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Si torna a sparare fra Azerbaigian e Armenia. A chi giova il conflitto?

Tra Armenia e Azerbaigian si è tornati a sparare. Fra le due nazioni che fino al 1991 vivevano pacificamente sotto un unico Stato – l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) – è da un trentennio che regolarmente si registrano scontri armati. Anche in questo caso, insomma, la fine del socialismo non si può dire abbia portato progresso e libertà, ma solo a una estrema insicurezza!

Lenin e il progetto di Grande Armenia

Per capire cosa sta succedendo, dobbiamo studiare la storia e ricordare che il primo grande colpo all’integrità territoriale dell’URSS fu proprio la questione del Nagorno-Karabakh, una enclave a maggioranza armena all’interno dell’allora Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian. Sul finire degli anni ’80 iniziarono infatti i conflitti nazionalistici: la minoranza armena che vi viveva chiese a Mosca di separare il Nagorno-Karabakh dall’Azerbaigian e di trasferirlo all’Armenia.

L’idea era quella di sfruttare la liberalizzazione politica ed economica che stava prendendo piede in URRS mediante la cosiddetta Perestrojka per riunificare le terre armene in un’unica Grande Armenia. Un progetto geopolitico ambizioso, questo, che il Partito Comunista sovietico preferì non intraprendere immaginandone le conseguenze sanguinose, e peraltro contro cui già vi si oppose Vladimir Lenin fin dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre.

Si può dire, d’altronde, che il leader bolscevico nutriva già ai suoi tempi non pochi timori sull’espansionismo armeno, tanto che lo stesso comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista nel 1920, appellandosi proprio ai “contadini e operai armeni”, li criticò per essere “caduti vittima delle macchinazioni del capitale estero” volte a smembrare l’Impero Ottomano con l’illusione dell’indipendenza di una grande Armenia.

Lo storico di scuola marxista Eric Hobsbawm ricorda inoltre come “gli stati dell’Armenia e della Georgia (…) e il tentativo britannico di separare dalla Russia l’Azerbaigian, ricco di risorse petrolifere, non sopravvissero alla vittoria dei bolscevichi nella guerra civile del 1918-20 né al trattato turco-sovietico del 1921”.

La vittoria militare armena degli anni ’90

Gli azeri che vivevano in Armenia e nel Karabakh iniziarono a fuggire a seguito dei moti nazionalistici. Stando a quanto pubblicato dall’agenzia stampa russa Sputnik: “alla fine se in Karabakh vi erano molti azeri, non ve ne rimasero più. L’Armenia vinse il conflitto all’inizio degli anni ’90 conseguendo la separazione dall’Azerbaigian non solo della maggior parte del Karabakh, ma anche di alcune regioni – per la precisione sette distretti – dislocate tra quest’ultimo e l’Armenia stessa (infatti, non sarebbe stato possibile garantire la sicurezza del Karabakh senza queste regioni). Tuttavia, dal punto di vista formale il Karabakh non solo non costituisce parte dell’Armenia, ma quest’ultima non lo riconosce nemmeno come nazione indipendente (Repubblica dell’Artsakh o del Nagorno-Karabakh)”.

L’ONU condanna l’Armenia

L’Azerbaigian evidentemente non accetta la perdita delle proprie terre e vede l’intervento armeno come contrario alla propria sovranità, anche perché dal punto di vista del diritto internazionale il Karabakh e gli altri territori restano ancora oggi di competenza azera, benché di fatto gli azeri appunto non possano più amministrarli in quanto controllati dalle forza armate armene. L’ONU ha condannato attraverso varie risoluzioni l’espansionismo armeno e non riconosce il secessionismo di quei territori a favore dell’Armenia. Stiamo parlando delle risoluzioni 822, 853, 874 e 884 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedono il ritiro delle forze armate armene dai territori azeri.

L’ambiguità geopolitica

Una imponente rete filo-atlantica coordinata intorno alla grande sede diplomatica statunitense a Erivan oltre che alla Fondazione del magnate George Soros sembrerebbe aver svolto un ruolo importante nel portare l’attuale premier armeno, Nikol Pashinyan, al potere. Per quanto oggi quest’ultimo agisca in modo diplomatico e cauto nei confronti della Russia e esplicitamente non metta più in discussione il processo d’integrazione eurasiatico, non ci dobbiamo scordare che, prima della sua elezione alla testa del governo, rappresentava in parlamento proprio la coalizione filo-europeista YELK che, nel suo programma, definiva un errore l’adesione all’Unione Economica Eurasiatica del suo Paese in quanto poneva “seri rischi per la sovranità, la sicurezza, il normale sviluppo economico e politico dell’Armenia”. Ma anche il partito liberale cui aderisce tuttora Pashinyan – “Contratto Civile” – prima della sua nomina a premier ha fatto ampia campagna per creare legami più stretti con l’Unione Europea sostenendo l’inclusione dell’Armenia in una zona di libero scambio globale con l’UE in alternativa al mercato euroasiatico a trazione russa.

Oltre a ciò la prima squadra di governo voluta da Pashinyan (a onor del vero, va detto che nel frattempo ha subito varie modifiche) presentava tutta una serie di nomi legati a importanti ONG filo-atlantiche. L’attuale deputata fautrice dell’avvicinamento dell’Armenia al campo atlantico, Mane Tandilyan, era stata infatti inizialmente scelta da Pashinyan come ministro del lavoro e degli affari sociali. L’ex-viceministro per la diaspora Babken Ter-Grigoryan, era stato coordinatore dei programmi della Fondazione di Soros e cinque anni prima della sua nomina nel gabinetto ministeriale non mancava di esprimersi pubblicamente contro l’alleanza armeno-russa come si vede nella foto sottostante.

Anche Daniel Ioanissyan, incaricato dal Pashinyan di elaborare la riforma della legge elettorale armena, fino a pochi anni prima, oltre a partecipare ai World Forum for Democracy patrocinati dal Consiglio d’Europa, era coordinatore della ONG armena “Unione dei cittadini informati” che veniva però finanziata dalla NED, la National Endowment for Democracy, un’agenzia legata alla Casa Bianca che prepara i processi di “esportazione della democrazia” in giro per il mondo come appare dall’immagine sottostante.

Insomma abbiamo a che fare con una leadership armena perlomeno ondivaga, che ha deciso di riaprire la disputa territoriale con l’Azerbaigian contravvenendo agli inviti alla calma e al dialogo proveniente dal governo di Mosca. A che pro?

A chi gioverà l’attuale conflitto?

Gli attacchi di artiglieria contro le posizioni delle forze armate dell’Azerbaigian, sono avvenute in direzione del distretto di Tovuz, lungo il confine fra i due Stati. E’ il dato forse più rilevante dell’attuale situazione, poiché questa volta il conflitto non è scoppiato nel Nagorno-Karabakh, quindi in un territorio occupato da parte armena. Il Ministero degli Esteri di Baku ha infatti esposto questa sua ipotesi: “con azioni così provocatorie, l’Armenia sta cercando di attirare paesi terzi nel conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian”.

In effetti il governo di Erevan potrebbe aspirare a un intervento militare in sua difesa da parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) di cui è parte assieme a Russia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan qualora l’Azerbaigian dovesse rispondere al fuoco e, così facendo, violare il territorio armeno. Ma la Russia sarà pronta a farsi trascinare in una tale guerra? E a chi gioverebbe l’estensione del conflitto?

L’escalation attuale dettata dall’attacco armeno contro gli azeri minaccia in realtà direttamente – con grande vantaggio per gli Stati Uniti – le attività produttive cinesi in loco. In effetti la Cina partecipa attivamente al progetto ferroviario Baku-Tbilisi-Kars, a cui oltre alla Turchia, ora si potrebbe aggiungere pure la Russia stessa. Questo tracciato di ferrovia è relativamente vicino alla regione di Tovuz, che fa parte dell’iniziativa della Nuova via della seta cinese, la cosiddetta “One Belt One Road”. Le ostilità in quest’area sembrano insomma dimostrare che questa guerra gioverà unicamente a chi non ha interesse al multipolarismo.