Afghanistan: l’intervento sovietico e l’occupazione americana a confronto

Una decina di giorni fa si è concluso il definitivo ritiro americano dall’Afghanistan. Donald Trump l’ha definito “un disastro senza precedenti”, e per una volta ha ragione. Fino a giovedì 26 agosto i morti all’aeroporto di Kabul erano 20, tra cui quelli caduti dagli aerei, quelli ridotti in poltiglia umana dal ritrarsi dei carrelli di atterraggio, altri ancora uccisi dai soldati della NATO, o semplicemente schiacciati nella calca. Ma un attentato kamikaze dello Stato Islamico ha portato il bilancio a ben oltre le 100 vittime. Alla cifra hanno contribuito i militari americani, che nel caos seguito all’esplosione hanno aperto il fuoco sulla folla. Non soddisfatto del massacro, Joe Biden ha promesso vendetta per i marines uccisi dalla bomba. Vendetta prontamente arrivata, con degli attacchi mirati contro bersagli ISIS. Questi attacchi sono stati talmente mirati che hanno provocato diverse vittime civili, tra cui sette bambini. L’insensata, ventennale guerra dell’Occidente contro il “terrorismo in Afghanistan” si conclude con una plateale, umiliante sconfitta.

Alla luce degli ultimi eventi, i paragoni tra la ritirata degli USA e quella dell’Unione Sovietica, che nel febbraio 1989 evacuò le sue ultime truppe dal paese, si fanno sempre più frequenti. Il ritiro dall’Afghanistan divenne infatti uno degli eventi-simbolo del crollo del blocco socialista, e in molti ora si domandano se il ritiro statunitense non sia l’ultimo chiodo nella bara dell’ordine mondiale americano. Cerchiamo dunque di chiarire fin dove arrivano le analogie.

I casus belli

Gli eventi che portarono all’intervento sovietico in Afghanistan si possono far risalire fino al 1973, quando un colpo di Stato aveva messo fine alla monarchia. Al potere saliva Mohammed Daud Khan, cugino del re deposto nonché figura politica in vista. Egli divenne presidente della neonata repubblica, e assunse ben presto poteri dittatoriali. Ma il suo vasto programma di riforme volte a modernizzare il paese ebbe risultati molto limitati. Essendo un nazionalista pashtun, era odiato dagli altri gruppi etnici, mentre la repressione del dissenso gli procurò molti nemici politici. Uno dei principali gruppi di opposizione era il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, di impostazione marxista-leninista e che faceva esplicito riferimento all’Unione Sovietica. Già nel 1967 il partito si era diviso in due fazioni nemiche, Khalq (“popolo”), che raccoglieva i massimalisti radicali, e Parcham (“bandiera”), che invece incarnava l’ala più pragmatica e sensibile verso le specificità della società afghana.

Una manifestazione popolare a sostegno della rivoluzione di Saur (di stampo marxista).

Nel 1978, la situazione era ormai maturata per rovesciare il regime di Daud Khan. Il 26 aprile, il dittatore aveva ordinato l’arresto dei leader del Partito Democratico Popolare, scatenando un’insurrezione armata dei loro sostenitori. Quella che passerà alla storia come Rivoluzione di Saur, portò all’uccisione dello stesso Daud Khan e alla nascita della Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Il Partito Democratico Popolare, e in particolare la fazione Khalq, presero in mano le redini del potere.

I comunisti si trovarono a governare un paese arretrato e bisognoso di profonde riforme. Ed è ciò che si accinse a fare il Partito Democratico Popolare. Progetti come l’alfabetizzazione, la riforma agraria, l’abolizione di pratiche arcaiche (come il matrimonio minorile), erano tutte riforme assolutamente necessarie, ma che i leader Khalq condussero con ottusa inflessibilità, noncuranti delle tradizioni secolari in base alle quali viveva gran parte della popolazione.  Anche gli appelli alla cautela provenienti da Mosca rimasero inascoltati. Ben presto la resistenza a tali riforme, e la loro imposizione forzata, portarono ai primi scontri armati. Parallelamente, aspre lotte intestine si sviluppavano in seno al Partito. Il presidente era Taraki, mentre l’incarico di primo ministro era stato assegnato ad Amin, entrambi Khalq: costoro condussero una vasta campagna repressiva nei confronti della fazione avversaria Parcham, ma ben presto la discordia scoppiò anche tra loro due. Il 16 settembre 1979, Amin spodestò Taraki, facendolo uccidere poco dopo. Fu l’evento che convinse la dirigenza sovietica ad intervenire. Il 27 dicembre il KGB eliminò Amin, sostituendolo con il leader di Parcham, Babrak Karmal, intenzionato a correggere gli errori dei predecessori e ad adottare un approccio moderato alle riforme. Contemporaneamente, l’esercito sovietico entrava nel paese per garantire la stabilità del nuovo governo e uno sviluppo positivo del suo sforzo di modernizzazione. Ma il genio era ormai uscito dalla lampada, e le rivolte antigovernative proseguirono, confluendo nel movimento dei mujaheddin. Iniziava la guerra civile.

I sovietici impegnarono ingenti mezzi per contrastare le fazioni islamiste che minacciavano il governo afghano.

Il pretesto americano per l’invasione, iniziata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, fu la protezione che l’Afghanistan talebano forniva ad Al-Qaeda. Si trattava insomma di una missione punitiva, finalizzata tra le altre cose a soddisfare il desiderio di vendetta dell’elettorato americano. Così il popolo afghano si ritrovò nuovamente la guerra in casa, e per colpa di pochi individui che non erano nemmeno afghani. Colpa peraltro mai dimostrata, siccome negli anni successivi si moltiplicarono le inchieste che contestavano la paternità di Bin Laden e Al-Qaeda sugli attacchi dell’11 settembre (basti citare Zero di Giulietto Chiesa). Il legame tracciato tra la caduta delle Torri Gemelle e l’Afghanistan era quanto mai arbitrario, e oggi ha la stessa credibilità delle armi chimiche di Saddam Hussein o della bomba atomica iraniana. Ma anche se dessimo per vera la minaccia terroristica rappresentata da Al-Qaeda  e dal movimento Taliban, è impossibile non cogliere la grottesca comicità della situazione, siccome sia gli uni che gli altri erano creature americane, esperimenti di laboratorio come il mostro di Frankenstein, assemblati con il preciso scopo di combattere i sovietici.

I reali motivi dell’intervento erano invece quanto mai triviali: assicurare la presenza americana e occidentale nella regione, arginando le potenze rivali (Iran, Russia, Cina) e promuovendo i propri interessi economici.

Dunque possiamo già constatare una prima sostanziale differenza tra le due guerre. Mentre l’intervento militare sovietico rispondeva a effettivi problemi umanitari e di sicurezza (l’URSS, al contrario degli USA, confinava direttamente con l’Afghanistan), quello americano era un’invasione imperialista e neo-coloniale, peraltro giustificata con un falso casus belli.

Il sostegno economico all’Afghanistan

Gli investimenti dell’URSS nell’economia afghana iniziarono molto prima dell’arrivo dei comunisti al potere. Già negli anni ‘60, quando nel paese regnava ancora la monarchia, l’URSS era diventata il primo partner commerciale dell’Afghanistan. Così tra il 1960 e il 1968, l’Unione Sovietica costruì a proprie spese la centrale idroelettrica Naghlu (a quaranta chilometri da Kabul) che tutt’oggi costituisce la più grande fonte di energia del paese. Sempre negli anni ‘60 fu costruito il Politecnico di Kabul, che tutt’oggi costituisce il principale istituto di formazione di specialisti nel campo tecnico-scientifico. Nel 1964 i sovietici ultimarono il tunnel che attraversa il passo del Salang, la cui  importanza per l’Afghanistan è paragonabile al traforo del San Gottardo. Oggi giornalmente vi transitano diecimila veicoli.

Più tardi, l’URSS costruì numerosi siti industriali che costituirono la spina dorsale dell’industria nazionale. Negli anni ‘80, a guerra civile in corso, l’Unione Sovietica edificò in Afghanistan 140 complessi industriali, 35 ospedali (un terzo del totale), 5 accademie di rango universitario. Nello stesso periodo di tempo, furono addestrati 100’000 specialisti, tra scienziati, ingegneri, medici, operai specializzati, ecc. Il numero di medici aumentò di nove volte, giungendo a 7’100 professionisti nel 1988.

Insomma, per tutta la seconda metà del secolo scorso, l’URSS fu il principale motore dello sviluppo dell’Afghanistan, e dunque del miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti.

Il Politecnico di Kabul (fondato grazie al sostegno sovietico) era frequentato da numerose studentesse afghane.

È di recente emerso che la ventennale occupazione dell’Afghanistan è costata agli USA e alla NATO l’assurda cifra di 3 trilioni di dollari. Persino il più incapace degli amministratori, avendo a disposizione tali fondi, avrebbe fatto dell’Afghanistan la Svizzera dell’Asia centrale. Eppure al giorno d’oggi la nazione compete per il poco invidiabile primato di paese più povero al mondo. Che cosa è andato storto?

Ce lo spiega Vyacheslav Nekrasov, direttore per oltre quattro anni del Centro russo di Scienza e Arti di Kabul, posto che ha lasciato nel dicembre 2020. In un’intervista del 2019 all’agenzia Sputnik, Nekrasov ha così descritto il sostegno finanziario occidentale: “Oggi il bilancio afghano dipende per il 75% da infusioni estere, il paese è legato da un rigido guinzaglio esterno. Tengo traccia dei flussi finanziari stranieri (da 48 paesi), e giungo alla conclusione che la loro efficacia non supera il 15%. Dove scompare il resto dei soldi è un mistero. Le ONG e le missioni umanitarie risucchiano tutto, come delle sanguisughe.”

Così si svela l’arcano: gli USA e la NATO hanno fatto dell’Afghanistan un’immensa macchina per il riciclaggio di denaro. Dei fondi spesi alla sua ricostruzione e sviluppo, solo una minuscola percentuale resta sul territorio, mentre il resto torna in Europa e in Nord America, riciclato attraverso le ONG. Le quali si confermano ancora una volta come uno dei tentacoli dell’imperialismo atlantico.

Ma non è tutto. Anche se i fondi realmente investiti sono una frazione ridicola di quelli dichiarati, stiamo comunque parlando di miliardi di dollari! Ebbene, il modo in cui essi vengono gestiti è ben descritto negli Afghanistan papers del Washington Post. L’errore di fondo dell’amministrazione americana fu forzare il paese in un’economia di libero mercato, nonostante non vi fossero le minime condizioni materiali per sostenerla. Ancora una volta, quando si tratta di economia, l’imperialismo americano fa sfoggio di un dogmatismo religioso. In secondo luogo, la campagna di investimenti è sempre stata afflitta da una vera e propria mania dello sperpero. Un progetto veniva considerato un successo in base al suo costo, non in base alla sua utilità o alla qualità del lavoro svolto. Come risultato, è sorta una miriade di progetti che hanno realizzato in senso quasi letterale il luogo comune della cattedrale nel deserto. Complessi industriali inutilizzati, strade che non portano da nessuna parte. Scuole abbandonate che crollano rapidamente a pezzi, perché chi le ha costruite si è dimenticato che per fare una scuola non basta tirar su quattro muri, ma bisogna anche formare il personale docente. Molti progetti esistenti solo sulla carta hanno ugualmente risucchiato milioni di dollari.

Dopo vent’anni di occupazione militare e miliardi di dollari gettati nel buco nero di questa mafia umanitaria, gli americani lasciano il paese in uno stato peggiore di come l’hanno trovato. L’unica eredità dell’occupazione che sembra destinata a durare sono gli sterminati campi di papaveri, la cui coltivazione è cresciuta esponenzialmente negli ultimi vent’anni.

L’occupazione americana non ha impedito (o ha favorito?) la coltivazione di papaveri da oppio in Afghanistan.

Anche in questo caso, di analogie tra l’Afghanistan sovietico e quello americano se ne trovano ben poche. Mentre l’URSS ha finanziato l’Afghanistan senza doppi fini, prima nell’ambito di relazioni di buon vicinato, poi per sostenere un governo amico in preda alla guerra civile, gli Stati Uniti hanno fatto del sostegno economico un’occasione per titanici schemi corruttivi.

Nation building

Quando Gorbachev fu eletto Segretario generale del PCUS, il ritiro dall’Afghanistan venne posto tra le priorità del nuovo corso politico. Si decise di tentare la strada della riconciliazione nazionale, ma Karmal non era il leader adatto per condurla con successo. A Mosca si decise di sostituirlo con l’allora capo dell’intelligence afghana Mohammad Najibullah, che divenne segretario generale del Partito Popolare Democratico nel maggio 1986. Così, mentre nel Cremlino entravano codardi e traditori, a capo dell’Afghanistan saliva il leader più onesto, competente e coraggioso della sua storia recente. Comunista convinto, Najibullah era tuttavia consapevole dell’insolubile stallo militare, e si adoperò per l’organizzazione di una tregua, invitando i leader mujaheddin alla formazione di un governo di unità nazionale. In questo contesto, può essere utile specificare che Najibullah era un esponente di Parcham.

Tuttavia, proprio quando Gorbachev esprimeva l’intenzione di ritirare le truppe dal paese, gli sponsor occidentali dei mujaheddin aumentarono drasticamente i finanziamenti e i rifornimenti di armi, con lo scopo di rendere questo ritiro il più possibile complicato. Proprio nel 1986 in mano ai ribelli comparvero i famosi missili terra-aria Stinger. È evidente che con tali premesse i guerriglieri non avevano alcun interesse a sedersi al tavolo delle trattative, e gli appelli di Najibullah caddero nel vuoto. La guerra continuò.

Ma quando il 15 febbraio 1989 l’ultimo soldato sovietico abbandonò il paese, contro ogni pronostico, il governo di Najibullah non collassò sotto i colpi dei nemici. L’esercito afghano si rivelò ben equipaggiato, ben addestrato, e soprattutto ben motivato. Nuovi e nuovi attacchi dei ribelli venivano sventati, e Najibullah restava saldamente in controllo della situazione. Ciò era possibile solo grazie al sostegno di milioni di afghani, che vedevano nel governo socialista l’unico garante del progresso, o che semplicemente non credevano (e a ragione) nell’alternativa politica proposta dai mujaheddin. Mentre il blocco sovietico crollava con rapidità spiazzante, l’Afghanistan socialista resisteva, in un clima di crescente isolamento diplomatico, e di crescente pressione militare. Ciò significa che il processo di nation building era pienamente riuscito: l’esercito sovietico si era lasciato alle spalle un governo autosufficiente, con istituzioni solide e credibili.

Mohammad Najbullah, leader dell’Afghanistan democratico che resistette per tre anni ai mujaheddin.

Solo quando in URSS Gorbachev perse completamente il controllo delle strutture di potere, e all’Afghanistan vennero negati i rifornimenti di alcune risorse strategiche, come il carburante per i mezzi militari, la situazione peggiorò drasticamente. I mujaheddin conquistarono Kabul nell’aprile 1992, proclamando lo Stato Islamico dell’Afghanistan: la Repubblica dell’Afghanistan era sopravvissuta persino all’Unione Sovietica. Mohammad Najibullah allora si rifugiò nel palazzo delle Nazioni Unite a Kabul, dove rimase per i successivi quattro anni. Come era prevedibile, la guerra civile non si concluse: i mujaheddin si diedero immediatamente alle lotte intestine, facendo sprofondare il paese nell’anarchia e nel banditismo. Nel 1996 erano già gli stessi mujaheddin a fuggire da Kabul, di fronte all’avanzata del movimento Taliban. Najibullah fu catturato nell’edificio dell’ONU insieme al fratello, e della loro barbara esecuzione i talebani fecero uno spettacolo pubblico.

Nel 2008 fu tenuto un sondaggio tra gli abitanti della provincia di Kabul, che chiedeva di scegliere il miglior regime politico della storia recente. Le scelte erano le seguenti: il regime “comunista” di Najibullah, le due presidenze mujaheddin tra il 1992 e il 1996, il regime talebano del mullah Omar, o infine il regime americano dell’allora presidente Karzai. L’assoluta maggioranza degli intervistati espresse la sua preferenza per il regime “comunista” di Najibullah.

Il successo di un’operazione di nation building si valuta in base alla stabilità del nuovo sistema, nel momento in cui le truppe straniere abbandonano il paese. Dopo il ritiro del contingente sovietico, la Repubblica Popolare dell’Afghanistan, sola e tradita, ha resistito per tre anni contro forze soverchianti.

Il governo fantoccio americano del presidente Ghani è invece collassato addirittura prima che gli americani siano riusciti a completare la propria evacuazione. Ai talebani ci sono volute meno di due settimane per prendere il controllo di tutto il paese. Quando non si sono consegnate agli islamisti, le unità dell’esercito afghano si sono ritirate senza combattere. In mano agli uomini barbuti sono rimasti centinaia di mezzi militari, tra carri armati, autoblindo, aeri da trasporto, elicotteri d’assalto, tutti armamenti con cui gli USA avevano rifornito il governo di Kabul. L’equipaggiamento militare abbandonato ai talebani ammonta a un costo di 85 miliardi di dollari.

Nell’89, l’attuale fuggitivo si compiaceva del ritiro dei sovietici, profetizzando un rapido collasso del governo.

Spesso sono stati gli stessi funzionari nominati dal governo a trattare la resa con i talebani, prima di salire su un elicottero e fuggire verso la capitale. Le istituzioni fondate dalla NATO non hanno alcuna legittimità agli occhi del popolo, perché composte da un’élite profondamente corrotta, che è stata la prima ad abbandonare il campo. Pur godendo dell’incondizionato sostegno della comunità internazionale, e dell’ampio supporto materiale della NATO, il governo di Ashraf Ghani si è accartocciato su sé stesso nel giro di pochi giorni. Lo stesso presidente Ghani è fuggito segretamente dal paese, portandosi dietro una montagna di denaro pubblico. E ora, mentre si nasconde come un sorcio, la Rete ha riesumato ciò che con esultante compiacimento scriveva nell’89 sul ritiro sovietico. Come si suol dire, ride bene chi ride ultimo.

Conclusioni: due esperienze nettamente differenti

Tirando le somme, ci accorgiamo che le analogie tra l’intervento sovietico e l’occupazione americana sono ben poche, e si riducono alla comune ritirata del contingente militare, e alla volontà di instaurare un sistema a cui una parte più o meno ampia della popolazione è rimasta estranea. Ma le ragioni dell’intervento, gli obbiettivi e la gestione sono stati diametralmente opposti. Ancora prima dell’invasione, gli Stati Uniti avevano spinto il paese nel baratro, finanziando forze distruttive (i mujaheddin islamisti) incapaci di costruire qualcosa di diverso dall’arcaica società clanico-feudale in cui erano nate, e in cui il paese si trova tutt’oggi. Ma dal 2001 in poi, l’amministrazione americana dell’Afghanistan ha fatto sfoggio di incompetenza politica, militare ed economica. Persino i soldati americani sono consapevoli di aver lasciato dietro di sé il vuoto. Le morti sul campo sono state poche migliaia, ma i suicidi sono oltre 30’000. Se un veterano torna a casa e decide di farla finita, probabilmente non è convinto di aver combattuto una guerra giusta.

A questo punto non è per niente controverso affermare che l’Afghanistan avrebbe avuto una sorte migliore se l’Unione Sovietica fosse riuscita a concludere il processo di pacificazione. Un processo che solo la viltà di Gorbachev impedì di portare a termine.

I veterani russi sono per la maggior parte convinti dell’importanza sia dell’intervento sovietico, che del loro personale contributo, che chiamano “dovere internazionalista”. Ma sono gli afghani stessi i primi a rivalutare l’era sovietica. I “shuravi”, come venivano chiamati i cittadini sovietici, oggi sono ricordati con nostalgia.

“Sapete, oggi in Afghanistan un russo può permettersi molto di più di qualsiasi altro straniero. Abbiamo una cerchia di simpatizzanti molto più larga di chiunque altro. Gli americani invece non possono immaginarsi una situazione in cui possano uscire in città, o viaggiare da qualche parte, senza scorta.” ha detto Nekrasov, nell’intervista già citata.

Più che le analogie, questo confronto ci ha permesso di scovare le differenze tra il ventennale disastro americano e la missione sovietica. Una missione che, alla luce degli ultimi eventi, meriterebbe una rivalutazione storica.

Nil Malyguine

Nil Malyguine, classe 1997, è laureato in storia all'Università di Padova. Si occupa in particolare di storia della Russia e dell'Unione Sovietica. Dal 2020 milita nella Gioventù Comunista Svizzera.