Un presidente disperato, una notte di follia, tutto finito. Pare che a Washington non sapessero nulla e abbiano un grande desiderio di archiviare tutto molto, molto alla svelta. Questa potrebbe essere una spiegazione, ma francamente pare poco credibile, così come è irrealistico che un presidente golpista si possa scusare, quando è evidente che almeno debba assolutamente dimettersi. Tuttavia questa ipotesi nelle prime ore dell’alba coreana del giorno dopo non paiono surrealmente essere prese in considerazione, aumentando dubbi e confusione.
Una democrazia molto fragile
Intanto occorrono alcune premesse: la democrazia sudcoreana è sempre stata molto fragile, nata solo nel 1987, l’anno prima delle Olimpiadi di Seoul, dopo quarant’anni di dittatura filo-occidentale, in particolare con Park Chung-hee dal 1961 al suo assassinio nel 1979 e poi dal 1979 al 1987 sotto Chun Doo-hwan. Eredità di quei tempi il bislacco sistema presidenziale che relega a un ruolo marginale il parlamento, tanto che l’attuale presidente Yoon Suk-yeol controlla solo un terzo dei deputati, ma essi rappresentano la “maggioranza”, mentre i due terzi che gli sono contro sono di fatto la “minoranza”. Insomma un sistema iper-presidenziale che non prevede nemmeno una coabitazione tra parlamento e presidente come negli Stati Uniti o in Francia.
Una strampalata dichiarazione sui comunisti nordcoreani
Poi la dichiarazione strampalata di Yoon Suk-yeol che alle ore 23.00 coreane del 3 dicembre 2024, le 15.00 in Europa, compare in televisione per annunciare la legge marziale ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione sudcoreana, a suo dire “per proteggere la Repubblica di Corea, per sradicare le spregevoli forze anti-statali filo-nordcoreane che stanno minando la libertà e la felicità del nostro popolo e per proteggere il libero ordine costituzionale”, proteggerlo così bene da annientarlo. In verità i due partiti maggioritari, il Partito Democratico con 170 deputati e il Partito dei Potere Popolare, quello del presidente, con 108 son ugualmente atlantisti e liberisti, per quanto i democratici meno smaccatamente bellicisti nei confronti della Corea Popolare.
Il parlamento si ribella, l’esercito irrompe nel parlamento
Succede così che nella notte i parlamentari esautorati – di tutti i partiti – si riuniscano nel palazzo dell’Assemblea Nazionale per respingere con 190 voto a zero lo stato di emergenza, l’esercito irrompa con l’intento di contraddirli e forse arrestarli, ma poi prenda atto del voto che in base alla Costituzione obbliga il presidente alla revoca della legge marziale e si ritiri, una enorme manifestazione popolare difenda il parlamento e alle quattro del mattino la polizia inviti bonariamente i manifestanti ad andare a dormire. Tutto finito dunque? I prossimi giorni lo diranno.
Tuttavia il fatto che il presidente sostenga che i due terzi dei parlamentari siano dei comunisti amici di Pyongyang è del tutto ridicolo. Poiché pare che non abbia avvisato neppure il governo e il suo partito, è credibile che non abbia nemmeno fatto una telefonata a Washington? L’amministrazione Biden è totalmente estranea e all’oscuro di tutto? Anche questo appare molto poco credibile. Ancora meno credibile che la legge marziale sia stata decretata perché il parlamento si starebbe apprestando a respingere la legge di bilancio e a mettere sotto accusa un paio di ministri del governo di Yoon Suk-yeol.
Zittire il dissenso prima della guerra?
Il tentativo golpista si spiega molto più concretamente con il tentativo di zittire ogni voce dissenziente rispetto a un eventuale coinvolgimento della Sudcorea in un conflitto aperto con la Cina e dunque anche con la Corea Popolare. Proprio questo è il fatto, la maggioranza dei politici e dei partiti, dei cittadini, dei media, pur mantenendosi fedeli al più feroce anticomunismo, che resta l’ideologia imposta da Washington prima come giustificazione per quarant’anni di dittatura e poi come ragione primiziale della fragile democrazia sudcoreana, sono del tutto contrari alla guerra, rifiutano e respingono l’eventualità di un coinvolgimento sudcoreano in quel conflitto, che l’amministrazione democratica statunitense avrebbe voluto già da tempo far deflagrare nell’Indo-Pacifico contro la Cina. La contrarierà alla guerra dei sudcoreani non solo è ispirata dal disinteresse e dal disprezzo dei giovani per qualsiasi conflitto, ma anche dalla molto più importante considerazione che l’interscambio commerciale tra la Sudcorea e i due presunti nemici con cui dovrebbe entrare in guerra, ovvero la Cina e la Russia, sia una parte straordinariamente rilevante dell’economia nazionale.
Il fallimento dei colloqui Trump – Kim Jong Un di qualche anno fa sono stati causati dal fatto che la richiesta dei nordcoreani di una penisola coreana denuclearizzata e priva di basi straniere sia stata respinta. Pyongyang era ben disponibile a chiudere ogni pretesa o esperimento nucleare, a patto che i trentamila soldati statunitensi lasciassero la Sudcorea con i loro aerei con bombe atomiche e in ogni caso non lasciassero ai sudcoreani ordigni nucleari, tutto questo non è accaduto e la presenza militare statunitense è ancora oggi pericolosamente presente e rilevante. Ancor più preoccupante è che a parlare da Washington, rispetto ai fatti sudcoreani, sia il vice segretario di Stato Kurt Campbell, notorio teorizzatore della necessità di una rapida escalation militare contro la Cina e messo in quel posto determinante per la politica estera statunitense da Biden a febbraio.
La notte della democrazia sudcoreana forse è superata, i venti di guerra tuttavia, pur in direzione ostinata e contraria rispetto alla volontà popolare, continuano a spirare forti e terribili.