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I lavoratori cinesi guadagnano di più che in Europa

In Cina le condizioni salariali dei lavoratori continuano a migliorare. A dirlo non è la “propaganda” dei giornali del Partito Comunista Cinese, ma un giornale non certo in odore di comunismo, come “Italia Oggi” dell’8 novembre 2018, che  spiega come il salario medio degli operai cinesi è infatti in forte crescita: dal 2005 al 2016 è aumentato in media del triplo.

Una tuta blu a Pechino guadagna una media di 983 dollari al mese, a Shanghai una media di 1’135 dollari mensili, mentre a Shenzen si scende a 938 dollari. Paghe più alte che in alcuni paesi europei come la Croazia, ma anche nella media di quanto percepisce un operaio italiano visto che questa tra nord, centro, sud e isole oscilla tra i 700-800 euro al mese cioè 850-970 dollari.

Gli operai di Shanghai percepiscono salari mensili più alti della media di 956 dollari della Lituania e di 1.005 dollari della Lettonia e ormai a ridosso della media registrata nel 2016 di 1’256 dollari dell’Estonia, entrata nell’euro nel 2011.

In tutte le grandi metropoli cinesi il Partito Comunista Cinese ha fissato uno salario minimo, sotto il quale è vietato scendere. Si tratta di una mossa atta anche a favorire i consumi interni così da diminuire i rischi di dipendenza economica dall’estero: l’indipendenza della Repubblica Popolare si basa infatti sull’indipendenza anche economica. Un concetto sviluppato da Deng Xiaoping, ma in realtà già ampiamente presente nella concezione del socialismo di Mao Zedong.

Siamo di fronte alla messa in pratica dell’ultima grande svolta politica del gigante asiatico: investimenti nelle infrastrutture, aumenti salariali e sovranità nazionale. E questo mentre in Europa – Svizzera compresa – si punta invece sull’esportazione, non si concedono salari minimi e anzi si favorisce il dumping salariale per ricercare una competitività che impoverisce i lavoratori.