk e possono persino essere critici nei confronti delle guerre dell’Occidente nel Sud del mondo. Ma appoggiando e partecipando alla campagna dell’UE per mettere a tacere le voci che la “minano”, stanno anche collaborando alla creazione di un panorama mediatico simile a una cassa di risonanza egoriferita (“eco chamber”). Con tale cassa di risonanza, la narrazione dell’UE e dei suoi alleati regna sovrana, una narrazione che al suo cuore è contro i lavoratori, a favore delle grandi imprese (in una parola, liberista), militarista, e una narrazione che difende un sistema che, senza paragoni nella storia, ha ucciso, e sta uccidendo, milioni e milioni di persone: l’imperialismo capitalista. Anche la pubblicazione di questi fatti può essere giudicata off-limits dalla Commissione europea, che secondo il suo ragionamento può essere bollata come disinformazione per aver causato un “danno pubblico” mettendo in dubbio la legittimità dei governi occidentali.

Mentre gran parte del regime di disinformazione dell’UE è stato adottato volontariamente dalle aziende di social media, ora queste possono essere obbligate a fare come dice l’UE quando si tratta di censura, in base a nuove leggi che danno alla Commissione UE, intrinsecamente antidemocratica, il potere di dichiarare lo “stato di emergenza”. Una parte della gigantesca legge sui servizi digitali dell’UE (DSA), entrata in vigore nell’ottobre 2022, è dedicata al “meccanismo di risposta alle crisi”, in base al quale la Commissione UE può utilizzare crisi come la guerra in Ucraina per imporre lo stato di emergenza in tutto il blocco, conferendole ampi poteri per reprimere i media critici. Durante gli eventi che la Commissione designa come crisi, può, ad esempio, obbligare le società di social media a provvedere alla “rapida rimozione o alla disabilitazione dell’accesso ai” contenuti specificati dalla Commissione. Come avverte il gruppo per i diritti digitali Access Now, ciò apre la porta a gravi violazioni del diritto internazionale e dell’UE in materia di diritti umani, il tipo di violazioni per cui l’Occidente condanna i “regimi autoritari” del Sud del mondo. Access Now avverte: “Sulla base di prove empiriche, le misure di emergenza adottate frettolosamente finiscono per portare a violazioni durature dei diritti umani a cui è difficile porre rimedio nel lungo periodo”.

Non è solo nel DSA che si assiste alla militarizzazione del discorso dell’UE sui media critici. Oltre al fatto che l’UE si affida al SEAE e alla NATO per formulare le sue strategie di disinformazione, il linguaggio militarizzato si ritrova in tutti i rapporti e i piani d’azione del blocco sulla disinformazione, che parlano di “armi informative” e di disinformazione come parte di una “minaccia ibrida insieme alla radicalizzazione e all’estremismo violento” per la sicurezza europea. Questo approccio alla disinformazione è analogo alla famosa invocazione della “sicurezza nazionale” da parte del governo degli Stati Uniti, arma giustificativa di cui ha sempre fatto largo uso per farla franca con ogni sorta di crimine in patria e all’estero. Mentre da un lato l’UE si prodiga in un elogio dei nostri diritti fondamentali alla libertà di espressione e al pluralismo dei media, dall’altra si prodiga per mettere al passo i media (e negare di fatto tutta questa “libertà”). Nel frattempo, il Codice di condotta sulla disinformazione del 2022, sviluppato in collaborazione tra Commissione e le società di social media, tra cui TikTok, Google, Meta, Microsoft, Twitter e Vimeo, indica chiaramente che le misure di censura saranno ulteriormente sviluppate e persino estese alle app di messaggistica criptate.

Redfish, senza preavviso o ricorso, è stato sottoposto a tutti gli strumenti di censura esistenti che l’UE ha incoraggiato le società di social media a impiegare contro la “disinformazione” e che, grazie ai Twitter Files, sappiamo essere stati sviluppati in particolare dalle agenzie di intelligence degli Stati Uniti. Molti di questi strumenti di censura erano già in uso prima dello scoppio della guerra in Ucraina, tra cui le etichette di avvertimento, le restrizioni degli account sui social media, la costante rimozione arbitraria di contenuti che rispettano i termini e le condizioni delle piattaforme e gli “shadow ban”, quasi sempre senza meccanismi di ricorso. Ma la guerra ha fornito un’occasione d’oro per intensificare la soppressione del nostro progetto. Con l’introduzione delle sanzioni contro la Russia, Redfish e la nostra società madre Ruptly hanno evitato di essere inseriti sulla lista nera, ma questo non ha impedito alle varie istituzioni a cui ci affidiamo per le nostre operazioni commerciali quotidiane di fare di tutto per rendere impossibile il nostro lavoro. A poche settimane dall’inizio della guerra, la principale banca tedesca Sparkasse ha congelato illegalmente il nostro conto, adducendo come ragioni le “sanzioni” che, come già detto, non si applicavano a Redfish. Dopo alcune pressioni legali, il nostro conto è stato sbloccato. Nel frattempo, il nostro consulente fiscale e le compagnie assicurative ci hanno tagliato i fondi in violazione dei nostri contratti e successivamente Wise, una piattaforma di trasferimento di denaro, ha iniziato a trattenere i pagamenti che avevamo inviato ai freelance, mettendo a rischio il loro sostentamento. Le banche di tutto il mondo hanno iniziato a rifiutarsi sempre più spesso di effettuare pagamenti a persone che lavorano con noi, cosa che una fonte che lavora in una di queste banche ci ha confermato essere dovuta a pressioni di facciata da parte dei governi occidentali. Tutti hanno agito illegalmente e, finora, impunemente grazie all’attuale contesto in cui tutto va contro entità o individui associati alla Russia.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, le restrizioni sui nostri account social sono state senza precedenti, non solo con lo shadow banning dei nostri account: su Instagram, ad esempio, coloro che ignorano gli avvertimenti contro la condivisione dei nostri contenuti e l’inviano ai loro contatti, si trovano con i loro account personali temporaneamente in shadow ban, penalizzando letteralmente il nostro pubblico per aver rifiutato di sottomettersi alla pressione censuratrice esterna. Salutiamo i nostri sostenitori!

Lo spettacolo per noi può essere finito per ora, ma esortiamo tutti a smettere di sonnecchiare in questo giro di vite e a iniziare a lottare contro di esso. Invitiamo soprattutto coloro che sono caduti nella rete della propaganda e che hanno festeggiato gli attacchi illegali contro di noi a fermarsi a considerare il fatto che questo costituisce un attacco a tutti i nostri diritti che non può essere difeso in modo selettivo. Un giorno questo vi riguarderà e quando succederà, anche se non saremo d’accordo con la vostra politica, ci batteremo molto di più per difendere il vostro diritto alla libertà di espressione che non tutti i vostri sforzi per levarcelo. Come disse il pastore Martin Niemöller, incarcerato per otto anni in un campo di concentramento nazista: “Prima sono venuti per i socialisti, e io non ho parlato – perché non ero socialista. Poi vennero per i sindacalisti, e io non parlai, perché non ero un sindacalista. Poi vennero per gli ebrei, e io non parlai, perché non ero ebreo. Poi sono venuti per me e non c’era più nessuno che parlasse per me”.

In queste condizioni orwelliane, siamo orgogliosi di tutto ciò che abbiamo raggiunto, tra cui la crescita di una comunità online con oltre un milione di follower, l’essere pionieri della narrazione di storie di sinistra non dichiaratamente radicali a un pubblico globale, l’essere diventati un nome familiare per le comunità che lottano contro l’imperialismo capitalista in tutto il mondo e l’aver vinto un’intera serie di premi per i nostri documentari e le innovazioni della narrazione digitale.

Alcuni dei nostri ex membri del team stanno mettendo a frutto l’esperienza acquisita in Redfish e hanno costruito una nuova piattaforma indipendente che potete seguire su TikTok, Twitter, Instagram, Facebook e Youtube @redstreamnet o tramite il suo sito web.

Un enorme ringraziamento al team di Redfish passato e presente, a Ruptly per aver reso possibile Redfish e al nostro coraggioso pubblico per il supporto dedicato, in passato, ora e in futuro.

L’articolo di Redfish si conclude con una citazione che chi traduce sottoscrive parola per parola: “In tutto il mondo, ovunque vi siano capitalisti, libertà di stampa significa libertà di comprare giornali, comprare scrittori, corrompere, comprare e falsificare ‘l’opinione pubblica’ a beneficio della borghesia.” (Vladimir I. Lenin)

Alessandro Bellanca

Alessandro Bellanca, classe 1999, è iscritto al Partito comunista. Studia Storia e Lettere all’università di Friburgo.