Gli Stati Uniti e il suprematismo bianco in guerra contro la Cina

“Il pericolo giallo”

Nel 1904 Jack London, celebre scrittore americano, fu inviato come reporter a documentare la guerra tra Russia e Giappone.

Secondo Daniel A. Métraux, curatore di una raccolta di scritti di London sull’Asia, la sua esperienza come giornalista in Corea e Manciuria ebbe un impatto significativo sulla sua visione del mondo:

“In quanto uomo bianco, egli si trovava in una posizione di minoranza, osservando una guerra in cui l’Asia, rappresentata dal Giappone, riuscì a sconfiggere le forze occidentali, incarnate dalla Russia, nonostante la sua inferiorità numerica. Questa esperienza gli fece capire che l’Occidente non era invincibile e che gli asiatici potevano superare gli anglosassoni. Il mondo che London aveva sempre conosciuto si capovolse davanti ai suoi occhi: il popolo caucasico era solo uno dei tanti gruppi razziali e non godeva di nessuna superiorità intrinseca.”

Jack London discute con dei militari giapponesi in Corea durante la guerra russo-giapponese.

Tuttavia, non fu il Giappone a colpire maggiormente London durante il suo viaggio, ma la Cina. Una volta tornato negli Stati Uniti, scrisse un saggio sulla Cina intitolato The Yellow Peril in cui descrisse la sua prima impressione all’ingresso nel Paese: “Tutti lavoravano. Tutto funzionava, ho visto un uomo che riparava la strada. Ero in Cina”.

Sempre nello stesso testo scriveva:

“L’egoismo razziale e individuale esistono, ed è un bene. In primo luogo, il mondo occidentale non consentirà l’ascesa del pericolo giallo (…) non permetterà ai gialli e ai bruni di diventare forti e di minacciare la sua pace e il suo benessere”.

Nel 1907 London scrisse un racconto intitolato The Unparalleled Invasion – tradotto L’inaudita invasione – in cui immagina la futura potenza economica della Cina sfidare la supremazia occidentale:

“Contrariamente alle aspettative, la Cina non ha dimostrato di essere bellicosa. Non aveva sogni napoleonici e si accontentava di dedicarsi alle arti e alla pace. Dopo un periodo di inquietudine, si accettò l’idea che la Cina fosse da temere, non tanto in guerra, ma nel commercio”.

In questo racconto l’Occidente trova una soluzione militare alla sfida economica cinese: la storia si conclude con l’annientamento di gran parte della popolazione cinese attraverso una guerra batteriologica condotta dagli Stati Uniti.

Jack London incarna in maniera emblematica la paura e la violenza del suprematismo bianco di fronte al “pericolo giallo”. Egli stesso affermò: “Sono prima di tutto un uomo bianco e solo dopo un socialista”.

Questa confessione risuona ancora oggi in alcuni ambienti della sinistra occidentale, che, infastidita dalla crescita della Cina – non solo economica, ma soprattutto tecnologica – percepisce il pericolo dell’”imperialismo” cinese e invoca alla necessità di un “contenimento” della Cina.

La Cina come colonia dell’Occidente: la guerra dell’oppio

L’Impero britannico cercò di imporre trattati commerciali favorevoli ovunque potesse esercitare il suo potere, una strategia che le potenze occidentali continuano ad utilizzare con successo ancora oggi. Tuttavia, la Cina, con un sistema di commercio estero molto limitato, impose diverse restrizioni alle ambizioni britanniche. In questo contesto, l’oppio rappresentava un affare estremamente profittevole per l’Impero britannico. Nel 1850, tra il 15% e il 20% delle entrate dell’Impero provenivano dal commercio dell’oppio. Gli storici Timothy Brook e Bob Wakabayashi, nel loro studio Opium Regimes, hanno scritto: “L’Impero britannico non poteva sopravvivere senza la sua più importante fonte di capitale, la sostanza che poteva trasformare qualsiasi altra merce in argento”, riferendosi all’oppio. Inoltre, lo storico Carl Trocki, autore del libro Opium, Empire and the Global Economy, ha affermato che “l’’intera infrastruttura del commercio europeo con l’Asia è stata costruita intorno all’oppio”.

Secondo Trocki:

“Il capitalismo avrebbe potuto svilupparsi in Asia da solo, senza linfluenza dell’oppio, ma la realtà è che non è andata così. In ogni fase dello sviluppo, l’oppio è stato cruciale: prima nell’eliminazione degli ostacoli ‘tradizionalisti’ al mercato, poi nel processo di mercificazione e, infine, nella creazione di una classe di consumatori, e soprattutto, nella creazione del mercato stesso”.

“L’oppio ha preparato il terreno al capitalismo creando mercati di massa e consumatori proletari, minando al contempo la morale e la moralità delle élite politiche di tutta l’Asia”.

Nella conclusione del libro Trocki scrive:

“L’oppio era vitale, sia per la trasformazione capitalista delle economie locali sia per il finanziamento delle strutture amministrative coloniali che proteggevano queste economie. L’oppio era anche importante perché accelerava i cambiamenti fondamentali nelle relazioni di produzione necessari alla crescita di tipo capitalista. Era lo strumento delle classi capitaliste per trasformare la contadinanza e monetizzare il loro modo di vita di sussistenza. L’oppio ha creato riserve di capitale e alimentato le istituzioni che lo hanno accumulato: i sistemi bancari e finanziari, i sistemi di assicurazione e le infrastrutture di trasporto e informazione. Queste strutture e questa economia sono state in gran parte ereditate dalle nazioni che oggi si sono succedute nella regione”.

India britannica: un magazzino di oppio destinato al mercato cinese.

L’imperatore cinese, per proteggere il suo popolo, aveva decretato l’illegalità dell’oppio e del suo commercio, che rimaneva comunque molto complicato e limitato. La risposta dell’Impero britannico alle misure adottate dal governo cinese per proteggere e difendere l’integrità del suo popolo e del suo territorio arrivò nel 1839, quando la regina Vittoria inviò la marina britannica a bombardare le regioni costiere della Cina, dando inizio alla prima guerra dell’oppio, che durò fino al 1842. La seconda guerra dell’oppio, che vide la partecipazione dei francesi e si svolse dal 1856 al 1860, portò infine la Cina a legalizzarne il commercio e ad aprire definitivamente le sue frontiere all’Occidente, trasformando di fatto la Cina in una colonia.

La Cina, l’oppio e l’accumulazione di capitale negli Stati Uniti

Lo sfruttamento della Cina e il commercio dell’oppio sono stati fondamentali anche per l’accumulo di capitale e lo sviluppo del capitalismo negli Stati Uniti.
Molte delle famiglie più rispettate e influenti degli Stati Uniti erano coinvolte in diverse società americane che traevano profitto dal commercio dell’oppio, come la famiglia Delano, antenata materna del futuro presidente Franklin Delano Roosevelt. Secondo James Bradley, autore del libro The China Mirage, “L’influenza di queste fortune accumulate dal commercio dell’oppio si è infiltrata praticamente in tutti gli aspetti della vita americana. Questa influenza era anche culturale: il trascendentalista Ralph Waldo Emerson sposò la figlia di John Murray Forbes (un magnate dell’oppio), e la fortuna del suocero contribuì a fornire a Emerson il sostegno necessario per diventare un filosofo professionista. Essa si manifestava anche nella tecnologia: il figlio di Forbes si occupò dell’investimento del padre nella Bell Telephone Company, diventandone il primo presidente. Infine, era di natura ideologica: gli eredi di Joseph Coolidge (un altro magnate dell’oppio) fondarono il Council on Foreign Relations. Diverse aziende che avrebbero avuto un ruolo importante nella storia americana erano anch’esse il risultato dei profitti ottenuti dalla droga, tra cui la United Fruit Company”.

Sempre secondo Bradley, furono i profitti dell’oppio a finanziare la costruzione di molte ferrovie americane, come quelle di Boston, del Michigan e di Chicago. Infine, anche famose università della costa orientale degli Stati Uniti devono molto ai profitti dell’oppio: gran parte dell’area in cui è stata costruita l’Università di Yale è stata donata dalla famiglia Russell, che fece fortuna con il commercio di oppio. Anche le università di Columbia e Princeton hanno beneficiato di donazioni da parte di famiglie la cui fortuna ha la stessa origine.

La legge sull’esclusione degli immigrati cinesi                                                    

La scoperta dell’oro in California attirò molti immigrati cinesi e, con grande sorpresa dei lavoratori bianchi, i cinesi si dimostrarono molto efficienti: bevevano meno e risparmiavano gran parte dei loro guadagni. James Bradley riporta il commento di un senatore americano dell’epoca, George Hearst, riguardo ai lavoratori cinesi nelle miniere d’oro: “Lavorano più duramente della nostra gente, e vivono con meno…Potrebbero mettere i nostri lavoratori con le spalle al muro”.

E non solo nelle miniere: anche nella costruzione delle ferrovie i lavoratori cinesi si dimostrarono più capaci ed efficienti rispetto ai lavoratori bianchi. James Bradley racconta che durante la costruzione della Ferrovia Transcontinentale gli immigrati europei fallirono nel tentativo di perforare il duro granito delle montagne della Sierra Nevada. Tuttavia, i cinesi, spesso di bassa statura, riuscirono a penetrare il granito e a posare i binari nei tratti più impegnativi del progetto. All’epoca, il governatore della California, Leland Stanford, scrisse al presidente Andrew Johnson, affermando che “senza i cinesi sarebbe stato impossibile completare la parte occidentale di questa grande ferrovia nazionale”.

Operai cinesi della Central Pacific Railroad: collegarono con la ferrovia le due coste degli Stati Uniti.

Con la fine della costruzione della ferrovia, gli immigrati cinesi si dispersero in tutto l’Ovest, diventando agricoltori, proprietari di lavanderie, di ristoranti e alberghi e di altre piccole imprese. Grazie alla loro disciplina lavorativa e a uno stile di vita frugale, i cinesi riuscivano spesso a offrire servizi e prodotti migliori e più economici di quelli forniti dai lavoratori bianchi. Questa concorrenza suscitò il malcontento tra quest’ultimi, spingendo i sindacati, dominati da lavoratori bianchi, a fare pressione sul Congresso per espellere i cinesi. Nel 1882 fu quindi approvata la legge sull’esclusione degli immigrati cinesi – Chinese Exclusion Act – che rendeva illegale l’ingresso di immigrati cinesi  negli Stati Uniti.

Il suprematismo bianco, che aveva segregato i discendenti africani escludendoli dal mercato del lavoro, si trovava ora sfidata nel proprio territorio da un’altra “razza inferiore”. Di fronte al “pericolo giallo” denunciato dallo scrittore Jack London, l’Exclusion Act cinese si trasformò in un’azione statale volta a difendere il suprematismo bianco negli Stati Uniti.

L’invasione giapponese, la seconda guerra mondiale e la rivoluzione cinese

La Seconda guerra mondiale ebbe inizio in anticipo per la Cina, già nel 1931, quando l’Impero giapponese invase la provincia della Manciuria alla ricerca delle risorse naturali necessarie per la sua industria. Dal 1937, il Giappone impose una delle occupazioni militari più brutali del XX secolo su una vasta porzione del territorio cinese. L’ideologia della superiorità razziale giapponese sugli altri popoli asiatici portò a massacri di milioni di cinesi, coreani, indonesiani e di altre etnie, analogamente a quanto accadde con l’illusione della superiorità della “razza ariana” nella Germania nazista, che portò all’uccisione di milioni di ebrei, rom, neri, slavi e altre minoranze in Europa. Tuttavia, la devastazione in Cina fu forse senza precedenti: si stima che tra i 14 e i 20 milioni di cinesi siano morti durante la guerra di resistenza contro l’occupazione giapponese, che provocò tra gli 80 e i 100 milioni di rifugiati.

1937: truppe di occupazione giapponesi a Pechino.

Tra il 1931 e il 1949, la Cina fu coinvolta in conflitti ininterrotti sul proprio territorio: prima l’invasione giapponese e poi la guerra civile, che terminò nel 1949 con la vittoria della Rivoluzione cinese. Le conquiste del governo rivoluzionario cinese dal 1949 in poi possono essere comprese appieno solo considerando la portata delle difficoltà affrontate dal paese in quegli anni. Come afferma Shu Guang Zhang, autore del libro Economic Cold WarAmerica’s Embargo against China and the Sino-Soviet Alliance 1949 – 1963:

“Dopo decenni di guerre, sia civili che internazionali, l’economia cinese era sull’orlo del collasso totale. Sebbene sia difficile valutare con precisione l’entità delle difficoltà economiche della Cina, la loro gravità è facilmente immaginabile. Nel 1949, la produzione industriale del paese rappresentava solo il 30% del livello massimo registrato: la produzione dell’industria pesante era diminuita del 70%, quella dell’industria leggera del 30% e quella agricola del 24,5%. La produzione annua di carbone ammontava a soli 3.243 tonnellate, quella di ferro e acciaio a 150.000 tonnellate, mentre la produzione di cereali era di 113,2 milioni di tonnellate e quella di cotone di 445.000 tonnellate. Il sistema di trasporto era quasi inoperativo: oltre 5.000 miglia di ferrovie erano paralizzate; 3.200 ponti e 200 tunnel risultavano gravemente danneggiati; circa 4.000 miglia di strade percorribili erano a malapena utilizzabili; il trasporto aereo e marittimo era praticamente inesistente. Inoltre, grandi inondazioni avevano aggravato ulteriormente la situazione. I danni subiti dalle infrastrutture del paese avevano causato una forte inflazione e una grave perturbazione del commercio, sia nazionale che internazionale. Indubbiamente, il Partito Comunista Cinese (PCC) dovette ricostruire l’economia devastata, contenere l’inflazione e sostenere la ripresa dell’industria e del commercio, una questione diventata cruciale per la sopravvivenza stessa del paese”.

È importante ricordare che la Cina non ricevette alcun risarcimento dal Giappone per la ricostruzione nel dopoguerra, né beneficiò di un programma simile al Piano Marshall statunitense per favorire la ripresa economica. Al contrario, dopo la vittoria della Rivoluzione cinese, gli Stati Uniti avviarono una guerra economica contro la Cina con l’intento di indebolire il nuovo governo rivoluzionario. Solo l’Unione Sovietica offrì un contributo alla ricostruzione cinese, seppur un aiuto limitato a causa delle difficoltà che essa stessa affrontava alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il miracolo economico e sociale cinese

Uscita da una situazione drammatica nel 1949, in soli 73 anni la Cina, sotto la guida del Partito Comunista, è diventata la più grande potenza economica mondiale. Come afferma John Ross nel suo libro China’s Great Road, questo rappresenta: “Il più grande risultato economico della storia umana, non solo per le sue conseguenze sulla Cina, ma anche per il miglioramento delle condizioni generali dell’umanità”.

Secondo John Ross:

“Questa è la ragione fondamentale per cui i ‘media occidentali’ (…) tendono a censurare la consapevolezza che la crescita della Cina è stata di gran lunga più significativa rispetto a quella di qualsiasi altro paese nella storia umana. Ciò avviene perché la Cina ha raggiunto un livello di sviluppo economico senza precedenti in termini di rapidità e portata, realizzandolo come paese socialista e non come paese di economica capitalista”.

Ancora John Ross:

“Negli ultimi venticinque anni, la Cina ha sollevato oltre 620 milioni di persone dalla povertà assoluta. Secondo il professor Danny Quah della London School of Economics, questo rappresenta il 100% della riduzione del numero di persone che vivono in povertà assoluta nel mondo. Nessun altro paese può nemmeno lontanamente paragonarsi al contributo della Cina alla riduzione della povertà globale. Un fatto che pone le critiche, sia legittime che illegittime, nei confronti della Cina in un contesto qualitativo più appropriato”.

La guerra contro la Cina

Jack London ha rivelato una profonda verità quando scrisse che il mondo occidentale non avrebbe tollerato l’ascesa del “pericolo giallo”. London e il suprematismo bianco etichettano i popoli del Sud globale, inclusi quelli dell’Africa e dell’America Latina, come “bruni” e, insieme ai “gialli”, essi rappresentano una minaccia significativa alla dominazione occidentale. Tale percezione riflette la paura di una possibile alleanza tra queste popolazioni capace di sfidare il suprematismo bianco e l’ordine capitalistico.

La Cina ha fornito un contributo significativo allo sviluppo dei paesi latinoamericani e africani, offrendo investimenti in infrastrutture, stipulando trattati commerciali e presentandosi come un’alternativa alle imposizioni di privatizzazione da parte delle istituzioni occidentali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che sono impegnate a mantenere un ordine neoliberale e neocoloniale. Per il disappunto dei critici dell’”imperialismo cinese” in Africa, di recente:

“La Cina ha condonato 23 prestiti senza interessi a 17 paesi africani, dopo aver già annullato 3,4 miliardi di dollari e ristrutturato 15 miliardi di dollari di debito dal 2000 al 2009. Pechino ha promesso ulteriori progetti infrastrutturali e ha offerto accordi commerciali favorevoli in un modello ‘win-win’ di ‘cooperazione reciprocamente vantaggiosa’”. (https://popularresistance.org/china-forgives-23-loans-for-17-african-countries-expands-win-win-trade-and-infrastructure-projects/)

Addis Abeba, Etiopia: medici cinesi curano la popolazione locale presso l’Ospedale dell’Amicizia sino-etiope.

Di fronte alla crescita economica della Cina, alle sue alleanze politiche con diversi Paesi africani, latino-americani, asiatici e con la Russia, e di fronte all’avanzata di aziende tecnologiche cinesi come Huawei, gli Stati Uniti minacciano una guerra contro la Cina, come previsto da Jack London nel suo omonimo racconto L’inaudita invasione. E mentre la guerra non si materializza, gli Stati Uniti cercano disperatamente di escludere la Cina e le sue aziende dal commercio globale, come se fosse possibile una versione contemporanea dell’Exclusion Act cinese, ma questa volta con portata planetaria!

Di fronte all’evidente declino dell’economia statunitense, incapace di tenere il passo e di competere con la crescita cinese, di fronte alla vergognosa concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti, di fronte alla sempre più evidente incapacità del capitalismo nel dare risposte concrete agli urgenti problemi della distruzione dell’ambiente e del riscaldamento globale, di fronte alle numerose rivolte che, soprattutto nel Sud globale, hanno sfidato con successo le imposizioni neocoloniali e il neoliberismo, all’impero statunitense non resta che appellarsi all’ultimo bastione della sua autoproclamata superiorità: il suprematismo bianco.
Non ci sono più argomenti razionali e legittimi a sostegno del capitalismo e delle sue gerarchie imposte, né giustificazioni per la sottomissione ad esso. Pertanto i movimenti della destra e dell’ultradestra internazionale si fondano su appelli irrazionali alil suprematismo bianco. Questo fenomeno è evidente nell’aumento della violenza razzista, specialmente nei luoghi in cui l’ordine neoliberale tenta di imporsi, come nel caso del colpo di stato contro il governo di Evo Morales in Bolivia e in Brasile sotto il governo di Bolsonaro.

Il suprematismo bianco, il capitalismo e lo sfruttamento coloniale sono strettamente intrecciati nella storia della dominazione occidentale del pianeta. Fin dalla guerra dell’oppio l’Occidente ha cercato di sottomettere la Cina e di impossessarsi delle sue ricchezze. Il suprematismo bianco non ha mai perdonato alla Cina di essere riuscita a sfuggire al suo “destino” di sottomettersi e di diventare una colonia. Con la rivoluzione cinese è iniziata una diversa fase storia, e un nuovo futuro è ora possibile.

Franklin Frederick

Scrittore e attivista politico di origini brasiliane, vive in Svizzera dove è stato insignito del premio Nord-Sud della Romero-Haus di Lucerna per l'impegno a favore dell'accesso all'acqua potabile. Fino al 2020 è stato fra i vertici dell'associazione di cooperazione ALBA SUIZA.