Quando i media europei parlavano dell’accordo raggiunto fra Turchia, Svezia e Finlandia mi trovavo proprio in Turchia e la mia prima reazione coi compagni che mi chiedevano un commento è stata di estrema cautela. Nell’epoca odierna è fondamentale non credere subito ai media europei che copia-incollano le veline dell’oligopolio delle solite agenzie stampa e piuttosto ascoltare le altre campane, così da non finire indottrinati dalla propaganda atlantista come succede a chi, non conoscendo assolutamente nulla della situazione, si diletta a produrre banner seriali ripetendo frasi fatte, pensando che con un po’ di indignazione a buon mercato su Instagram si faccia …il socialismo.
Iniziamo con una premessa: ho avuto l’occasione di conoscere personalmente alcuni diplomatici turchi, ambasciatori, primi segretari e attaché vari e, anche senza condividerne sempre le opinioni, posso confermare che si tratta di professionisti capaci. Anche dal punto di vista strategico e ideologico (…benché non sia la mia ideologia). Purtroppo non tutti i diplomatici sono così, e quelli svizzeri stanno perdendo tristemente punti: forse al DFAE e alle facoltà di relazioni internazionali dovrebbero iniziare a preoccuparsene. Insomma se vuoi negoziare conviene conoscere la formazione e l’ideologia (mai sottovalutare l’ideologia!) dei diplomatici di Ankara, altrimenti esci con un pugno di mosche. Il fatto che la Turchia sia quindi riuscita, almeno apparentemente, a imporre le sue condizioni a Svezia e Finlandia per togliere il veto alla loro entrata nella NATO non mi ha affatto stupito.
A stupirmi è semmai altro: davvero i turchi hanno rinunciato al veto per così poco? Sì, perché dal punto di vista negoziale accettare uno sconvolgimento geopolitico che potrebbe infastidire i partner cinesi e russi solo per qualche decina di arresti mi lascia alquanto perplesso. Anche l’altra “conquista” di Recep Tayyip Erdogan, e cioè la fine dell’embargo sugli F-16 non è così indispensabile: il grado di diversificazione dal punto di vista militare è infatti, per la Turchia, più che sufficiente potendo contare oltre alla tecnologia NATO, non solo sui sistemi d’arma russi ma anche sulla sua stessa produzione nazionale.
E infatti è ancora un po’ presto per dare certezze: Erdogan non è uno sprovveduto e la Turchia non è una repubblica delle banane, le carte da giocare non le mancano e gli accordi veri non si pubblicano sui giornali.
Iniziamo col dire che quello siglato sotto l’egida di Joe Biden non è un accordo, ma un semplice memorandum (e in diplomazia i due termini non sono sinonimi, anche se alcuni giornalisti lo credono). Questo memorandum deve ancora passare dal parlamento turco (l’idea che Erdogan decida da solo è tanto diffusa quanto semplicistica). Per convincere i deputati occorrerà che i governi finlandese e svedese accettino di estradare una settantina di persone ricercate in Turchia per reati legati o al terrorismo gülenista (di fatto: intelligenza col nemico a fini eversivi) o al separatismo etnico. Ciò, tuttavia, sarebbe in contrasto con le stesse norme nazionali ed europee: ovviamente Erdogan questo lo sa, e sta giocando con le due prime ministre nordiche che forse non sono molto avvezze alla geopolitica. Peraltro, il quotidiano dell’opposizione kemalista “Aydinlik” ha spiegato che il governo finlandese non ha accettato di dichiarare terrorista il gruppo armato curdo YPG attivo in Siria nel cosiddetto Rojava. Il Rojava è considerato, però, da Ankara (e da Damasco) come una questione strategica per la propria sicurezza nazionale e la propria integrità territoriale: difficile quindi credere che questa indecisione finlandese possa venir tollerata dal governo turco, a meno che vi siano pressioni esterne (cioè statunitensi) così forti da essere considerate troppo pericolose da fronteggiare.
Ciò detto la mia valutazione politica sul memorandum è negativa e si basa sulle seguenti tre considerazioni:
1) Ogni fase storica ha le sue priorità e su questa base vanno fatte delle scelte politiche. Il vero problema di oggi, anche per la stessa Turchia, non è tanto lo scontato sostegno europeo al separatismo etnico (del PKK, del PYD/YPG, ecc.), quello infatti esiste da anni e, a meno di un accordo fra il governo siriano e i movimenti separatisti curdi, resterà intatto poiché la balcanizzazione del Medio Oriente è di importanza strategica per l’Occidente. La vera priorità che dovrebbe interessare Ankara è piuttosto evitare l’allargamento della NATO. Quest’ultimo è necessario in ottica imperialista al fine di frenare l’integrazione eurasiatica, al cui processo lo stesso Erdogan ha guardato con attenzione migliorando fortemente le proprie relazioni con la Russia e la Cina. Se Erdogan ha ora deciso opportunisticamente di ricollocarsi obbedientemente nel campo atlantico in cambio solamente di una banale dichiarazione di intenti di due governi nordici, significa due cose: a) che non ha saputo trarre le dovute lezioni del tentato golpe del 2016; b) che nonostante l’epurazione della setta gülenista dalla magistratura, dall’esercito, dalle università, ecc. purtroppo nell’amministrazione erdoganista le forze filo-atlantiste sono ancora ben presenti e la lotta fra la borghesia nazionale e la borghesia compradora in Turchia è ben lungi dall’essersi risolta. Vano sarebbe qui appellarsi all’opposizione parlamentare di Ankara: sia quella riformista dei post-kemalisti del CHP o dei filo-separatisti di HDP, sia quella conservatrice di IYI sono patetica espressione dell’atlantismo e degli interessi della Casa Bianca.
2) Il popolo curdo verrà purtroppo ancora strumentalizzato dagli imperialisti e subito dopo, come sempre è accaduto, sarà abbandonato al suo destino. Succede così da decenni! Non il popolo curdo ma i separatisti curdi (sono due cose molto diverse!) sono infatti sempre stati al servizio degli USA in Siria, Irak e Iran. Anche in Turchia sono stati utilizzati per dividere la sinistra di classe su base etnica: non scordiamoci che le prime vittime degli attentati del PKK furono non i fascisti ma i marxisti-leninisti turchi! Gli occidentali insomma li sfruttano e poi, al momento buono, li mollano come merce di scambio, per poi riprenderli in seguito sottobraccio e nuovamente abbandonarli. Ora, dopo essere stati usati anche per allargare la NATO, impareranno a non più fidarsi dell’imperialismo e a rispondere affermativamente alla proposta del governo di Damasco di “tornare nell’abbraccio della patria siriana”?
3) Erdogan può vendere il memorandum con Finlandia e Svezia come una grande vittoria all’interno del Paese, così da esaltare la sua base e compattarla in vista delle prossime elezioni, ma la realtà è diversa: già altri paesi formalmente criminalizzano il PKK (ma vale anche per altre organizzazioni simili e di altri paesi) pur continuando tuttavia a tollerarne i militanti e le strutture parallele (centri culturali, movimenti sindacali, ONG umanitarie, ecc). Insomma, anche dal punto di vista turco, si tratta di una vittoria di Pirro. Difficile credere che i diplomatici di Ankara siano così sprovveduti da non sapere che l’estradizione dei militanti separatisti da Svezia e Finlandia sarà vincolata alle norme dell’UE che già proteggono i rifugiati politici: solo chi ha partecipato ad azioni armate che hanno causato morti potrà eventualmente essere consegnato alla magistratura turca. Quindi sotto sotto o c’è dell’altro o alla fine, al di là della retorica, non se ne farà nulla.