Sebbene i morti dell’aeroporto di Istanbul suscitino meno attenzione mediatica dei morti dell’aeroporto di Bruxelles, chiunque creda in una umanità in cui tutti gli esseri umani meritano uguale rispetto è in questo momento indignato e rattristato.
Sembra che quest’attentato sia opera del terrorismo estremista che insanguina da anni la regione, aggredendo la Siria e l’Irak. Negli ultimi mesi la Turchia è stata bersaglio di numerose stragi, alcune targate ISIS, un gruppo che Hillary Clinton ha ammesso essere un’organizzazione “sfuggita di mano”, queste le sue parole, ovvero un gruppo terroristico prima finanziato e poi diventato capace di autoalimentarsi nel suo progetto al contempo aberrante e lucido di promozione del fanatismo e di distruzione delle vite umane. Altre stragi, più numerose, sono state promosse dai movimenti separatisti curdi (PKK, TAK, ecc.).
Tuttavia questa striscia dolorosa di sangue e di morte ha delle ragioni che travalicano l’immediata rivendicazione degli attentatori. Come spiega il segretario del Partito Comunista svizzero Massimiliano Ay: “poco importa la matrice degli attentatori, siano essi islamisti o separatisti rispondono entrambi a una strategia della tensione che ormai da qualche tempo sta insanguinando la Turchia, soprattutto da quando le divisioni in seno al governo di Ankara sono diventate evidenti”.
Massimiliano Ay, allude a ragione al fatto che Recep Erdogan è stato scaricato dagli Stati Uniti, dopo che per anni ne è stato uno strumento attraverso cui – concedendogli libertà rispetto ai suoi progetti neo-ottomani – lo ha utilizzato per reprimere il dissenso interno e affermare la pax americana nella regione.
Da tempo però Erdogan ha smesso di essere solo e soltanto un alleato subalterno e servizievole e così Washington aveva deciso di trovare un nuovo riferimento ad Ankara nel premier Ahmet Davutoglu, epurato da Erdogan proprio un mese fa dopo una lunga guerra intestina al partito governativo AKP fra la linea istituzionalista di Erdogan e la linea smaccatamente filo-statunitense di Davutoglu, che fa capo alla setta del magnate turco-statunitense Fetullah Gülen.
Tutto questo non assolve Erdogan dalle gravi responsabilità che ha verso i suoi cittadini, sia per le condizioni economiche in cui versa il paese, sia per le scelte di contiguità in politica estera con chi promuove la destabilizzazione della regione mediorientale e contrasta il diritto a una esistenza pacifica delle nazioni a maggioranza sciita: Iran, Irak e Siria.
La tesi secondo cui gli attentati siano una sorta di reazione alle nuove relazioni di Erdogan con Israele regge solo in parte in quanto, nonostante le scaramucce mediatiche, gli accordi fra Turchia e Israele non sono mai realmente entrati profondamente in crisi, diversamente da quanto invece avvenuto con la Russia e la Siria.
E guarda caso, proprio nei giorni scorsi, Damasco si era detto disponibile a riaprire il dialogo con Erdogan (vedi: https://www.sinistra.ch/?p=4950) ed Erdogan si era finalmente scusato con Vladimir Putin per l’aereo russo abbattuto, iniziando così un processo di normalizzazione delle relazioni con Mosca, che a sua volta le sta migliorando con Israele.
Sono certamente questi nuovi potenziali equilibri geopolitici che evidentemente non sono apprezzati e ciò tanto dalla corrente di Davutoglu e di Gülen (rappresentati dagli interessi di Washington in Turchia), quanto dall’integralismo jihadista.
Ieri Soner Polat, ammiraglio in ritiro della marina turca, diplomato al collegio della NATO di Roma e attualmente dirigente dell’USMER, un centro di analisi geostrategica di Istanbul, ha dichiarato che “attentati del genere possono avvenire solo con l’appoggio di uno Stato e di un servizio segreto”. Polat rappresenta una fonte interessante in quanto – per i suoi orientamenti critici verso l’atlantismo e la sua apertura alla cooperazione con Russia e Cina – è stato fatto arrestare nel 2013 proprio da Erdogan e dunque non avrebbe alcun interesse a minimizzare le responsabilità implicite o esplicite del presidente turco.
È evidente quindi, foss’anche l’ISIS l’autore materiale della terribile strage dell’aeroporto, che è in atto una strategia aggressiva contro la Turchia, soprattutto se iniziasse ora a orientarsi con decisione verso Russia e Cina, ovvero verso una prospettiva euroasiatica.
Il popolo turco si trova così a subire, dopo l’eversione dei gruppi jihadista, dopo l’epurazione dall’esercito degli ufficiali ostili alla NATO e falsamente dipinti come golpisti, dopo il riarmo del separatismo etnico spacciato per progressista, un pesante clima di paura e di incertezza per il proprio futuro.