Per fare la pace occorre il dialogo, ma anche un po’ di rispetto tra tutte le parti in causa. Se si pensa che esista un nemico che rappresenta il male assoluto e lo si debba estirpare dalla faccia del globo, la pace sarà del tutto impossibile, in egual modo occorre la giustizia, se un popolo è oppresso e discriminato da più di sette decenni, diventa abbastanza arduo immaginare di costruire la pace senza rimediare alle ingiustizie a lungo perpetrate. Continuare a negare al popolo palestinese uno stato, un passaporto e un parlamento rinnovato e rappresentativo, distruggere anno dopo anno i diritti degli arabi che vivono in Israele, sono tutte premesse per una stagione di conflitto e non certo di dialogo.
Intanto sappiamo che l’operazione di terra israeliana non esiste e lo spiga in modo esauriente Il Manifesto del 27 ottobre 2023 in prima pagina: “il nord di Gaza è un paesaggio lunare, tra le macerie di una prigione-cimitero ci sono 7.000 morti ma Israele contesta le cifre, primi tank nella Striscia ma resterà poco da invadere.” Si leggono in questi giorni sproloqui sulla guerra di guerriglia, casa per casa che trasformerebbe Gaza in un Vietnam, niente di più tragicamente lontano dai fatti. A Gaza non c’è acqua, non c’è luce e non c’è benzina. Gli israeliani avanzano dopo bombardamenti forsennati per piantare bandiere su macerie, case distrutte, donne, uomini e bambini uccisi e sepolti con il cemento armato delle loro abitazioni, non conosceremo mai i numeri effettivi di questa tragedia. Dopo le bombe che tutto distruggono e tutte e tutti uccidono, l’esercito sionista avanza coi carri armati per fare da apripista ai bulldozer, come ha fatto a Jenin nel 2002 per ordine di Sharon, già capo-macellaio della strage di Sabra e Shatila nel 1982 a Beirut. Non si tratta di un’operazione di conquista dei territori di Gaza dunque, è, nella sua aberrante e dolorosa tragicità, una semplice operazione urbanistica, uno studiato progetto di desertificazione di alcuni chilometri quadrati nella parte settentrionale della Striscia di Gaza. Le donne e gli uomini, gli anziani e i bambini uccisi in questa operazione sono reputati dagli israeliani un inconveniente di nessun valore, è la smaccata occupazione di un altro pezzo di Palestina, perché purtroppo il muro della Striscia di Gaza verrà probabilmente riedificato garantendo ai sionisti qualche altro chilometro quadrato rubato ai palestinesi, ovvero resterà fuori quella parte che oggi è un cimitero di esseri umani e calcestruzzo e domani sarà solo deserto.
Un disperato e disperante massacro che continua da giorni e continuerà per giorni, nell’impotenza delle nazioni arabe e nella loro ferma convinzione di non lasciarsi coinvolgere in una guerra che metterebbe a repentaglio, a prescindere dagli eventuali esiti, la loro stessa stabilità interna, al pari dell’Iran, infatti, nonostante le reiterate e quotidiane provocazioni occidentali e israeliane, il governo di Teheran non ha alcuna intenzione, pur nella totale solidarietà con la causa palestinese, di finire coinvolto in un conflitto regionale.
A tutto ciò si aggiunga il frivolo disinteresse dell’Europa che insieme a Washington e Tel Aviv ha impedito dal 2006 le elezioni in Palestina e ora blatera di rafforzamento di Fatah, già partito di Arafat e oggi dell’imbelle e inetto presidente Abu Mazen. Fatah ha un solo dirigente credibile, capace di riscuotere ancora oggi il consenso dei palestinesi di Cisgiordania e di Gaza: è Marwan Barghouti, ma proprio Europa e Stati Uniti hanno accettato che Israele da oltre venti anni lo faccia marcire nelle carceri sioniste, d’altronde agli occidentali i prigionieri politici piacciono solo se sventolano le bandierine dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, se poi questi ultimi hanno commesso davvero qualche crimine per il quale sono in galera, in questo caso molto generosamente perdonano tutto, li chiamano “diritti umani”, ma è solo politica.
Nei media europei vi è poi grande agitazione per le dichiarazioni del presidente turco Erdogan, che ha invocato l’unità dei palestinesi e si è proposto come mediatore per il conflitto mediorientale, tuttavia non solo le nazioni musulmane, ma i tre quarti degli stati del mondo reputano ragionevoli le sue affermazioni – al pari di quelle del segretario generale delle Nazioni Unite – e condannano il reiterato comportamento discriminatorio e persecutorio di Israele contro i palestinesi. Oramai la distanza tra un Occidente ripiegato e rinserrato nei suoi pregiudizi nel suo forsennato atlantismo e il resto dell’umanità sta diventando un solco sempre più incolmabile, al punto che la reciproca comprensione e comunicazione sta diventando impossibile.
Altro stupore ha suscitato in Europa l’incontro moscovita tra i dirigenti politici di Hamas e il governo russo. Occorre forse ricordare che Hamas al pari di Fatah, pur avendo al suo interno gruppi armati, è prima di tutto un partito politico, il quale alle ultime seppur lontane elezioni svoltesi nel 2006 ha ottenuto il 45% dei voti, mentre Fatah si è fermato al 41%. I due partiti insieme hanno raccolto comunque l’86% dei voti dei palestinesi e forse varrebbe la pena dialogare con entrambi, come con il partito libanese Hezbollah, il primo per consensi in quella nazione, che è appunto una radicata forza politica, a prescindere dal fatto che abbia anche al suo interno delle milizie armate. È evidente che se si vuole giungere alla pace in Palestina, si deve tornare alla politica, se si vuole tornare alla politica, si deve dialogare non solo con Fatah, ma anche con Hamas, in quanto partito politico.
Se dunque dalla politica possiamo e dobbiamo attendere i passi decisivi per giungere a un cessate il fuoco, la mediazione non potrà essere svolta solo da Egitto, Russia e Turchia, ma anche dalla Cina, in ragione del suo ruolo internazionale e delle nuove positive relazioni stabilite da Pechino con le petromonarchie mediorientali.