Sono stati molti i cittadini turchi all’estero che si sono recati ai seggi predisposti nelle ambasciate, nei consolati e negli aeroporti per esprimere il proprio voto in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Domani toccherà ai turchi in patria che dovranno decidere se continuare con la presidenza di Recep Tayyip Erdogan o se, dopo sedici anni, cambiare rotta.
La socialdemocrazia turca candida contro Erdogan, Muharrem Ince. Benché candidato dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP), a suo tempo fondato dal leader rivoluzionario Mustafa Kemal Atatürk, i riferimenti al kemalismo laicista sono sbiaditi e l’unità nazionale non è più una condizione assoluta, tanto è vero che si sono visti nei comizi di Ince sventolare pure le bandiere dei separatisti curdi, che non sono piaciute alla base storica del partito, molto patriottica. Il programma elettorale è peraltro quello tipico di un partito di centrosinistra come li conosciamo in Occidente, con il rischio che venga però messo addirittura in secondo piano, dalla foga dai tratti personalistici anti-Erdogan. Il CHP ha chiarito la sua contrarietà alla cooperazione con Putin e Assad ed è addirittura possibilista sull’adesione della Turchia all’Unione Europea (UE), ancora di recente Ince ha dichiarato: “La nostra scelta è l’Occidente. Subito dopo essere stato eletto presidente, farò un tour delle capitali europee”. Pur di rovesciare l’odiato Erdogan, i socialdemocratici hanno relativizzato il precetto laicista e si sono alleati in una coalizione con il Partito della Felicità (SP), dell’integralista islamico Temel Karamollaoglu, e con il Partito Buono (Iyi Parti) dell’unica donna candidata Meral Aksener, post-fascista (era iscritta fino a pochi mesi fa al Partito dell’Azione Nazionalista MHP, espressione dei “Lupi Grigi”) e vicina alla setta golpista di Fethullah Gülen e dichiaratamente filo-atlantica.
La Sinistra Europea candida invece l’indipendentista Selahattin Demirtaş, leader del Partito della Democrazia Popolare (HDP) e simpatizzante dell’organizzazione armata PKK di Abdullah Öcalan. Demirtaş è attualmente in carcere per i suoi legami con i separatisti curdi in Turchia così come in Siria. Nel suo programma, unitamente alla lotta contro la censura dei social network, spicca la questione di genere, il femminismo e i diritti civili, secondo i canoni comunicativi della sinistra liberal occidentale, mentre glissa su tutti i temi forti e prioritari nella fase odierna del Paese: il rilancio economico è puramente declamatorio con promesse generiche di aumenti salariali e con un tocco anzi dal sapore “decrescista” e contro le grandi opere. L’uscita dalla NATO è del tutto assente dal programma, così come nulla si dice sulle basi militari straniere. L’adesione della Turchia a pieno titolo nell’UE sarà poi rilanciata; Demirtas ha infatti spiegato: “continueremo a difendere i principi dell’Unione Europea, come la democrazia locale e lo stato di diritto”. Ha poi proposto un “approccio libertario alla governance” e ha ribadito la balcanizzazione del Medio Oriente nel nome della “libertà”.
E qui potremmo chiudere. Almeno così fanno gli altri media occidentali che scordano sempre (stranamente) un candidato che invece fa discutere molto in Turchia mentre da noi è sistematicamente censurato dai giornalisti europei che sulla Turchia copia-incollano le informazioni che ricevono dalle agenzie americane.
Il candidato “outsider” c’è ed è il post-maoista Dogu Perinçek, leader del partito della sinistra patriottica Vatan Partisi. Saggista con oltre 55 libri pubblicati e dottore in giurisprudenza, Perinçek è uno dei più longevi dirigenti politici del socialismo turco con alle spalle oltre 15 anni di prigionia politica in epoche diverse: l’ultima volta dal 2006 al 2014 nell’ambito del processo-farsa Ergenekon, accusato di aver cospirato un colpo di stato, è stato indicato dagli Stati Uniti e della setta islamista di Fethullah Gülen come uno dei propri principali nemici. Benché rappresenti un partito elettoralmente minoritario, la sua influenza è molto più estesa e riguarda circoli accademici, militari e geoeconomici. Perinçek – che ha storici rapporti con il Partito Comunista Cinese e il Partito del Lavoro di Corea – rappresenta una linea politica fortemente orientata al recupero della sovranità nazionale, per l’uscita dalla NATO, l’espulsione delle truppe americane dalla base di Incirlik e l’adesione all’Organizzazione di Shangai. Egli considera che la Turchia debba spostarsi nell’area economica eurasiatica e giocare un ruolo di primo piano nella nuova realtà multipolare. Negli anni alcuni leader mediorientali come l’iraniano Mahmud Ahmadinejad e il siriano Bashar Al-Assad hanno riconosciuto in lui un interlocutore privilegiato, incontrandolo personalmente nell’ambito di un programma di una diplomazia informale.
Nel programma elettorale di Perinçek (un elenco di 85 priorità) si legge ad esempio lo stop immediato a ogni processo di privatizzazione delle industrie produttive e la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, con il divieto dei subappalti e delle agenzie di lavoro interinale; la creazione di un sistema scolastico non solo completamente gratuito (libri di testo e università compresi), ma che ritorni ai principi scientifici razionalisti e laicisti, oltre che il recupero di una storiografia non subalterna culturalmente a quella occidentale. Il sistema sanitario dovrà non solo essere pubblico, ma si vuole avviare la produzione nazionale dei farmaci per non doverle importare gravando sul bilancio statale e dipendendo dalle multinazionali. Perinçek ha pure annunciato di avere nel cassetto alcuni accordi commerciali con imprenditori cinesi da attuare subito in caso di vittoria.
Quello che si sta prefigurando è un Erdogan che gioca su più fronti mostrandosi come rappresentante degli interessi della nazione: una volta sostiene gli interessi atlantici in Ucraina, ma poi apre canali commerciali con Russia, Cina e Venezuela. Una volta strizza l’occhio al grande capitale, ma poi favorisce gli alloggi popolari con discorsi caritatevoli. I suoi avversari però, ad esclusione del candidato outsider Perinçek, puntano tutto sul ritorno a una sudditanza del Paese agli USA e all’UE come prima del tentato golpe del luglio 2016.