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Peppino Impastato, Aldo Moro, l’Italia di allora e l’Europa di oggi

9 maggio. Quarant’anni fa moriva Peppino Impastato, ucciso su un binario del treno, nel giorno in cui le oscure trame che non volevano il Partito Comunista Italiano al governo, in un concorso tra estremismo politico fattosi armato in funzione anti-comunista, servizi segreti legati alla NATO e interessi politici piegati a chi allora era presidente del consiglio, Andreotti, e ministro degli interni, Cossiga, chiudevano l’esistenza di Aldo Moro, fattosi troppo scomodo per essere liberato, anche se tutti sapevano dove si trovava, mentre in televisione facevano vedere a ogni telegiornale strade presidiate dall’esercito e militari che sfondavano le porte – vuote – di un paesello dell’Appennino abruzzese.

Pagine tragiche di un’Italia che tuttavia, già allora, non diversamente da oggi, era nella sua stragrande maggioranza disinteressata a quelle tragedie, al destino del paese e al confronto politico. Da quel 1978 e peggio ancora un decennio abbondante dopo, con la scomparsa del PCI, il marxismo politico italiano si è fatto sempre più esiguo, rimanendo schiacciato dai particolarismi e piegato da estremismi in molti casi molto funzionali al sistema, in larga parte ostaggio di quei sessantottini che, come ha ripetuto recentemente anche Toni Negri, nella loro contestazione hanno volutamente travolto le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori, facendo in questo un grande favore al capitalismo e contribuendo alla vittoria e all’affermazione del consumismo egoista degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in cui la resistenza culturale all’annullamento di ogni forma di pensiero complesso si è fatta sempre più difficile.

Mentre l’Italia ufficiale e democristiana faceva finta di piangere per Aldo Moro, gli italiani si appassionavano per le discoteche e il disimpegno politico. Poche centinaia nel 1977, le discoteche diventano migliaia e migliaia nel 1978, cambiando il senso dello stare insieme dei giovani, imponendo una musica sparata tanto forte da porre fine a qualunque dialogo. Nel 1978 si smette di parlare e di discutere e si inizia a ballare e non pensare. Bettino Craxi, che coglieva il vento dei tempi, si farà massimo rappresentante di quell’Italia “da bere”, colorata nella pubblicità e cialtrona e ladrona in politica.

L’etica di persone come Impastato, Moro e Berlinguer, che sarebbe scomparso sei anni dopo di loro e che pur tra tante contraddizioni aveva posto il problema morale e quello dell’austerità, mentre tangentopoli metteva radici e lo spensierato consumismo fornicava col clientelismo e fomentava il debito pubblico, era fuori dal tempo. Sconfitti e cancellati, prima ancora che nella loro concreta vita, da una quotidianità del paese che aveva preso le distanze dal loro modo di agire e di pensare. Certo, molto aveva contribuito la pesantezza debordante di certi sessantottini parolai, in buona parte poi velocemente riciclatisi nelle stanze creative e del potere delle televisioni commerciali, ma era purtroppo il vento della storia che soffiava impetuoso per schiacciare e allineare l’Occidente nel solco del liberismo, degli interessi personali prima di quelli collettivi, dei fatti propri e privati prima del bene comune. Non è un caso se in quella temperie culturale le mafie abbiano trovato il terreno migliore per radicarsi e incancrenirsi nel corpo della penisola, radicandosi al nord, ben più che negli anni precedenti.

Il 9 maggio è diventato in Italia il “giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo”, certo, il terrorismo con la sua terribile stagione di sangue è una piaga che va ricordata, ma in egual modo occorrerebbe riflettere sull’accartocciarsi dei valori, sul disimpegno e sul menefreghismo che hanno preso il sopravvento allora, tutti avvenimenti che in quel 1978 hanno avuto un punto di snodo. Il 9 maggio è poi la festa dell’Europa – anche se nessuno se lo ricorda – perché quel giorno nel 1950 Robert Schuman e Jean Monnet hanno presentato il piano di cooperazione economica continentale che porterà alla nascita dell’attuale Unione Europea, un’altra istituzione totalmente screditata che, perseguendo un totale asservimento agli interessi delle multinazionali occidentali, ha perso di vista la centralità dei cittadini, diventati vittime delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea, così, mentre i lavoratori europei si immiseriscono, i parametri fiscali vengono rispettati, per la gioia degli eurocrati.

Tuttavia, se il 9 maggio è tutto questo, è anche qualcos’altro. È il Giorno della Vittoria. Il 9 maggio infatti rappresenta la totale sconfitta del nazismo e del fascismo e in tutta l’Europa orientale, da Berlino a Vladivostok, donne e uomini di ogni età celebrano la vittoria dell’Armata Rossa contro la barbarie. A Mosca alla parata sulla piazza Rossa partecipano i capi di stato che si riconoscono nell’antifascismo e chiedono un futuro di pace e multipolare, a Berlino, al parco di Treptow, si svolge un’imponente, colorata, festosa manifestazione.

Sarebbe bello che il Giorno della Vittoria in futuro potesse essere celebrato anche in Europa occidentale, sarebbe una buona occasione per riannodare i fili di una memoria e di un’identità europea che in quel 1945 ha le sue radici.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.