/

Dalla Catalunya e dalle Filippine le proposte migliori del 74° Locarno Film Festival

Sparita la sala stampa presso il palazzo Comunale, mettendo così i giornalisti nella condizione di lavorare malamente e senza averne dato almeno comunicazione preventiva, il 74° Festival del Film di Locarno ha chiuso i battenti con un bilancio artistico modesto, mostrando i segni tangibili di un declino delle rassegne internazionali che riguarda anche altre illustri manifestazioni. Un tempo andare a un Festival significava vedere film di Africa, Asia, America Latina ed Europa Orientale che raramente sarebbero stati distribuiti e che offrivano una strepitosa e straordinaria occasione per conoscere popoli e culture senza la mediazione dei media occidentali. Oggi invece le opere provenienti da nazioni esterne all’Occidente sono realizzate da registi, sceneggiatori, produttori che o vivono in Occidente o condividono l’universo culturale e valoriale occidentale, dunque ne rispecchiano gusti ed interessi, opere che vengono presentate, anche a Locarno, come russe, cilene, tunisine, ma in realtà sono prodotti studiati e pensati per il pubblico occidentale e che nessun russo, cileno o tunisino vedrebbe e meno che mai vi riconoscerebbe, se le vedesse, un reale spaccato delle loro società. Produttori e distributori giocano un ruolo determinante, non era così un tempo, e prendersela con i direttori artistici di queste manifestazioni sarebbe riduttivo, visto che più che i selezionatori, oramai svolgono il ruolo, forse neppure da loro apprezzato, di assemblatori schiacciati da interessi esterni, che superano di molto le loro possibilità. Film russi, cileni o tunisini che raccontano quei paesi esistono ancora, ma non vengono cercati, non vengono scelti, non vengono invitati. Per chi voglia vederli restano solo due possibilità, industriarsi con ricerche personali in rete per arrivare a conoscerne l’esistenza e poi provare a recuperarli, oppure, molto più difficile in tempo post-pandemico, cercare un aereo a basso costo e volare a Mosca o a Tunisi.

In questo quadro abbastanza desolante, sono poche le proposte locarnesi che emergano in una generale proposta, tanto nel Concorso Internazionale, quanto in Cineasti del Presente, ricca di opere capaci di brillare solo per la loro mediocrità.

“Sei giorni di corsa” della catalana Neus Ballús i Montserrat è la più riuscita e apprezzabile commedia del Concorso Internazionale, nata da una ricerca della scuola del documentario di Barcellona, racconta con straordinaria e ilare complicità la quotidianità e le normali disavventure di un trio di pronto intervento per problemi idraulici ed elettrici. Marito della titolare, che si arrabatta per non chiudere la piccola e modesta impresa ereditata dal padre, è Valero, stretto tra la stanchezza di un lavoro che non lo appassiona, una dieta che non riuscirà mai a portare a termine, una cordiale e caustica antipatia per il giovane marocchino Moha, che la moglie gli ha imposto come apprendista, un ragazzo che studia la lingua catalana, si impegna con scrupolo, cerca di capire una società tanto diversa dalla sua ed è chiamato a sostituire l’anziano Pep che, tra saggi consigli e desiderio di un meritato riposo, sta andando in pensione. Il trio racconta la difficoltà di relazionarsi con gli altri, non solo i colleghi di lavoro, ma anche gli altri che stanno dietro la porta degli appartamenti in cui devono rappezzare rubinetti cadenti e centraline elettriche difettate, mentre i più disparati clienti si frappongono alle loro fatiche, girando interruttori, volendo dialogare di qualsiasi tema distraendoli, inventandosi improbabili consigli relazionali e psicologici. La settimana corre e con essa i tre protagonisti che alla fine, mentre si muovono tra palazzine riconoscibili eppure anonime della periferia di Barcellona, ritroveranno loro stessi davanti ad alcune tapas e a un the marocchino, perché questi uomini, gli ultimi di un mondo sempre più precario, hanno nella forza della loro umanità il tratto distintivo di un cammino che proprio in essa può trovare salvezza.

Incredibile eppure possibile raccontare con arguzia disincantata la tragedia di un ciclone che devasta e uccide. A renderlo possibile in Cineasti del Presente Carlo Francisco Manatad con “Se il tempo è bello”, opera riuscita e spiazzante, perché coniuga un ironico sorriso con cui l’obiettivo indugia tra le strade devastate di Tacloban City, città filippina quasi interamente distrutta l’8 novembre 2013 dal tifone Haiyan, con il rispetto per il dolore e la morte. Ne nasce così una serie di quadri in cui un ragazzo, Miguel, la sua strepitosa fidanzata Andrea, interpretata dalla bravissima Andrea Rans Rifols, e la sua afflitta madre alla ricerca del padre, scandiscono, sequenza dopo sequenza, la vitalità dei vivi che cercano di tornare alla normalità sopravvivendo in un contesto in cui acqua ed elettricità non ci sono più e i primi soccorsi e lo stesso approvvigionamento alimentare sono garantiti a fatica dall’esercito. Furti di oggetti e di cibo sono all’ordine del giorno, ma anche processioni e preghiere in cui la dimensione religiosa, la profondità mistica e l’isteria disperante si confondono in un solo cammino. Morti e buio, candele e rosari, luci e canzoni, lampi e piogge, pistole e abbracci, tutto si insegue e si tiene in una dimensione al contempo cinematografica e antropologica, spiegandoci come sia impossibile sperare che la semplice razionalità possa prendere il sopravvento in contesti simili.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.