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Palestina, la resistenza di un popolo dimenticato

Gli accordi di Oslo del 1993 avrebbero dovuto far nascere una nazione che non è mai nata. Di più, vi sono a Gaza due milioni di donne e uomini trattati come bestie, chiusi in 350 chilometri quadrati, privati di cibo, medicinali, acqua, elettricità. Un normale frigorifero non è immaginabile in quella porzione di Mediterraneo visitata nel 1959 da Ernesto Che Guevara, di cui oggi a Cuba ricorre il 56° della scomparsa, ricordata il 9 ottobre nel resto del mondo. La rivista “Internazionale” in uno degli ultimi numeri ha documentato come sia ordinaria quotidianità vedere un colono israeliano uccidere un palestinese, un altro palestinese rispondere tirando una pietra e l’esercito intervenire per arrestare chi ha tirato il sasso, lasciando libero l’assassino.

Ai palestinesi, dimenticati dentro le gabbie e i recinti dei muri, edificati per farne un popolo privo di patria e di passaporto, in questi anni di frenetiche trattative per costruire un Medioriente di pace, poco è rimasto anche della solidarietà delle nazioni musulmane, solo Siria e Iran, due nazioni messe all’indice dall’Occidente, hanno continuato a porre il problema della situazione palestinese, ovviamente inascoltate, solo gli sciiti libanesi di Hezbollah hanno manifestato a più riprese la solidarietà con il popolo palestinese, senza dubbi e senza esitazioni.

Le petromonarchie, al pari della Giordania e di molte altre nazioni della Lega Araba, hanno preferito seguire Washington tra affari e dimenticanze, relegando la solidarietà con la Palestina a qualche frase retorica in conclusione di discorsi noiosi e ammuffiti, privi di reale concretezza.

Alle donne e agli uomini di un popolo dimenticato è rimasto il silenzio del dolore, insieme al silenzio della loro resistenza, fatta, dopo l’ultima sollevazione, l’ultima Intifada di otto anni fa, di pianto e di disperazione, rinnovati ogni giorno, davanti all’ennesima casa abbattuta, all’ennesimo ulivo secolare sradicato, all’ennesimo ragazzo ucciso, nel generale oblio delle ragioni di un popolo, quello palestinese, da parte del resto dell’umanità.

Israele, la Lega Araba, le petromonarchie, Washington e Bruxelles impediscono da quasi venti anni, era il 2006, elezioni parlamentari e presidenziali per il popolo palestinese. In Occidente la retorica democratica è sempre viva e vivace, ma che in Palestina, con la pesante complicità israeliana, ci sia una generazione di ventenni a cui non è mai stata data in mano una scheda non è risultato di interesse per la comunità internazionale.

Immaginare che insieme al silenzio i cuori dei palestinesi si fossero rassegnanti alla violenza e alla sottomissione è stato, come i fatti di queste ore stanno dimostrando, ingenuo e totalmente errato. Da mesi le voci più avvedute e preoccupate avevano segnalato che dimenticare la Palestina, le sue donne e i suoi uomini, inseguendo le diatribe tra giustizia e governo israeliano, quasi che queste potessero essere il solo tema d’interesse proveniente da Gerusalemme, voleva dire chiudere gli occhi sulla violenza perpetrata contro i palestinesi e la necessità, nonostante tutto, se non di una soluzione, almeno di qualche progresso in una situazione da troppo tempo incancrenitasi.

Oggi la stampa occidentale titola in un solo coro e a nove colonne: “Attacco a Israele”, “Forza Israele”, “Fermiamo le bestie di Hamas” e tanti altri titoli anche peggiori, facendo come sempre confusione tra ebraismo e sionismo, perché la lingua, la cultura e la religione ebraica sono patrimonio dell’umanità, lo stato israeliano orientato da anni a un feroce e spietato sionismo è tutta un’altra realtà.

Tra l’altro nessuno evidenzia la sproporzione tra un popolo – quello palestinese – che abbatte muri con camionette e badili e attacca con parapendii e pietre e dall’altra parte l’esercito israeliano tra i meglio equipaggiati con le armi più moderne, nonché tra i meglio addestrati del mondo.

Sangue e morte portano sempre dolore e meglio sarebbe che non ci fossero, tuttavia solo degli sprovveduti avrebbero potuto immaginare che i palestinesi non rispondessero militarmente alla violenza della condizione a cui sono costretti, non avendo altro strumento e altra voce per poterlo fare. I prossimi giorni ci diranno quanto potrà durare questo conflitto, capace di inserirsi in una più vasta insofferenza globale per l’imperialismo, l’unipolarismo, il neocolonialismo.

Mentre su Gaza una gragnuola di bombe israeliane, nella solita sproporzione aggressiva, uccide e distrugge, distrugge e uccide, a Tel Aviv il primo ministro Netanyahu e il suo governo, composto da ministri che usano normalmente la scimitarra per girare lo zucchero nel caffè e invocano a tutte le ore del giorno e della notte, con poco rispetto pure per lo shabbat ebraico, la guerra contro tutto il resto del Medioriente, devono decidere se incamminarsi verso un dialogo interno e internazionale, che al momento appare del tutto difficile se non impossibile, oppure trascinare gli attuali eventi fino a che si riducano alla solita ordinaria violenza contro i palestinesi, tollerata disgraziatamente dall’Occidente, o infine avviarsi verso lo scenario più pericoloso di un conflitto, invocato da molti ministri di quel governo, apertamente dichiarato e praticato contro il Libano, la Siria e l’Iran, uno scontro dagli esiti e dalle proporzioni al momento incerte e inimmaginabili, ma sicuramente di portata devastante.

È auspicio che Russia, Cina e le altre nazioni orientate all’edificazione di un mondo multipolare e di pace provino a intervenire diplomaticamente, una mediazione difficile, anche in ragione delle risoluzioni delle Nazioni Unite dimenticate, ignorate e inapplicate da tre quarti di secolo, ma forse la sola mediazione con qualche speranza di successo, visto anche il nuovo posizionamento internazionale dei sauditi. Tuttavia, se a Washington qualcuno ha deciso di fare del Medioriente un altro degli scenari della sempre più vasta e dirompente guerra mondiale, nessuna mediazione e nessuna proposta di soluzione pacifica potrà avere successo.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.