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Gli anni di Gorbačev: una catastrofe non annunciata

Era l’URSS degli anni Ottanta diventata un dinosauro destinato irrimediabilmente all’estinzione come sostiene lo storico russo Gefter? (1) Sicché, indipendentemente dalla direzione politica dei processi economici e sociali, il sistema recava in sé i segni inequivocabili della sua estinzione, del suo crollo?

   Questa pare essere l’opinione prevalente sulla fine dello Stato sovietico e di quel complesso di Stati a «democrazia popolare» dell’Europa centro-orientale, che, dal secondo dopoguerra, costituivano una parte importante del «campo socialista».

   Questa tesi finisce col giustificare e assolvere – salvo valutazioni più o meno positive di singoli aspetti del suo operato – l’intera azione politica di Michail Gorbačev, ultimo segretario generale del PCUS (un partito che nella seconda metà degli anni Ottanta aveva raggiunto quasi i 20 milioni di iscritti), nonché, a partire dal 1° ottobre 1988, presidente del Soviet Supremo dell’URSS, riconfermato a tale carica nel maggio 1989 dal primo Congresso dei deputati del popolo, nuovo organismo eletto con votazioni a candidatura multipla.

   La vulgata prevalente sul settennato gorbacioviano – dalla sua nomina alla suprema carica di Gensek dell’11 marzo 1985 alle sue dimissioni da questa carica il 24 agosto 1991, con contemporaneo appello all’autoscioglimento del PCUS, al suo abbandono della carica di presidente dell’URSS nel dicembre 1991, dopo che la dichiarazione di Minsk (8.12.1991) dei presidenti russo, bielorusso e ucraino, poneva fine all’URSS «in quanto soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica» – ci racconta la storia di un uomo sincero e coraggioso, dalle grandi vedute politiche, che cerca di riformare l’economia, la società, la cultura, la politica sovietiche, ostacolato da tenacissime forze «conservatrici» e incompreso da innovatori troppo «radicali», e che deve alfine arrendersi di fronte alla constatazione che il sistema è ormai irriformabile. Gorbačev – si dice – «è arrivato troppo tardi», la cancrena di quel che viene definito ufficialmente in URSS, a partire dalla XIX Conferenza d’organizzazione del PCUS (giugno 1988), «sistema amministrativo di comando», formatosi negli anni Trenta e di fronte alla quale un altro riformatore come Chruščev aveva dovuto retrocedere, aveva oramai divorato dall’interno l’intero corpo del paese dei Soviet. L’immagine che ancora ci viene tramandata è quella di una «figura tragica», o addirittura di un martire.

   Ma, anche tra molti di coloro che non sono stati affetti da «gorbymania» e che non stravedono per il personaggio, considerato pur sempre l’espressione di una burocrazia al potere, la spiegazione dell’irriformabilità del sistema appare la più consona: la controrivoluzione sul piano economico e sociale di El’cyn sarebbe la necessaria conclusione di un lungo processo, iniziato con Stalin, che aveva portato la burocrazia, una casta dirigente del partito e dello Stato, ad espropriare il proletariato del potere politico conquistato con l’Ottobre.

   La questione della fine dell’URSS coinvolge inevitabilmente la questione della sua natura sociale, del modo reale di funzionamento del suo sistema politico ed economico, dei reali rapporti di classe, del rapporto dirigenti-diretti, nonché dell’ideologia, della cultura, della conformazione morale, della mentalità e del senso comune del «popolo sovietico». Sono questioni fondamentali sulle quali esistono oramai numerose e articolate analisi (tra cui anche quelle recenti delle diverse formazioni russe e sovietiche che si richiamano al marxismo e al comunismo), che, nella molteplicità degli approcci e delle conclusioni cui giungono, ci dicono altresì che la questione non può dirsi soddisfacentemente risolta.

   Ed è bene non chiudere con giudizi trancianti la questione – questa sì epocale, se a questo termine di cui troppo spesso si abusa si vuol restituire un senso –  del crollo, o dell’implosione, del sistema sovietico in URSS e nei paesi dell’Europa centro-orientale.

   La caratteristica della crisi che ha portato alla fine dell’URSS è data dal combinarsi contemporaneo e rapidissimo di molteplici fattori interni e internazionali, di natura economica, politica, culturale, morale (come accade nelle crisi epocali). Tuttavia, il ruolo della direzione ideologico-politica appare qui determinante nella dissoluzione dello Stato e del partito (o, se si vuole, del partito-Stato).

   Non che l’economia sovietica degli anni Ottanta andasse a gonfie vele, tutt’altro: il meccanismo economico sovietico incontrava crescenti difficoltà nell’utilizzazione efficiente e razionale delle risorse, nell’organizzazione scientifica del lavoro e nell’introduzione di nuove tecnologie che consentissero aumenti di produttività. La stessa struttura del commercio estero rivelava un paese che si stava trasformando in esportatore prevalente di materie prime (petrolio, gas) e importatore di manufatti e tecnologia. Invece che «raggiungere e superare» i paesi capitalistici avanzati, l’URSS perdeva una posizione dopo l’altra, fino a dover subire, anche sul terreno militare e della sicurezza del paese, la supremazia tecnologica degli USA (in Afghanistan le bande dei guerriglieri islamici in possesso degli ultimi armamenti dell’industria militare americana ed europea hanno inferto pesanti perdite all’aviazione militare sovietica). Le stesse statistiche ufficiali denunciavano un notevole declino dei ritmi di sviluppo. Tale stato dell’economia fu in seguito definito zastoj (stagnazione). Val la pena di ricordare, però, che alla metà degli anni Ottanta la situazione economica dell’URSS, tanto nelle analisi degli economisti sovietici «riformatori» (2) che in quelle dei più accreditati studiosi occidentali (3) non appariva affatto catastrofica.

   È proprio sulla proposta di contrastare il declino economico e di passare ad una fase di sviluppo intensivo, utilizzando a pieno le grandi potenzialità dell’economia centralizzata e le risorse dell’immenso paese, che il programma gorbacioviano presentato al XXVII congresso del partito (febbraio 1986) ottiene unanime consenso.

   La parola d’ordine è uskorenie: accelerazione dei ritmi di sviluppo. Per ottenere i quali occorre una vigorosa ristrutturazione (perestrojka: termine ben noto al lessico economico-politico sovietico sin dai tempi di Lenin) dell’economia, il cui perno è la legge sull’impresa statale (varata nel giugno 1987, dopo un ampio dibattito oltre che su riviste specialistiche, sui quotidiani e settimanali più diffusi, ed entrata in vigore nel gennaio 1988), che avrebbe dovuto conferire maggiore autonomia decisionale alle imprese e attivare la democrazia operaia (un articolo prevede l’eleggibilità del direttore). Le altre due leggi entrate in vigore tra il 1987 e il 1988, sull’attività individuale e sulle cooperative si presentavano come un tentativo di rivitalizzare una parte del settore dei servizi e del piccolo commercio tradizionalmente debole. Anche le concessioni all’agricoltura che si attuano tra il 1988 e il 1989 (terra in leasing ai contadini per aumentare e migliorare la produzione; proposta di concedere il 10% delle terre in affitto; smantellamento del superministero dell’agricoltura; per incentivare l’aumento della produzione di cereali ed evitare di acquistarli dall’estero, si pagano ai kolchoz in valuta pregiata le eccedenze rispetto agli anni precedenti) intendono rispondere – attraverso la leva degli incentivi economici, ma senza intaccare fondamentalmente le forme di proprietà statale – all’annoso problema di un aumento e miglioramento della produzione.

   Fino al 1988 la situazione economica interna dell’URSS non si presenta in forme drammatiche, il rublo è ancora sotto controllo, e in alcuni settori produttivi vi è anzi un certo miglioramento.

   Nel 1988 viene soppresso il ministero del commercio estero e il comitato statale per i rapporti economici con l’estero. Il 2 dicembre 1988 viene emanato il decreto sulla decentralizzazione del commercio estero: le imprese hanno il diritto di negoziare direttamente con imprese straniere e di decidere le proprie importazioni ed esportazioni. Dal 1° aprile 1989 tutte le imprese e cooperative produttive sovietiche ricevono il diritto di occuparsi di attività economica con l’estero.

   Con la fine del monopolio statale sul commercio estero (uno dei primi provvedimenti voluti da Lenin all’indomani dell’Ottobre), con l’autonomia finanziaria delle imprese e, in seguito (1.1.1989), l’autonomia finanziaria concessa alle singole repubbliche, comincia a venir meno il collegamento tra le imprese statali, che in passato, anche se con qualche affanno e col ricorso a tutta una serie di mediatori semilegali, i vincoli del piano assicuravano. Dal 1989 il piano è praticamente disatteso e reso inefficace, gli indici produttivi calano, ogni impresa cerca di arrangiarsi come può, il rublo si deprezza rapidamente rispetto alle valute occidentali, cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità.

   Dal punto di vista dei rapporti economici, il 1990 è un anno cruciale: repubbliche e regioni autonome tra la primavera e l’estate, precedute dalle avvisaglie invernali del Pribaltico, si muovono autonomamente e in modo difforme rispetto al mercato comune dell’Unione. La Jakuzia, ad esempio, proclama la sovranità e pretende le royalties per le sue miniere d’oro. La RSFSR, sotto la presidenza di El’cyn, si muove sistematicamente in modo difforme dalle scelte economiche del governo centrale. I vincoli economici tra le imprese delle singole repubbliche – in precedenza garantiti in qualche modo dalla pianificazione centrale – si allentano sempre più. Per non citare i casi in cui, come nel Caucaso, le repubbliche si muovono l’una contro l’altra. Nove repubbliche: Russia, Bielorussia, le tre baltiche, Moldavia, Armenia, Tadžikistan e Kirghisia iniziano nel settembre ’90 a Tallin le trattative per stabilire legami economici diretti, indipendenti dal centro. L’organizzazione economica dell’intera Unione sovietica è fortemente compromessa.

   Nel giro di pochi anni una serie di leggi e di decreti della perestrojka economica hanno sortito l’effetto di smantellare il sistema fondato sul piano e sull’impresa statale: invece che uskorenie si ha il caos e la disgregazione; per i cittadini sovietici la perestrojka è diventata una «katastrojka».

   È così che si fa strada l’idea di «passare al mercato». A formulare il nuovo quadro legislativo che accompagna la rottura del sistema economico fondato sui vincoli imposti dalla proprietà statale e dal piano concorrono oramai i nuovi poteri emersi con le riforme istituzionali che, delineate alla XIX Conferenza del PCUS del giugno 1988, cancellano l’articolo costituzionale che sanciva il monopolio del potere politico del PCUS, danno vita a parlamenti eletti in base a candidature multiple (in cui 110 membri del Comitato Centrale su 458 vengono bocciati), istituiscono, nell’URSS e in tutte le 15 repubbliche, un sistema di repubblica presidenziale con elezione diretta del presidente da parte del popolo: ciò consentirà a El’cyn, nella primavera del 1990, di vincere – sulla base di un programma demagogico che fa leva sul populismo e nazionalismo russo – le elezioni nella più grande e importante delle repubbliche, la RSFSR e, forte di questo consenso popolare, di contrapporsi a Gorbačev, che è presidente dell’URSS per votazione del Congresso dei deputati del popolo.

   Nell’autunno 1990 si confrontano tre diversi e alquanto fantasiosi progetti di transizione – più o meno rapida, in 400 o 500 giorni, più o meno controllata – alla «economia di mercato», il che implica necessariamente il riconoscimento giuridico della privatizzazione delle imprese statali, che la Federazione russa, guidata da El’cyn si affretta a varare dal 1° gennaio 1991.

   La crisi economica degli anni 1989-91 è il risultato non della stagnazione degli anni precedenti, ma della politica economica seguita dalla perestrojka (4). Questa crisi, che rende difficilissima la vita quotidiana alla maggioranza dei lavoratori e dei cittadini sovietici, alimenta un malcontento generale delle masse. Su tale malcontento fanno leva diversi ma convergenti progetti politici che vanno prendendo forma e si organizzano in partiti di fatto: quello del nazionalismo separatistico (in particolare dell’Ucraina e delle repubbliche baltiche, che può contare anche sul sostegno internazionale del Vaticano, della Germania Federale, degli USA); quello della controrivoluzione sociale neoliberista, rappresentato da El’cyn (distruzione radicale delle forme di proprietà statale, delle garanzie sociali per i lavoratori, tra cui la piena occupazione, e, in breve, di tutto quanto rimane delle precedenti istituzioni sovietiche, in primo luogo l’Unione), appoggiato sempre più apertamente dai paesi imperialistici, che, dopo aver «conquistato» i paesi dell’Europa centro-orientale – in diversi casi con l’aperta acquiescenza, se non la connivenza, della direzione gorbacioviana (il caso più clamoroso è la svendita della Repubblica Democratica Tedesca) – intendono avere mano libera sulle ingenti fonti di materie prime dell’URSS e sul suo mercato (la rottura del sistema sovietico ne costituisce un presupposto indispensabile).

   Al contrario che in passato, quando, in situazioni ben più drammatiche, i dirigenti del partito e dello Stato sovietici erano riusciti, anche a caro prezzo, a correggere la rotta e a salvaguardare il potere conquistato con la rivoluzione d’Ottobre, Gorbačev oscilla in continuazione, il suo progetto politico muta di giorno in giorno, se non di ora in ora. Mentre separatisti nazionalisti ed el’cyniani operano con ogni mezzo – nelle piazze e in parlamento, coi giornali e la televisione, all’interno e all’estero – per perseguire il loro programma controrivoluzionario, riuscendo ad egemonizzare anche gli scioperi dei minatori e a cavalcare il malcontento delle masse, l’unica scelta che Gorbačev si rivela in grado di fare è l’attendismo e il tentativo di conciliare forze sociali e politiche ormai inconciliabili. Oltretutto, l’ideologia cui realmente si ispira e che traspariva già dalle pagine del suo best seller, pubblicato in Occidente prima che in URSS (5), ha ben poco a che fare con le concezioni di Marx e di Lenin: rimossa la categoria di imperialismo in nome di una teoria dell’interdipendenza, in cui scompaiono le differenze tra poli dominanti e poli dominati, messa in soffitta la lotta di classe (che gli imperialisti e i capitalisti non hanno mai smesso di fare), auspica la convergenza dei sistemi e la conciliazione degli opposti. La sua concezione e la sua pratica politica hanno, per di più, ben poco a che fare con la stessa moderna scienza della politica: Gorbačev non è al di là, ma al di qua di Machiavelli, se ci riferiamo alla «grande politica», ché, nella «piccola politica» manovriera, nei giochi interni all’apparato del PCUS per rimuovere avversari e promuovere i suoi uomini, egli è un consumato apparatčik.

   Non è certo l’unico responsabile di una catastrofe non annunciata (nessun «sovietologo» prevedeva nel 1985, o anche nel 1987, 70° anniversario dell’Ottobre, un esito simile): le forze che nel PCUS si rendono conto della deriva verso cui sta andando il paese – quelle che una martellante campagna di stampa nell’URSS e fuori dell’URSS, definisce come «conservatori» o «destra» (in Italia vi è su ciò una convergenza pressoché integrale, dal Corriere della sera all’Unità, dal Sole 24 ore al Manifesto) – non riescono ad opporre nessuna seria alternativa politica, se non il richiamo – in sé corretto, ma sterile se privo di un programma d’azione – ai principi del marxismo e del leninismo. Non riescono a fare politica, a coagularsi attorno a una piattaforma politica: da troppo tempo il PCUS brežneviano è molto più vicino ad un organismo parastatale che all’organizzazione bolscevica forgiata nei durissimi scontri ideologici e politici del periodo rivoluzionario. Quando qualcuno tenta molto tardivamente una sortita per contrapporsi alla piega che il corso degli eventi ha preso e che sta portando alla disintegrazione dell’URSS, lo fa in modo così poco organizzato, così goffo e maldestro, da far pensare ad una messa in scena: lo «strano» e rapidamente abortito putsch «ghekacepista» (comitato statale per la situazione straordinaria) del 19 agosto 1991, consente a El’cyn di presentarsi come il paladino della nuova Russia libera. Qualche giorno appresso, Gorbačev, dopo una dignitosa difesa dell’idea socialista di fronte alla canea reazionaria del parlamento russo, firma il decreto di scioglimento del partito di cui era Gensek.  

NOTE

1. Cfr. A. Guerra, Il crollo dell’impero sovietico, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 166.

2. Cfr. L. Abalkin, Il nuovo corso economico in URSS, Editori Riuniti, Roma, 1988; A. Aganbegjan, La perestrojka nella economia, Rizzoli, Milano, 1988.

3. Cfr. M. Lewin, La Russia in una nuova era, Bollati-Boringhieri, Torino, 1988.

4. Cfr. a questo proposito A. Catone, «La crisi dell’economia sovietica», in Marx 101, 1991, n.4, pp. 68-73.

5. M. Gorbaciov, Perestrojka – il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Mondadori, Milano, 1987.

(tratto da : Andrea Catone, La transizione bloccata, Laboratorio Politico, Napoli 1998)  

Andrea Catone

Studioso di Marx e Gramsci, ha pubblicato svariati studi sulla guerra in Yugoslavia, sul socialismo cinese e più in generale sulla storia del movimento operaio e comunista. È direttore della rivista MarxVentuno.