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La polizia sionista vuole impedire ai comunisti israeliani di organizzare il dissenso

In quella che viene comunemente definita – con una menzogna incredibile – quale “unica democrazia del Medio Oriente”, la polizia del regime sionista di Israele sta in realtà tentando di impedire il Congresso Nazionale del movimento politico progressista HADASH prevista per sabato 16 dicembre, sostenendo che vi sarebbero stati “discorsi incitanti all’odio che avrebbero messo in pericolo la sicurezza pubblica”. La polizia sionista – sottoposta al comando del ministro Itamar Ben-Gvir, notoriamente razzista anti-arabo – ha infatti minacciato il proprietario della struttura nella città di Shefa-Amr (Shfar’am), nel nord di Israele, dove si sarebbe tenuto l’evento affinché ne ritirasse la disponibilità. In caso contrario la struttura sarebbe stata chiusa d’ufficio per un mese con una scusa che oltre al danno finanziario avrebbe distrutto la reputazione del luogo.

Un’ondata continua di repressione anti-comunista

Si tratta dell’ultima di una serie di provocazioni. Il 10 novembre c’era stata una retata di polizia ai danni della sede comunista di Nazareth, nella quale gli agenti aveva strappato manifesti politici e addirittura imbrattato dei murales, e il giorno precedente un ex-deputato comunista era finito in carcere per aver espresso pubblicamente posizioni “disfattiste” verso l’impegno bellico del regime. Lo scorso 16 novembre poi era stato negato il permesso ad HADASH di svolgere una manifestazione a Tel Aviv che chiedesse il cessate il fuoco a Gaza. Oltre ai soliti motivi circa l’ordine pubblico, l’altra ragione era il fatto che un tale corteo  “avrebbe potuto ferire i sentimenti degli sfollati dal sud di Israele che attualmente risiedono a Tel Aviv”. Tradotto significa che i poveri coloni sfollati avrebbero potuto attaccare il corteo e che non c’erano sufficienti agenti per impedirlo. Erano dovuti intervenire degli avvocati dell’Associazione per i diritti civili (ACRI) con una petizione  all’Alta Corte di Giustizia chiedendo di ordinare alla Polizia di rilasciare l’autorizzazione a un attore politico legittimo e riconosciuto. Durante l’udienza in tribunale, la polizia aveva alla fine accettato di autorizzare la manifestazione ma in un luogo diverso da quello originariamente previsto e addirittura con un limite al numero di partecipanti che alla fine erano solo 700. Quella contro i comunisti è una repressione che all’interno dello Stato ebraico si unisce a quella degli arabi con cittadinanza israeliana: la rapida intensificazione della repressione statale contro la minoranza palestinese, che comprende azioni legali persino contro i cittadini che dichiarano la loro identità palestinese sui social media, prevede anche l’autorizzazione di emergenza per le forze dell’ordine di sparare munizioni vere persino contro le manifestazione di civili disarmati.

Una protesta contro la guerra a Gaza a Tel Aviv.

L’unica opposizione pacifista e anti-razzista nella Knesset

HADASH è il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, un’ampia coalizione di sinistra sorta nel 1977 e da allora diretta dal Partito Comunista di Israele (MAKI) che può contare su 4 deputati nella Knesset, il parlamento israeliano. Ma evidentemente anche l’essere un partito istituzionale, dichiaratamente pacifista e non armato, che riconosce l’esistenza di Israele in quanto Stato può bastare nella presunta democrazia israeliana. Il segretario generale di HADASH, Amjad Shbita, ha dichiarato che l’ordine del giorno dell’assise politica prevede in effetti la pianificazione di “azioni politiche contro la continuazione della guerra a Gaza e contro la persecuzione politica degli oppositori da parte del governo di estrema destra” del premier Benjamin Netanyhau e questo infastidisce il regime che, al di là della forza elettorale di HADASH, comunque in crescita, sono molti i giovani israeliani stanchi del perenne stato di mobilitazione in cui sono costretti a vivere. Nei giorni scorsi l’Ufficio politico del MAKI ha chiarito che non si cede ai ricatti dell’establishment sionista che hanno qualificato di “fascista” e hanno dato una linea chiara ai militanti: “realizzeremo il Congresso nella data prevista. La decisione sulla sede sarà presa in seguito. Facciamo appello a tutti i nostri militanti affinché prendano parte alla nostra lotta contro questa persecuzione del nostro Partito e del Fronte”, oggi una delle poche voci che all’interno dei confini israeliani continua a far sentire la sua voce contro la guerra di sterminio al popolo palestinese.

Il divario tra i risultati della guerra e le ambizioni sioniste causerà altri disordini

Nell’attuale guerra si sta assistendo anche ad una sempre crescente politicizzazione della forze armate ebraiche: persino i giovani soldati di leva, indottrinati dagli ufficiali e della scuola, chiedono apertamente la morte dei palestinesi. Secondo il prof. Yigil Levy, esperto della relazione fra esercito e cittadini in Israele e insegnante presso la Open University, i circoli militaristi non solo “stanno trovando modi per esprimere la loro protesta contro quelle che vedono come politiche militari eccessivamente restrittive che non li sostengono quando usano la violenza” ma sono anche riusciti negli anni a “trasformare l’esercito in una struttura che non sia soggetta a restrizioni e nemmeno al diritto internazionale. Si sforzano anche di cancellare la distinzione tra combattenti e civili”. Sempre secondo il professore “il discorso della vendetta si intensificherà quando la guerra finirà senza i risultati sperati. Il divario tra i risultati della guerra e i suoi obiettivi ambiziosi causerà grandi disordini tra i militari”. Egli è quindi piuttosto pessimista anche sul fatto che questo possa mettere in discussione il regime sionista: “molti penseranno invece che l’esercito avrebbe potuto vincere se non fosse stato per i politici, che con il sostegno della sinistra hanno piantato un coltello nella schiena e hanno fermato la guerra” anche perché la socialdemocrazia è a favore della guerra quanto l’estrema destra: solo i comunisti in quanto partito politico vi si oppongono. La disillusione, almeno parziale, del ceto medio laico stanco della leva militare potrebbe sì rappresentare una speranza per fermare i massacri – spiega Levy – ma non per la fine del regime e dell’ideologia razzista che ne sta alla base. Insomma ad esclusione dei comunisti nessuno pare pronto nella società israeliana al riconoscimento del diritto alla piena liberazione nazionale della Palestina.