Ucraina: colloqui di pace in vista?

Da mesi non si fa altro che parlare di trattative di pace per l’Ucraina. Molti le ritengono imminenti, quasi tutti le considerano indispensabili, eppure nessuno sembra in grado di tracciarne i possibili contorni.

Entrambi gli schieramenti, sebbene in misura differente, accusano la stanchezza della guerra e sembrano consapevoli della necessità di concluderla, ma questo è forse l’unico punto su cui si trovano d’accordo. Non vi è infatti alcuna intesa né sul luogo, né sul formato, né su chi potrebbe mediare questi colloqui.

E intanto al fronte si continua a sparare.

Le posizioni dei contendenti

Inutile girarci attorno: per concludere una guerra, serve che uno dei due schieramenti riporti una vittoria decisiva sul campo; oppure che entrambi siano sufficientemente stanchi da accettare una soluzione di compromesso che in un’altra situazione sarebbe insoddisfacente.

Vista la prevalente staticità del fronte, che nemmeno la recente offensiva russa nella regione di Kharkov è riuscita a infrangere, la situazione odierna non sembra rientrare nella prima casistica. L’Ucraina evidentemente non è più in grado di tornare sui suoi confini del 1991: le vittorie militari del 2022, quando le truppe di Kiev erano riuscite a cacciare i russi dalle regioni di Kiev, Chernigov, Sumy e Kharkov, sono ora solo uno sbiadito ricordo. Ben più vivida invece la memoria della “controffensiva” dell’estate 2023, che avrebbe dovuto, a detta di Zelenskij e soci, portare le truppe ucraine fino in Crimea, ma che in realtà si è rivelata per loro un insensato massacro senza alcuna conquista territoriale. Salvo imprevedibili (e improbabili) sconvolgimenti politici in Russia, l’Ucraina non può riconquistare territori, ne può solo perdere altri.

Nel Donbass si combatte per ogni trincea.

Inoltre l’Ucraina si è ridotta al rapimento dei propri stessi cittadini, senza di cui non avrebbe le reclute necessarie a rimpiazzare le perdite. I commissari di reclutamento pattugliano le strade delle città e catturano in pieno giorno gli uomini in età di leva, caricandoli sui furgoni militari per portarli nelle caserme, dove vengono costretti con minacce e non di rado percosse a dichiararsi volontari. Nulla di tutto questo è legale, ma i neonazisti al potere non hanno altra scelta se vogliono continuare la guerra per conto dei loro padroni occidentali.

La Russia dal canto suo continua a fare pressione contro le linee ucraine, ma a Mosca in molti considerano deludenti questi ritmi di avanzata. Infatti, dopo due anni e mezzo di guerra ampie porzioni del Donbass sono ancora sotto il controllo dell’esercito ucraino che – va ricordato – gode di un incessante sostegno bellico da parte dei governi NATO. Inoltre le forze armate russe stanno iniziando a riscontrare difficoltà a trovare nuovi volontari e ciò induce alcuni politici e commentatori a chiedere al governo di Mosca di optare per una mobilitazione obbligatoria, che Putin tuttavia vuole evitare ad ogni costo. Sembrerebbe quindi il momento propizio per sedersi al tavolo delle trattative e trovare un compromesso, ma quali sono le condizioni che i due paesi pongono per iniziare i colloqui?

Vladimir Putin è stato molto chiaro al riguardo. Alla metà di giugno, appena prima della conferenza del Bürgenstock, il presidente russo ha avanzato una seria proposta di pace: un cessate il fuoco e un trattato di pace immediato e duraturo se le truppe ucraine abbandoneranno l’intero territorio delle regioni di Donetsk, Kherson e Zaporozhye, ossia quelle regioni che nell’autunno del 2022 sono state ufficialmente integrate nella Federazione Russa in seguito ai referendum (la regione di Lugansk è invece già sotto pieno controllo russo). In prospettiva storica potrebbe anche essere una proposta ragionevole per l’Ucraina: certo dovrebbe concedere dei territori, comprese le città di Kherson e Zhaporozhye, capoluoghi delle omonime regioni, ma con la garanzia di conservare la propria sovranità (o quel che ne resterebbe, sotto il tallone euroamericano) e di evitare ulteriori perdite territoriali, che diventano più probabili man mano che la guerra va avanti. Tuttavia i leader ucraini non ragionano in prospettiva storica e in ogni caso dispongono di un’autonomia decisionale a dir poco limitata. Infatti, ancor prima che da Kiev, la proposta di Putin viene rifiutata dai suoi alleati occidentali…

“I leader occidentali rifiutano la proposta di pace della Russia”, tuona Euronews. Ma non dovrebbe essere una scelta del popolo ucraino?

Ad ogni modo anche la cricca di Zelenskij nelle ultime settimane si è dimostrata disponibile al dialogo, almeno a parole. È certamente un progresso, visto che fino a pochi mesi fa Kiev rifiutava in toto l’idea stessa di parlare con i russi prima di averli ricacciati oltre i confini ucraini del 1991 (Crimea inclusa). Recentemente Zelenskij ha invece dichiarato di essere disponibile a iniziare i colloqui anche senza il ritiro dei russi dai territori che controllano, una disponibilità ribadita dal ministro degli esteri Kuleba dopo un colloquio con il suo omologo cinese. Se si tratti di seri propositi diplomatici è però ancora da dimostrare, visto che il decreto che vieta (!) al governo di condurre trattative di pace con i russi, firmato da Zelenskij nel settembre 2022, non è ancora stato abolito. Finché ciò non sarà fatto, i discorsi di Zenelskij e soci rimangono parole buttate al vento.

E il Bürgenstock?..

È passato poco più di un mese dal summit internazionale nel canton Nidvaldo, eppure se ne sono già dimenticati tutti. Del resto non poteva finire altrimenti, visto che la riunione del Bürgenstock, aldilà dell’altisonante epiteto di “conferenza di pace”, era qualcosa di più simile al club degli amici di Kiev, nel quale si è cercato di coinvolgere il Sud globale senza invitare la Russia. Lo scopo della conferenza svizzera non era insomma gettare le basi per un processo di pace, ma ribadire ancora una volta il sostegno all’Ucraina da parte della “comunità internazionale” (leggasi l’Occidente collettivo). Prevedibilmente, i paesi del Sud Globale hanno preferito non legittimare questo ridicolo teatrino, disertando l’evento o rifiutandosi di firmarne la dichiarazione.

Viola Amherd marcia con Volodymyr Zelenskij: non ci sono dubbi sullo schieramento della Confederazione.

Ma se lo scopo della conferenza del Bürgenstock era mostrare all’Ucraina il sostegno dell’Occidente, certamente la Svizzera ha fallito pure in questo. Nella dichiarazione finale dell’evento si ribadisce il rispetto dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Peccato che lo stesso Zelenskij, poco dopo il summit alpino, abbia egli stesso ventilato la prospettiva di iniziare le trattative riconoscendo de-facto il controllo russo su certi territori: evidentemente la prova di forza della diplomazia svizzera non ha rassicurato il mini-führer di Kiev.

Il viaggio di Orban

Purtroppo, vista la faziosità della sua dirigenza, è già chiaro che il dialogo per la pace non può passare dalla Svizzera. Piuttosto parte da Budapest, passa per il Cremlino e la Città Proibita e si conclude a Mar-a-Lago in Florida, dove vive Donald Trump. Questo infatti è stato l’itinerario di Viktor Orban nel suo primo viaggio internazionale in qualità di presidente dell’Unione Europea, anche se l’intero establishment europeista, schiumante di rabbia, ha chiarito che si è trattato di un’iniziativa personale del presidente ungherese. Orban tuttavia non si è lasciato intimidire da Bruxelles e, dopo aver visitato Zelenskij a Kiev, si è recato a visitare Putin a Mosca. Poi dalla Russia è ripartito verso la Cina per vedere Xi Jinping, concludendo infine il suo viaggio in Florida, dove ha incontrato il Tycoon, favorito delle presidenziali americane del prossimo novembre.

Viktor Orban vola a Pechino per discutere di pace con Xi Jinping.

A onor del vero, le dichiarazioni seguite ai quattro incontri sono state piuttosto povere di dettagli, ed è difficile ipotizzare quali progressi si siano fatti nei colloqui a porte chiuse tra il leader ungherese e i suoi omologhi. A Kiev Orban ha suggerito un “cessate il fuoco immediato” per accelerare i negoziati, ma Zelenskij non si è espresso (e dunque ha rifiutato); a Mosca Orban deve constatare che le posizioni dei contendenti “sono molto lontane”; a Pechino i due leader si limitano a generiche esortazioni alla de-escalation; mentre dopo Mar-a-Lago Orban si dice convinto che Trump “risolverà il problema” della guerra, ma non scende nei dettagli. Pare comunque lecito ipotizzare almeno una cosa: che lo scopo principale del viaggio di Orban fosse verificare quanto siano compatibili la formula di pace di Xi Jinping e quella di Donald Trump.

Il piano di Xi e quello di Trump

La formula di pace di Xi, ufficialmente denominata La posizione della Cina per una soluzione politica della crisi ucraina, è stata resa pubblica nel febbraio 2023, e prevede 12 punti, tra cui i più importanti sono: il cessate il fuoco e l’inizio di trattative; il rifiuto della “mentalità da Guerra Fredda”; il rifiuto di sanzioni unilaterali; il primato del diritto internazionale senza “doppi standard” e il rispetto della sovranità e integrità territoriale di tutti i paesi. Questa formula ha già incassato l’importante sostegno del presidente brasiliano Lula da Silva e probabilmente riuscirà laddove il Bürgenstock ha fallito: compattare attorno a sé il sostegno del Sud Globale. Persino il ministro degli esteri ucraino Kuleba, che lo scorso 23 luglio è stato convocato senza preavviso in Cina, come uno scolaretto dal direttore, dopo l’incontro bilaterale con il suo omologo cinese Wang Yi è apparso ben più accondiscendente a un dialogo con Mosca mediato da Pechino. Resta solo da capire come la “formula di Xi” potrebbe svilupparsi nella pratica, in particolare per quanto riguarda il punto sul rispetto dell’integrità territoriale di tutti i paesi, visto che Russia e Ucraina ormai rivendicano entrambe, de jure e de facto, gli stessi territori.

Donald Trump, che dopo il fallito attentato, il ritiro di Joe Biden e la candidatura della pessima Kamala Harris è saldamente in testa a tutti i sondaggi per la corsa alla Casa Bianca, approccia la crisi ucraina con fare ben più sbrigativo, dichiarando che “farà la pace ancora prima di entrare in carica”. Non esiste un documento ufficiale della “formula Trump”, ma il Tycoon si è espresso in maniera trasparente su come intende procedere in caso di vittoria: minaccerà da una parte l’Ucraina di tagliare i rifornimenti, dall’altra la Russia di aumentarli notevolmente, a dipendenza di chi si dimostrerà più restio a sedersi al tavolo delle trattative. Un doppio ricatto che sfrutta il rubinetto degli aiuti militari, ora quasi del tutto in mano statunitense visto che gli arsenali della NATO in Europa sono sostanzialmente ormai vuoti. Una diplomazia rozza ma che può rivelarsi alquanto efficace.

Donald Trump è convinto di riuscire a fermare la guerra se tornerà alla Casa Bianca.

Conclusioni

Tirando le somme, è probabile che l’inizio dei colloqui di pace tra Russia e Ucraina dipenderà da quanto saranno conciliabili la formula cinese e quella trumpiana. Le incognite sono però ancora troppe: l’elezione di Trump è probabile ma non scontata, mentre il fronte guerrafondaio (composto dall’Unione Europea, dal Regno Unito e dai democratici americani), che controlla completamente il governo-marionetta di Kiev, ha ampie possibilità per far naufragare qualsiasi trattativa.

Inoltre bisogna tenere a mente che l’inizio di trattative non significa automaticamente il loro successo: esse possono protrarsi a lungo (persino anni) e anche fallire. È il caso per esempio degli accordi di Minsk, che, protrattisi per otto anni, non hanno mai portato alla pace ma solo a un’escalation ancora maggiore. Quel che è certo, e i leader russi lo hanno detto chiaramente, è che non ci sarà alcun cessate il fuoco durante le trattative, ma solo dopo la firma di un accordo con tutte le dovute garanzie. I russi non ripeteranno gli errori commessi sia con gli accordi di Minsk che con quelli di Istanbul del marzo 2022, dove ogni gesto di buona volontà da parte di Mosca veniva sfruttato dall’esercito ucraino per trarne un vantaggio militare sul campo.

Ma lo scoglio forse più grande per una pace duratura in Ucraina, è che l’attuale situazione sul campo non soddisfa nessuno dei contendenti. L’odierna linea del fronte non segue alcuna barriera naturale o amministrativa ed è dunque estremamente inadatta per fare da nuova frontiera tra i due paesi. Inoltre la permanenza al potere della cricca di Zelenskij, interamente controllata dall’estero, non potrà mai dare a Mosca le necessarie rassicurazioni sulla non adesione alla NATO e il rispetto dei diritti della popolazione russofona. Sul lato ucraino invece sono molte le forze interne, in particolare gli squadroni neonazisti, armati fino ai denti, che non accetteranno alcuna cessione territoriale alla Russia e vorranno proseguire la guerra a oltranza. La strada è insomma tutta in salita e in qualunque caso non sarà breve.

Il rischio è che una pace che non soddisfa nessuno diventi il preludio per una nuova guerra.

Nil Malyguine

Nil Malyguine, classe 1997, è laureato in storia all'Università di Padova. Si occupa in particolare di storia della Russia e dell'Unione Sovietica. Dal 2020 milita nella Gioventù Comunista Svizzera.