/

Khelif contro Carini: transfobia o follia woke?

Transgender, intersessuali, cambio di sesso, sport. Argomenti caldi e attuali che si mischiano nel recente caso alle Olimpiadi Estive di Parigi del 2024 dell’incontro di pugilato che ha visto l’italiana Carini e l’algerina Khelif affrontarsi in un match che è durato a malapena 45 secondi. La pugile Carini, poliziotta, si è arresa quasi immediatamente dopo aver ricevuto due ganci ed essersi resa conto che non ce l’avrebbe fatta. Da una parte chi difende la scelta del comitato olimpico di far partecipare una persona intersessuale (ci torniamo dopo) iper androgina nella categoria femminile, dall’altra chi ritiene che la scelta sia sbagliata per uno squilibrio biologico che avrebbe avvantaggiato l’atleta algerina. Chi ha ragione e chi torto? È un caso molto complesso, ma è decisamente una cartina di tornasole sul fatto che qualcosa sul fronte dell’inclusione non sta funzionando come dovrebbe, creando problemi, forse ingiustizie e sicuramente malumori importanti.

Bisogna prenderla un po’ larga e partire dal fatto che queste polemiche nascono e sono alimentate (crescendo di numero negli anni) dal fatto che vi è un dibattito molto acceso sulla transizione di sesso e che cosa voglia dire essere uomo o donna. Questo dibattito viene condotto da una sinistra “liberal” in maniera talvolta estrema e dittatoriale, bollando negativamente chi, semplicemente, di fronte a casi come questo si pone dei dubbi. La destra, d’altro canto, reagisce ruggendo e spesso, nonostante termini e concezioni razziste e sessiste, conquista il favore popolare perché talvolta semplicemente sembra ragionare con un approccio più rassicurante per la popolazione. Un esempio fuori dallo sport è quello dello stupratore scozzese Isla Bryson, che dopo aver cambiato sesso ed essere stata condannata è stata messa (inizialmente) in un carcere femminile, senza considerare il pericolo che le altre detenute potessero correre, tutto per non essere accusati di transfobia. Questo dibattito viene quindi ridotto da legittima preoccupazione per la gestione di questi fenomeni crescenti a una dicotomia fra “progressista” e “retrogrado”, come se vi fosse automaticamente una risposta sempre giusta e una sbagliata, indipendentemente dal caso e dalle circostanze, e che chi non la accetta è unicamente uno con un pensiero vecchio, uno che non capisce e non accetta. Possiamo dire che non è così.

Sia ben chiaro, non sto dicendo che non si debba condividere la volontà ideale di inclusione e di parità, che permette alla persona di stare bene e godere di ciò di cui ha bisogno per sentirsi appagata e serena nella vita. Come marxisti non potremmo mai negare una volontà simile, sarebbe contrario ai principi di emancipazione delle classi subalterne che da sempre difendiamo. In paesi socialisti come Cuba la transizione di sesso è un diritto ed è pagata interamente dallo Stato.

Il dilemma nelle competizioni è un altro: è davvero inclusiva ed emancipatoria la situazione che viene a crearsi? Includere nello sport un atleta che ha delle importanti componenti biologiche maschili, chi avvantaggia? Il disagio di una persona che vive una condizione simile è chiaramente già un ostacolo nella vita, ma metterle in categorie che hanno delle differenze sostanziali rispetto ad altre atlete, rende davvero più inclusivo lo sport? Avrei i miei dubbi. Il primo principio che mi permette di cercare altre visioni è quello del femminismo: le varie ondate di donne che hanno lottato per i loro diritti negli anni si sono battute strenuamente per ottenere degli spazi che fossero veramente loro, protetti da una possibile influenza negativa di dinamiche che non favorissero l’emancipazione femminile e lo sviluppo e la realizzazione personale. In questo è incluso lo sport femminile. Davvero queste conquiste, guadagnate con fatica, non vanno difese di più prima di accettare acriticamente che un individuo dell’altro sesso, indipendentemente dalla sua storia, dal suo stadio di transizione, ne faccia parte?

Ora, il caso in questione è un po’ più complicato e anche diverso nella sostanza. Infatti qua non parliamo di transizione di sesso, non si parla di una persona transgender ma di una donna intersessuale, cioè che nasce con caratteristiche di entrambi i sessi. Viene quindi più complicato e dettato da altri criteri stabilire quale sia la scelta giusta in un mondo dove comunque la maggior parte delle persone rientrano egosintonicamente in una o nell’altra categoria. Sono decisamente casi particolari che meritano attenzione, quindi la risposta non può essere immediata. La pugile algerina ha i documenti al femminile e ha sempre fatto competizioni in categorie femminili. L’IBA (international box association) aveva dichiarato, però, che la Khelif possiede cromosomi XY (maschili quindi) dopo un test effettuato per gli scorsi mondiali di pugilato e che fosse di conseguenza biologicamente uomo, ma il Comitato Olimpico Internazionale dice di aver fatto le verifiche del caso e i parametri per rientrare nella categoria femminile sono rispettati per Parigi 2024, secondo dei test ormonali. Il fatto che sembrano esserci discrepanze nelle organizzazioni internazionali già pone un problema. Non è possibile che non si arrivi a degli standard comuni e che quest’atleta sia esclusa da un mondiale mentre venga poi ammessa alle olimpiadi. Viene quasi da pensare che esista all’interno di queste organizzazioni sportive una lotta politica che cerca d’influenzare verso l’una o l’altra direzione. È per questo che è difficile cercare delle soluzioni migliori?

Eppure il dibattito su come gestire questi fenomeni potrebbe aprirsi – senza censure e tifo – e sarebbe anche l’ora. Il medico Alessandro Lanzani si pone con delle possibili soluzioni più approfondite: perché, così come esistono pesi leggeri e massimi, non introdurre altri criteri come il corredo genetico? Questo è un dibattito che andrebbe fatto sulla base di dati concreti che permettano il miglior sviluppo dello sport agonistico, per definire degli standard comuni e condivisibili da tutti. Ma tornando al Comitato Olimpico e alla sua decisione, il fatto che comunque esista una scientificità dietro alle scelte rassicura un po’ sul fatto che perlomeno si cerchi di avere parametri oggettivi, ma è evidente ai più ormai che anche la scienza subisce le pressioni della politica per allentare o stringere questo o quel bullone per rendere tutto più conforme a ciò che dall’alto si vuole trasmettere. In altre parole, la necessità di alcune frange ideologiche di spingere verso alcune teorie di genere sta aprendo un serio rischio di censura ai danni del dibattito aperto. È difficile affrontare queste tematiche con posizioni non allineate alla concezione liberal della società fluidificata in ogni sua forma senza venir attaccati e denigrati. Questo rende difficile un confronto onesto e impedisce che le decisioni, in questo caso riguardanti lo sport, possano essere prese serenamente su basi condivise e non divisive. Il risultato è una frammentazione della società nelle classi subalterne che non è per nulla positiva e porta a scontrarsi su problemi che vengono messi in luce dai media nonostante riguardino, con tutto il rispetto dovuto, una parte minima della popolazione. 

Difatti, mentre tutto ciò fa un gran baccano ovunque, se una donna nasce in Niger e non ha sufficiente denaro e strutture nel paese per sviluppare le proprie possibili qualità da atleta non è visto come discriminazione. Se quella donna nasce in Svizzera tutto ciò lo ottiene sicuramente più facilmente. Eppure questa differenza sostanziale fra paesi occidentali e paesi di altre parti del mondo, del Sud globale in particolare, che pure hanno tante persone validissime, non crea nessun tipo di scandalo, viene semplicemente accettata come normale, come lapalissiana e quindi semplicemente non modificabile. Insomma, di far affiorare un mondo interamente più giusto, di cooperazione multipolare e paritaria fra i popoli non si parla. Di questioni di genere invece è pieno ogni sito d’informazione, fomentando un dibattito che vede una sinistra liberal e una destra conservatrice scontrarsi e scannarsi senza risolvere nulla. Fa riflettere sulle nostre priorità e in particolare su quelle dei nostri media.

Samuel Iembo

Samuel Iembo è stato dal 2015 al 2020 coordinatore della Gioventù Comunista Svizzera. Dopo la maturità presso la Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona, ha iniziato un percorso accademico.