Verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Federico Rampini si presenta come un grande intellettuale di sinistra, l’anima socialdemocratica, e ovviamente newyorkese, della liberal – democrazia. Il “sobrio” osservatore del mondo ha appena pubblicato oltre trecento pagine che la solita grancassa mediatica sta iniziando a strombazzarci come “un capolavoro che ci spiega la Cina”.
Per capire quanto poco sia vero, bastano le righe scelte dall’autore per presentare sui siti on line la sua opera, di cui già il titolo: “Fermare Pechino”, dice molto del vero obiettivo molto poco culturale o letterario e il cui sottotitolo apparentemente più bonario, è in realtà consequenziale: “Capire la Cina per salvare l’Occidente”.
Riassumendo i cinesi, che sono ovviamente cattivi, vanno fermati, così salveremo l’Occidente, che è tanto buono.
Il verbo “capire” ha quindi un sottinteso, ovvero capire quanto sono cattivi i cinesi.
Veniamo alle poche righe di presentazione scelte dallo stesso autore.
“Questo libro è un viaggio nel grande paradosso di una sfida planetaria”, in realtà non c’è nessun paradosso, da almeno un decennio gli analisti più attenti hanno capito, detto e spiegato che è in atto uno scontro tra unipolarismo occidentale e della NATO e proposta di un mondo multipolare e di pace, portata avanti principalmente da Cina, Russia, Iran e alcune nazioni latinoamericane.
Rampini dice di voler raccontare “una faccia della Cina troppo nascosta e inquietante, che l’élite occidentale ha deciso di non vedere”, insomma i cinesi son dei cattivoni e i politici occidentali, vedi ultimo G7, che hanno fatto bellicose e guerresche dichiarazioni anticinesi sono troppo buoni e cauti.
Poi aggiunge una duplice barzelletta, una addirittura con le maiuscole: “Rivelo il gioco dei corsi e ricorsi, tra due superpotenze che si studiano e si copiano a vicenda. E spiego il Nuovo Grande Esperimento Americano, che tenta di invertire il corso della storia prima che sia troppo tardi”. Più che un politologo dunque, un mago che ci rivela i segreti del mondo.
Magari fosse finita, più si va avanti, più è peggio.
“Federico Rampini racconta una sfida fatta anche di contaminazione reciproca, perché alcuni problemi sono simili: dalle diseguaglianze sociali allo strapotere di Big Tech, dalla crisi ambientale e climatica alla corsa per dominare le energie rinnovabili”, premesso che avere gli stessi problemi non significa contaminarsi, ma al massimo confrontarsi con le stesse sfide, in realtà tra Stati Uniti e Cina non c’è nessuna contaminazione e nessuna simmetria. In Cina non le diseguaglianze, ma le differenze salariali sono un passaggio di fase storica ipotizzato, realizzato e controllato dal Partito Comunista Cinese. Quando nel 1978 il grande Deng Xiaoping ha indicato la strada da seguire, l’economia cinese rasentava i minimi mondiali, fame e penuria, in particolare dopo la scriteriata stagione della Rivoluzione Culturale, facevano parte della quotidianità del popolo. Il Partito e non solo Deng, hanno deciso di applicare il marxismo, ovvero sviluppare le forze produttive, che il socialismo appunto non è la socializzazione della miseria. Proprio il Partito ha sempre saputo, detto e scritto nei suoi documenti che nel giro di mezzo secolo, una volta che il tenore di vita fosse cresciuto decine di volte rispetto al 1978, si sarebbero dovuti introdurre dei correttivi, di carattere sociale, generali e specifici, per ristabilire un equilibrio più prossimo ai valori mai rinnegati dell’uguaglianza, correttivi che il Partito oggi sta realizzando, non certo e non solo Xi Jinping, ma lo strabismo occidentale che confonde le scelte del Partito Comunista Cinese con la presunta sola volontà del presidente di turno è un colossale errore che gli studiosi occidentali commettono dalla nascita della Repubblica Popolare.
Inoltre in Cina non c’è nessuno “strapotere di Big Tech”, “la crisi ambientale e climatica” è gestita da anni al meglio dopo i guasti parzialmente connessi con l’impetuosa crescita economica della fine del Novecento e non c’è nessuna “corsa per dominare le energie rinnovabili”, anzi i cinesi sono avanti, perché nell’elettrico, nell’eolico e nel solare sono i primi al mondo e stanno anche verificando i limiti che tali tecnologie comportano rispetto al consumo di minerali e terre rare, l’Occidente al proposito è molto in ritardo.
Il botto però arriva dopo, con un’accusa tanto falsa che dovrebbe essere denunciata per il suo intento volutamente diffamatorio: “Rampini mette a nudo gli aspetti meno noti della Cina di Xi Jinping, con un viaggio insolito nella cultura etnocentrica e razzista degli Han”, ecco, i cinesi non sono comunisti, sono razzisti. Francamente mi fa solo ribrezzo un’affermazione simile, non meriterebbe alcun commento. Cito solo un ricordo, nel 2010 ho partecipato presso il parlamento cinese a una serata musicale, sedendo vicino ai deputati uiguri e insieme ai rappresentanti di tutti i gruppi culturali ed etnici della Cina, probabilmente tali esperienze il signor Rampini, stando a New York, non le ha mai vissute.
Le farneticazioni tuttavia continuano, la Cina è accusata di “imperialismo culturale”, ha “mire aggressive” ed è dominata dal “militarismo”, ovvio perché ogni sincero democratico occidentale è contro il militarismo, anche se gli Stati Uniti hanno centinaia di basi militari nel mondo e le guerre di aggressione degli ultimi trent’anni sono tutte della NATO, ma si capisce, l’Occidente esporta il bene e la libertà. Non poteva mancare poi la pennellatina sulla pandemia con “il groviglio di sospetti che ancora circondano le origini del Covid”.
Concludendo Rampini ci indica la via del bene: “l’Esperimento Biden vuole opporre all’espansionismo aggressivo di Pechino un modello socialdemocratico ispirato a Roosevelt e Kennedy”, premesso che Biden è il continuatore delle politiche a vantaggio dei poteri speculativi e finanziari dei vari Bush e Obama, molto ci sarebbe da scrivere sui poco socialdemocratici Roosevelt e Kennedy, ma il ridicolo è che chiedere un mondo di pace e multipolare per l’autore sarebbe “espansionismo aggressivo di Pechino”. In sostanza il brizzolato intellettuale ci spiega che non ci sono possibilità, dopo la fine dell’Unione Sovietica il mondo deve – deve e basta – essere sotto il controllo statunitense, perché gli Stati Uniti rappresentano il bene e la socialdemocrazia, ovviamente una strana socialdemocrazia in cui comandano le multinazionali, visto che, se proprio vogliamo restare ai fatti, chi ha provato a rimettere al centro gli interessi e i diritti dei lavoratori statunitensi è stato il predecessore di Biden, ma si sa, ammetterlo in certi salotti, quelli che frequenta Rampini, è proprio sconveniente.
Chiude l’azzimato scrittore: “il rischio che la competizione degeneri fino allo scontro militare è più alto di quanto crediamo. … La resa dei conti diventa ancora più affascinante, inquietante, drammatica”. Forse da un attico di Manhattan la guerra può apparire “affascinante”, invece per le persone serie di ogni parte del mondo la guerra porta solo morte e distruzione.
Purtroppo non c’è nessuna resa dei conti, c’è un confronto politico, economico, culturale di proporzioni planetarie.
Le pagine del libro in questione non aiutano a capire, sono l’ennesima cartaccia messa sul fuoco dell’odio e dell’incomprensione, pagine violente, tragica e pericolosa propaganda di guerra.