WASHINGTON, DC - AUGUST 14: Supporters and members of the East Turkistan National Awakening Movement rally outside the White House to urge the United States to end trade deals with China and take action to stop the oppression of the Uyghur and other Turkic peoples August 14, 2020 in Washington, DC. The ETNAM and East Turkistan Government in Exile (ETGE) groups submitted evidence to the international criminal court, calling for an investigation into senior Chinese officials, including Xi Jinping, for genocide and crimes against humanity. (Photo by Chip Somodevilla/Getty Images)
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Xinjiang: fatti e finzione a confronto

Il presente articolo costituisce una libera traduzione dell’articolo di He Zhao intitolato “Xinjiang: Facts Vs. Fiction” (leggi qui la versione originale in inglese). Le parti successive del testo verranno pubblicate su sinistra.ch nelle prossime settimane.


Circa 27 milioni di musulmani sono stati uccisi dalla violenza imperialista negli ultimi due decenni, e i credenti hanno dovuto affrontare un’islamofobia sistematica e in precedenza una discriminazione di stampo razzista sia in Europa che negli USA. Per tali ragioni la narrazione sui musulmani oppressi in Cina risulta facile da trasmettere: calza insomma perfettamente alla fase storica nella quale viviamo. D’altro canto ciò è credibile solo finché non consideriamo la fonte di questa storia, ossia le stesse potenze occidentali che hanno attuato stermini di civili di fede musulmana sotto la bandiera della “guerra al terrorismo”, ridotto città di nazioni a maggioranza islamica in macerie, creato milioni di rifugiati, diffuso l’islamofobia. La narrativa emotiva si adatta perfettamente alla ferita e all’indignazione contro l’ingiustizia di oggi (la maggior parte della quale, completamente giustificata). Mischiando totalmente il fraudolento al legittimo, i guerrafondai sono esperti nel posizionare le loro bugie preconfezionate per meglio andare a toccare le corde dei cuori delle persone.

L’Occidente avanza accuse senza prove

10 delle 55 minoranze etniche riconosciute in Cina sono musulmane, la più numerosa delle quali è composta dagli Hui. Ci sono migliaia di moschee lungo tutto lo Stato e l’islam è diffuso. Ma gli uiguri sarebbero gli unici oppressi? Non c’è nessuna prova che un milione di uiguri si trovi in “campi di concentramento”, e nemmeno di una “eradicazione culturale”, di “violazioni di diritti umani” e “tortura”. Tantomeno vi sono attestazioni che dimostrino l’accusa di “genocidio”. Ci sono 10 milioni di uiguri nello Xinjiang: il presunto milione di detenuti rappresenterebbe dunque circa un decimo della popolazione uigura. Davvero arduo da credere a una forma tanto ampia di repressione.

Vari media hanno riportato una falsa dichiarazione dell’ONU in tal senso, ma le Nazioni Unite non hanno mai mosso in realtà accuse del genere (leggi qui): si trattava unicamente dell’opinione di un rappresentante statunitense che si basava a sua volta sulle supposizioni di un “gruppo di supervisione umanitaria” chiamato “Chinese Human Rights Defenders” con sede a Washington. Ma a differenza di un’accusa analoga nei confronti della Gran Bretagna o della Germania, nel qual caso sarebbero richieste prove, essa è pubblicizzata da tutte le principali reti informative senza che venga posta alcuna domanda o richiesta alcuna fonte. Questo è il doppio standard offerto dall’egemonia globale degli Stati Uniti.

Ciò che esiste, e che la Cina non ha mai nascosto, sono istituti professionali e centri educativi per per individui che hanno avuto contatti con il fondamentalismo islamico o che sono a rischio di averli. Non c’è alcuna prova in merito al fatto che i detenuti siano “forzati a bere alcool e mangiare maiale in condizioni estreme”, diversamente dalle quotidiane violazioni dei diritti umani ad esempio a Guantanamo, per cui le prove certo non mancano. La soluzione adottata dal Partito Comunista Cinese per contrastare le violenze estremiste verte sul triplice approccio che va a toccare educazione, inclusione, e alleviamento della povertà. Una soluzione che è stata applaudita quale esempio da vari leader di paesi esteri a maggioranza islamica.

Vestiti e stile tradizionali uiguri.

Una minoranza minacciata dall’integralismo, non dal governo!

Gli uiguri, così come le altre nove etnie di religione islamica in Cina, sono liberi di professare la propria religione con la protezione statale della loro identità culturale. La larga maggioranza degli uiguri si sente parte attiva della Repubblica Popolare di Cina, specialmente grazie ai recenti incrementi negli standard di vita, di lavoro e salariali. Vi è solo una piccola percentuale di estremisti nello Xinjiang con collegamenti con l’ISIS (finanziato dalla CIA) e indottrinati allo Jihadismo Wahhabita, che conducono agitazioni a favore della secessione e della fondazione di un “Turkestan dell’Est”.

Barbe e burqa, come osserva l’antropologo americano Dennis Etler, non sono mai state parte dell’abbigliamento tradizionale degli uiguri, ma sono elementi tipici del vestiario degli integralisti del Medio Oriente. Vietare questi usi nel contesto dell’eradicazione dell’estremismo violento responsabile della morte di centinaia di persone negli ultimi decenni è giustificato al fine di vincere sul fondamentalismo islamico, parte della campagna di destabilizzazione della CIA atta a fomentare conflitti interni, i quali rappresentano il vero pericolo per la cultura degli uiguri.

In Tagikistan e Kazakistan, due Paesi che hanno avuto esperienza dell’estremismo religioso come conseguenza del diffondersi del Wahhabismo, vari islamisti si sono arruolati per combattere con lo Stato Islamico contro il legittimo governo siriano. Quelle sono nazioni che, come la Cina, hanno sofferto l’instabilità e l’insurrezione causata e fomentata dal Wahhabismo. In questi paesi, per garantire la sicurezza e proteggere la vita dei cittadini, sono state applicate misure di repressione dell’estremismo religioso imponendo il taglio delle barbe, la chiusura dei negozi che vendevano burqa e bandendo nomi dal suono arabo. La realtà degli uiguri e dello Xinjiang è oscurata dalla falsa propaganda che viene lanciata sulla Cina, negando che vi sia un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita ed economiche in tutta la regione, oltre alla garanzia della libertà di culto.

Samuel Iembo

Samuel Iembo è stato dal 2015 al 2020 coordinatore della Gioventù Comunista Svizzera. Dopo la maturità presso la Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona, ha iniziato un percorso accademico.