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Kazakistan in fiamme: Russia e CSTO mobilitati contro il terrorismo

Il 2 dicembre, dopo l’annuncio da parte del governo di un aumento del prezzo del gas, in Kazakistan è scoppiata una protesta di massa. La tensione ha continuato a salire, portando il 4 gennaio all’abolizione dell’impopolare misura sul gas e alle dimissioni del governo. Tuttavia, anziché placarsi, proprio in quel momento le proteste si sono trasformate in una vera e propria ribellione violenta. Nelle principali città del paese sono comparse bande armate e ben organizzate, che hanno preso di mira le strutture del potere ingaggiando battaglia con le forze dell’ordine, quasi ovunque costrette alla ritirata. La mattina del 5 gennaio è diventato chiaro che non si trattava più di una semplice protesta antigovernativa, ma di un tentativo di colpo di stato, accuratamente pianificato con un vasto dispiegamento di mezzi e risorse.

Preso atto della situazione, il presidente della Repubblica del Kazakistan Kassym Jomart Tokayev ha ufficialmente richiesto l’aiuto del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO), patto che oltre allo stesso Kazakistan unisce Russia, Bielorussia, Armenia, Tadjikistan e Kirghizistan in un’alleanza militare difensiva. Onorando gli accordi, il CSTO ha annunciato l’invio di un contingente di pacificazione composto dalle forze armate dei paesi membri. Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio i primi militari russi sono entrati nella Repubblica. Anche il distaccamento bielorusso è in viaggio, mentre le unità degli altri stati membri seguiranno.

Il peggio sembra evitato, ma gli scontri armati proseguono in molte regioni del paese e la situazione rimane critica. Una cosa è certa: gli ultimi eventi sono la pietra tombale sulle imminenti trattative Russia-USA e Russia-NATO.

L’insurrezione armata

Tra il 4 e il 5 gennaio le proteste antigovernative, da relativamente pacifiche, in molte città del paese si sono trasformate in un’orgia di violenza. Parte dei manifestanti si è data al banditismo, con saccheggi a tappeto e incendi. Sono stati colpiti edifici pubblici, banche e negozi, con un occhio di riguardo verso i venditori di elettronica. Impossibile non avere un dejà vu delle proteste di Black Lives Matter, dove molti videro l’uccisione di George Floyd come un’ottima occasione per dotarsi di un nuovo televisore.

Saccheggi e ruberie si sono susseguiti un po’ ovunque.

Accanto ai manifestanti violenti sono comparsi dei misteriosi e ben organizzati gruppi di uomini armati, la cui provenienza rimane da stabilire. Questo fronte si è scagliato contro gli edifici del potere e le forze dell’ordine, che non sono riuscite a opporre un’adeguata resistenza, lasciando spesso campo libero al nemico. Saccheggiando le armerie delle caserme, i sovversivi hanno messo le mani su migliaia di bocche da fuoco. Il Ministero dell’Interno riporta 18 operatori delle forze dell’ordine uccisi, e 742 feriti.

Particolarmente colpita è Alma-Ata, ex capitale (spostata nel 1997 ad Astana, oggi Nur-Sultan) e ancora oggi città più popolosa del paese. Sono state occupate la residenza del presidente, la questura e il municipio, quest’ultimo dato alle fiamme. Nella notte tra martedì e mercoledì è stato occupato l’aeroporto, dove sono stati bloccati aerei e passeggeri, devastati i terminali e saccheggiati i negozi. Ruberie e incendi di proprietà private hanno interessato tutta la città. Nella mattinata del 6 gennaio sono stati ritrovati i corpi decapitati di due poliziotti.

Un’offensiva terroristica su vasta scala: questo è il contesto in cui il presidente Tokayev ha chiesto l’aiuto del CSTO e della Russia in particolare. Sostegno che è stato immediatamente accordato, con il varo dell’operazione “In nome della pace” e il rapido approntamento di un corpo di spedizione russo. Il CSTO ha annunciato che le forze di peacekeeping ammonteranno a circa 4000 soldati, di cui 3000 russi e i restanti divisi tra gli altri membri dell’alleanza.

Il municipio di Alma-Ata è stato dato alle fiamme dai manifestanti.

Al momento della pubblicazione di questo articolo, “In nome della pace” ha permesso di liberare tutti gli edifici governativi di Alma-Ata e di ribaltare le sorti dello scontro. Sono stati sventati degli attacchi alla torre della radiotelevisione e alla sede del Ministero dell’Interno. È stato liberato l’aeroporto. Diverse decine di rivoltosi armati sono stati uccisi, mentre gli arresti sono oltre duemila. Un obbiettivo impellente è recuperare in tempi rapidi l’enorme mole di armi trafugate dalle caserme. Alla sera di giovedì 6 gennaio la situazione nella città più grande del Kazakistan sta lentamente migliorando, ma gli incessanti colpi di arma da fuoco testimoniano che le forze dell’ordine sono ancora alle prese con gruppi di terroristi. Anche nel resto del paese la situazione è lontana dall’essere stabile.

È importante precisare che i militari russi, così come gli altri distaccamenti del CSTO che arriveranno nella repubblica centroasiatica, non sono direttamente impiegati nelle operazioni di controterrorismo, che sono interamente condotte dalle forze kazake. Il ruolo dei peacekeeper è quello di presidiare le infrastrutture fondamentali e le vie di comunicazione, permettendo all’esercito e alle forze dell’ordine kazaki di liberare gli effettivi per affrontare i cospiratori. Con buona pace dei media occidentali, che cercano di dipingere la situazione come “l’esercito russo che sopprime manifestazioni pacifiche in Kazakistan”.

L’opposizione: da chi è costituita, da chi è guidata

Una premessa doverosa: i motivi delle manifestazioni di massa iniziate il 2 gennaio sono più che legittimi. L’aumento del prezzo del gas, raddoppiato, è servito da miccia per l’esplosione di un risentimento più profondo. Tra le rivendicazioni dei manifestanti troviamo anche l’aumento delle pensioni, la rimozione dei pedaggi sulle strade, la riduzione dei prezzi dei prodotti alimentari, e molte altre richieste pienamente condivisibili.  È innegabile che in piazza sia uscita molta gente pacifica e in assoluta buona fede. Tuttavia non è la prima volta che il legittimo malcontento popolare viene strumentalizzato da forze che non hanno a cuore il suo benessere.

Ma chi comanda e organizza la protesta?

Uno dei leader è Mukhtar Ablyazov, per breve tempo ministro dell’energia, industria e commercio alla fine degli anni ’90, successivamente figura politica d’opposizione al presidente Nasarbayev, infine rifugiato politico in Europa. Oggi risiede in Francia, al riparo da innumerevoli condanne (frode, appropriazione indebita e persino omicidio su commissione) che si è guadagnato in patria. Negli scorsi giorni egli ha attivamente aizzato i manifestanti attraverso i social, ponendosi come organizzatore delle proteste. In un post egli trae esplicita ispirazione dall’Euromaidan di Kiev, e afferma che “Noi siamo come gli americani, i francesi, i tedeschi, gli italiani, e costruiremo un paese figo tanto quanto l’America e l’Europa”. Visto lo sviluppo non positivo (per lui) degli eventi, ha successivamente dichiarato di non avere nulla a che fare con le proteste in Kazakistan, ma internet non dimentica e i suoi post sono rimasti immortalati nella rete.

Mukhtar Ablyazov, dal suo esilio dorato a Parigi, ha incitato alla rivolta sui social media.

La situazione sarebbe già sufficientemente chiara, ma a fugare ogni dubbio giunge l’ex-presidente georgiano Mikheil Saakashvili, ora esule in Ucraina. Passato alla storia per aver provocato i russi in Ossezia del Sud ed esser stato da questi massacrato, finito il suo mandato presidenziale fugge in Ucraina (per scampare a diversi processi), dove partecipa agli eventi di piazza Maidan rilanciando la sua carriera politica, fatta tutta di intrighi al servizio della NATO e degli USA. Ebbene, questo personaggio ha da poco candidamente ammesso sui social di aver ospitato a Kiev, lo scorso anno, rappresentanti dell’opposizione kazaka, con cui ha convenuto che “la società kazaka è pronta per grandi cambiamenti”.

La situazione è chiara, ai limiti del banale: ci troviamo di fronte a un ennesima rivoluzione colorata, come l’Euromaidan del 2014 e il fallito golpe in Bielorussia dell’agosto 2020.

Per quanto riguarda i gruppi armati che stanno terrorizzando le città del Kazakistan, il CSTO ha pochi dubbi: si tratta di gruppi terroristici pilotati dall’esterno. Peraltro onnipresenti in qualsiasi rivoluzione sponsorizzata dall’Occidente.

Il CSTO e il dialogo Russia-NATO

L’operazione “In nome della pace” è la prima crisi seria che il CSTO è stato chiamato ad affrontare, e perciò costituisce in un certo senso “la prova del nove” per questa organizzazione. Il suo successo dimostrerebbe che non si tratta dell’ennesima alleanza fittizia, e che i paesi membri possono realmente contare su tale strumento in caso di bisogno. Significherebbe anche maggiore stabilità nel Caucaso e in Asia centrale, e un consolidamento notevole della sfera d’influenza russa, la cui inviolabilità è stata ribadita nel recente ultimatum mosso agli USA e alla NATO. Ma la sfida non sarà facile: non è chiaro su quali risorse possano contare gli insorti, e su che genere di aiuti ricevano dall’estero. In Russia, voci di corridoio sempre più insistenti identificano nelle bande armate gruppi di islamisti, anche provenienti da altri paesi. Se l’informazione dovesse rivelarsi vera, il quadro diventerebbe parecchio complicato.

I paesi del CSTO (Russia in primis) hanno inviato forze di supporto per ristabilire l’ordine nelle strade.

Importante in questo caso è l’assist che giunge dalla Repubblica Popolare Cinese, il cui Ministero degli Esteri ha affermato che i disordini sono “un affare interno” del Kazakistan, auspicando una “rapida stabilizzazione della situazione e il ripristino dell’ordine sociale”, così approvando tacitamente l’operazione antiterroristica.

Di segno opposto è la reazione occidentale, che rispolvera stereotipi inflazionati quali il “manifestante pacifico per la libertà” e “l’insurrezione in nome della democrazia”. I fatti dicono l’opposto, ma la realtà parallela dei media atlantisti racconterà la propria storia.

Un risultato ormai certo è il fallimento del confronto diplomatico che dovrebbe tenersi a breve tra Russia e USA-NATO. Le linee rosse ben definite dal Cremlino, che imponevano tra le varie cose il rispetto da parte della NATO della sfera di interessi russa, sono state platealmente calpestate con l’attacco al Kazakistan. Con la violazione dell’ultimatum, è giunta l’immediata e preannunciata reazione russa, ossia l’intervento militare diretto.

In ciò sta la pericolosità dell’attuale situazione internazionale: pare che i diplomatici abbiano esaurito il proprio compito, e che sia giunto il tempo dei soldati.

Nil Malyguine

Nil Malyguine, classe 1997, è laureato in storia all'Università di Padova. Si occupa in particolare di storia della Russia e dell'Unione Sovietica. Dal 2020 milita nella Gioventù Comunista Svizzera.