Cosa sono i ristorni fiscali?
I Comuni italiani in cui i frontalieri sono domiciliati ricevono un versamento annuale che corrisponde al 38,8% dell’ammontare totale delle imposte pagate dai lavoratori frontalieri in Svizzera in base ad un accordo ratificato tra Svizzera ed Italia nel 1974. Questo provvedimento, che si riferisce esclusivamente alle località italiane nel raggio di 20 km dalla frontiera con il Cantone Ticino, trasferisce oltreconfine all’incirca una quota di 50 milioni di franchi annui. Più del 60% di tale imposizione rimane dunque in Ticino, andando a svolgere un ruolo non certo marginale per quanto riguarda il sostentamento finanziario degli investimenti cantonali.
Una scelta sbagliata e poco lungimirante
Il Consiglio di Stato, congelando la metà dei ristorni alla fonte versati ai comuni italiani di frontiera, ha preso una decisione che differisce sostanzialmente da quanto decretato attraverso un accordo internazionale vincolante tra Italia e Svizzera, che, oltre a promuovere un provvedimento che con la legalità ha poco a che fare, va a costituire uno sconveniente precedente nell’ambito dei rapporti tra i due paesi.
Va inoltre ricordato che, per quanto riguarda questo tipo di accordi internazionali, le singole autorità cantonali non hanno la facoltà di promuoverne sostanziali modifiche, bensì devono sottostare alle decisioni della Confederazione, la quale é l’organo a cui competono prioritariamente tali postulati. Da notare come in altri casi (come il salario minimo) si presti molte attenzioni alle competenze…
I fondi congelati costituiscono una risorsa importante per coloro che fino a poco tempo fa ne potevano beneficiare e, quindi, tale decisione potrà avere sostanziali ripercussioni per i Comuni delle province di Como, di Varese e del Verbano Cusio Ossola, andando a mettere seriamente in discussione l’integrità ed il mantenimento di servizi essenziali, quali i trasporti pubblici e le politiche sociali.
Nel corso degli anni, l’accordo in questione, risalente al 1974, ha subito un’unica modifica, datata 1985. Da questo momento fino ai giorni nostri esso non ha più visto alcuna trasformazione. È dunque evidente che un potenziale aggiornamento ed adattamento alle mutate circostanze che concernono l’attualità di tale accordo è auspicabile. In tal senso un adeguamento che includa il principio della reciprocità (l’introduzione di ristorni anche per i lavoratori ticinesi impiegati oltreconfine) sarebbe sottoscrivibile.
A chi appartengono e a cosa servono i ristorni?
Volendo analizzare il ruolo che i ristorni svolgono per le economie dei comuni italiani di frontiera, non possiamo che rimarcare quanto essi siano oggettivamente legati ad esigenze (investimenti ed in generale attività economiche) reali e certamente non immaginarie.
L’atto di bloccare il 50% di tali contributi presuppone la consapevolezza che queste entità appartengano e debbano essere gestite dal Ticino. Si pone dunque un interrogativo più che mai chiaro: chi ha diritto a beneficiarne?
La risposta, che sconfessa e ridimensiona la decisione del Consiglio di Stato, sembra abbastanza evidente quando si constata che i ristorni hanno origine dall’imposizione sui salari dei lavoratori frontalieri e, dunque, essi hanno logicamente il diritto a vedere investiti tali risorse economiche nel luogo e nel modo a loro più conveniente. In base a questo fatto appare logico che i fondi in questione vadano a finanziare i territori in cui i frontalieri spendono gran parte del proprio reddito e dove usufruiscono regolarmente dei servizi pubblici locali. Evidentemente, per il nostro governo, l’opinione dei lavoratori frontalieri è un “dettaglio” che non va preso in considerazione.
Peraltro è importante far notare come il Cantone Ticino incassi annualmente 75 milioni di franchi (circa il 15% del gettito totale delle persone fisiche) dall’imposizione sui salari dei lavoratori frontalieri. È lecito domandarsi, in base a tali cifre, se le nostra classe politica, tanto preoccupata, per meri scopi elettoralistici, a bloccare fondi che spettano legalmente alle economie dei comuni d’oltreconfine, faccia davvero abbastanza per offrire a questi salariati itineranti le prestazioni ed i servizi del caso. L’Amministrazione Pubblica, le Istituzioni Scolastiche, i Servizi Sociosanitari, la Sicurezza Sociale sono ambiti in cui il nostro Cantone offre particolari prestazioni ai lavoratori frontalieri? Non sembra e, anzi, tali disponibilità vengono “appaltate” ai Comuni in cui sono domiciliati questi lavoratori.
Una manovra elettorale che nasconde i veri problemi
Attraverso la retorica populista e patriottarda che è stata montata attorno a tale questione (sostanzialmente: “i sa porta in Italia i nos imposcti”) si sta distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dai reali problemi che concernono ed attanagliano la popolazione che lavora nel nostro Cantone. È indubbio ed evidente il ruolo che tale disputa svolge all’interno del progetto politico e propagandistico che le forze borghesi stanno portando avanti. Il gioco è semplice. Prendere un tema, i ristorni fiscali in questo caso, cavalcarlo ed ingrandirlo in modo iperbolico affinché buona parte dell’attenzione mediatica e popolare si riversi su di esso, portando acqua al mulino degli ideologi di tali manovre in funzione prettamente elettorale.
Del resto, attraverso queste vere e proprie invenzioni politiche, si promuove una strategica divisione, in questo caso transnazionale, dei salariati, unitamente alla diffusione ed all’intensificazione di sentimenti xenofobi. Un panorama che certo va a genio a coloro che quotidianamente, all’interno del mondo dal lavoro, complice un’infausta liberalizzazione del mercato del lavoro, possono continuare a speculare al ribasso nella concorrenza fra lavoratore indigeno e lavoratore frontaliere. Una concorrenza che inevitabilmente porta periodicamente verso il basso il livello salariale nei diversi settori. Il padronato costruisce sostanziosi profitti speculando sull’assunzione di manodopera frontaliera, che si trova in una condizione di necessità tale da accettare un salario minore rispetto agli indigeni per lo stesso lavoro.
La battaglia politica per l’introduzione di un salario minimo legale s’inserisce appunto nei solchi di questo scenario, poiché tale provvedimento andrebbe ad arginare la riduzione generalizzata della massa salariale e, nel contempo, potenzierebbe un potere d’acquisto popolare che in questi tempi di crisi ha subito un forte e pericoloso ridimensionamento.
Aris Della Fontana, coordindatore della Gioventù Comunista Ticinese
Ottimo articolo Aris!
Vorrei inoltre fare notare un’analisi simile del fenomeno di Pino Sergi: http://www.mps-solidarieta.ch/index.php?option=com_content&view=article&id=271:ristorni-fiscali-specchietto-per-le-allodole&catid=74:politica-cantonale&Itemid=57