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La vittoria dei Talebani in Afghanistan va considerata come un processo di “liberazione nazionale”?

Il sociologo italiano Pino Arlacchi, già vicesegretario dell’ONU, dispone di una esperienza di oltre 25 anni proprio in Afghanistan. Si tratta di una delle poche voci fuori dal coro sulla stampa europea e ha invitato “a informarsi sull’ Afghanistan evitando di leggere i maggiori quotidiani italiani”. L’Afghanistan – spiega – “sembra essere stato vittima di una invasione di mostri pervenuti dallo spazio e dotati di poteri sconfinati. Mostri che sono riusciti a far scappare da Kabul, terrorizzate, le forze del bene. Mostri assetati di vendetta e di sangue, soprattutto femminile, e che si apprestano a far diventare l’Afghanistan il santuario del narcotraffico e del terrorismo mondiale”. Questa immagine caricaturale del paese appena abbandonato dagli USA emerge scandalosamente anche dal servizio pubblico radiotelevisivo svizzero che sembra fare da grancassa alla propaganda del presidente USA Joe Biden.

L’Afganistan non è Kabul

Arlacchi dà una lettura molto diversa di quanto accaduto nel paese asiatico: siamo di fronte, secondo lui, allo “sbocco finale di due guerre. Una guerra civile tra i talebani ed i loro avversari iniziata quasi trent’anni fa, ed una guerra di liberazione contro una potenza occupante iniziata venti anni fa esatti. I talebani sono degli integralisti islamici estremi, portatori di un’ideologia oscurantista che implica la violazione di diritti fondamentali, in primis quelli delle donne. Ma sono anche una forza che ha finito col prevalere contro ogni genere di nemico grazie a un rapporto con la popolazione rurale afghana migliore di quello stabilito dai loro avversari”. I talebani, spiega sempre Arlacchi, si ispirano “ad una società di virtuosi, governata da precetti coranici, inaccettabile e odiosa ai nostri occhi. Ma la società dei talebani è una società di afghani, non la Umma universale di altri estremisti”.

Arlacchi: “La NATO ha portato corruzione e inettitudine”

L’analisi che nessuno svolge, ma che invece dovremmo sforzarci di compiere è capire come questi islamisti siano “riusciti a godere di quel minimo di consenso dal basso, o di semplice neutralità, che ha consentito loro di conquistare il Paese ed entrare a Kabul senza sparare un colpo”. Preso atto che l’Arabia Saudita è dal 2001 che non li sostiene più con soldi e armi, che con gli USA sono stati in guerra fino ad ora e che Cina e Russia ne temono l’egemonia sui musulmani dei rispettivi paesi, diventa difficile ridurre il tutto a un generico sostegno estero. Arlacchi è sicuro: ai talebani è bastato “sedersi sulla riva del fiume ed aspettare. Cioè resistere, garantire ordine e sicurezza alle zone sotto il loro controllo, assicurarsi perlomeno la neutralità della popolazione. Ed attendere ciò che era prevedibile già dieci anni fa: il crollo della baracca di corruzione, inettitudine militare ed amministrativa, indifferenza per i bisogni dei civili, messa in piedi dalle forze di occupazione. Ma non è tutto, con questa sconfitta dell’imperialismo americano, “l’identità del vero futuro vincitore della guerra dell’Afghanistan” è la Cina socialista.

Secondo Arlacchi, i talebani sono riusciti a godere del consenso per conquistare il Paese senza spargimenti di sangue.

Giannini: “I Talebani si sono radicati fra il popolo che non ne poteva più degli USA”

Anche l’ex-senatore italiano Fosco Giannini, già responsabile del Dipartimento delle relazioni estere del Partito Comunista Italiana (PCI) concorda con questa analisi. Nell’ambito di una conferenza organizzata dalla rivista internazionalista “Cumpanis”, Giannini, che è autore di un saggio intitolato “Liberare i Popoli. Usa-Nato-Ue: appunti per la lotta” (edizioni La Città del Sole, 2020), ha spiegato: “Gli USA, dopo 20 anni, hanno constatato l’impossibilità di sconfiggere i Talebani sul campo, anche perché essi nel frattempo si sono ancor più radicati fra la popolazione e nei territori. Nella lotta ventennale contro il dominio imperialista, c’è poco da fare: ci piaccia o meno, i Talebani hanno costruito forti legami di massa”. Una ostilità dei civili, donne comprese, verso i militari occidentali che non hanno portato alcun diritto o sviluppo economico e sociale, ma hanno solo bombardato e saccheggiato il Paese, che ha spinto i cittadini afghani a dar fiducia all’unica forza che contrastava questi invasori… e purtroppo questa unica forza sono …gli islamisti oscurantisti.

Grimaldi: “apertura agli USA possibili, ma subordinate a Cina e Russia”

Fulvio Grimaldi, giornalista di formazione marxista un tempo impiegato presso RaiTre e collaboratore di “Liberazione”, l’ex-giornale del Partito della Rifondazione Comunista, analizza a sua volta con nettezza la situazione afghana: “il fatto che un occupante sia costretto a una fuga indecorosa, dimostrazione del consenso che il movimento di liberazione nazionale vanta presso la stragrande maggioranza della popolazione, smentisce tutte le teorie di una subalternità dei Talebani agli USA”. Secondo il giornalista i Talebani “da una posizione di assoluta forza” hanno deciso di negoziare perché hanno visto “il nemico in posizione di debolezza e di mancanza di opzioni”, ma anche perché “sostenuti dal popolo davanti a un governicchio fantoccio di ladri e corrotti”. Ma non vi è il rischio che i Talebani diventino – come in passato – uno strumento dell’imperialismo? Grimaldi chiarisce che “probabilmente ci saranno delle aperture dei Talebani agli interessi economici USA, bisognerebbe però vedere a quali condizioni e soprattutto in quale quadro dei rapporti e investimenti di Cina e Russia”. Insomma: “gli USA sono inguaiati in tutto il mondo, dall’America Latina al Medioriente, le loro rivoluzioni colorate e i colpi di Stato falliscono”. Se dal loro ritiro quindi “ricaveranno qualche partecipazione all’enorme ricchezza mineraria afghana, in subordine a Cina e Russia, sarà già tanto e varrà bene la fine dell’incenerimento degli afghani, donne col burka comprese, mediante missili e le bombe USA e NATO”.

Le forze occidentali giunte nel Paese nel 2001 sono state percepite come forze d’occupazione.

In Afghanistan il popolo è religioso e vuole solo la sua sovranità!

Sui media svizzeri si sente una unanime condanna verso i Talebani perché non sono una forza laica, perché discriminano le donne e perché non riconoscono i diritti umani occidentali. Appare già in sé abbastanza ipocrita che chi fino ad oggi non ha mai mosso un dito a favore della laicità né in Svizzera né nel resto d’Europa, ora si sente in diritto di pontificare su un paese ai più sconosciuto, ma a questa pochezza dell’élite politica e mediatica svizzera siamo ormai vaccinati. Proviamo a sentire allora l’opinione di un accademico di provata cultura laicista, il turco Emrah Maraşo, redattore responsabile della rivista di divulgazione scientifica di Istanbul «Scienza & Utopia» nota per fare suo il metodo analitico del materialismo dialettico. Egli è convinto che non esista al mondo un solo luogo occupato dagli USA che sia giunto al secolarismo. Gli Stati Uniti – ricorda – “hanno combattuto contro il partito laico Baath in Iraq, poi hanno tentato di rovesciare il governo secolare in Siria e, nel fare ciò, gli USA hanno collaborato con organizzazioni sia separatiste che bigotte”. Lo stesso – ricorda Maraşo – è avvenuto quando l’imperialismo britannico invase la Turchia per sconfiggere la Rivoluzione, repubblicana e laicista, di Mustafa Kemal Atatürk: anche allora i collaborazionisti locali “sono stati gli intellettuali della borghesia compradora occidentalizzata urbana di Istanbul ma anche i clericali che hanno pure emesso una fatwa contro Atatürk in Anatolia”. Colonizzare – spiega infatti il nostro interlocutore – significa “eliminare non solo l’indipendenza economica, ma anche politica e culturale di uno Stato. L’occupazione e la colonizzazione di qualsiasi paese impone l’alleanza con gli elementi più compradores” della colonia.

La laicità è successiva all’indipendenza!

Emrah Maraşo difende una linea secondo cui per analizzare la realtà di un paese come l’Afghanistan non si possono usare le lenti eurocentriche in voga in Occidente, cioè quelle del laicismo, del femminismo o dei diritti LGBTQ. Usare queste chiavi di lettura così ovvie nell’Occidente liberale impedisce in realtà di comprendere quel dato paese e le sue dinamiche storiche e sociali. Ma quindi la laicità non è importante? Ovviamente lo è, ma “il secolarismo è nato con la ribellione dei contadini, della borghesia e degli intellettuali rivoluzionari contro il potere aristocratico e della Chiesa: ma questa ribellione va di pari passo con la lotta contro una potenza straniera” sottolinea il ricercatore. La principale lotta dell’umanità oggi “è la contraddizione con il sistema imperialista-capitalista: il conflitto principale è tra l’imperialismo americano e il mondo oppresso e in via di sviluppo. Poiché l’obiettivo finale del neoliberismo e della globalizzazione è abolire l’indipendenza degli Stati, ogni attacco su questo punto è reazionario e ogni azione e politica per respingere questi attacchi è progressiva. È molto importante preservare e far avanzare la modernità e l’illuminismo e contrastare le ideologie dell’imperialismo, il neo-liberismo, la filosofia post-modernista, ecc.”

Non solo geopolitica, ma anche lotta di classe!

Per quanto riguarda il successo della lotta contro l’imperialismo c’è quindi una domanda principale da porsi, ed è questa: “il sistema imperialista sta regredendo oppure si sta rafforzando? Se il sistema sta perdendo potere e si sta ritirando, questo sviluppo è a beneficio di quel paese e di quel popolo, ed è importante per rafforzare la solidarietà internazionale e il fronte antimperialista negli equilibri di potere geopolitici su scala mondiale”. Ma quindi – chiediamo – conta solo la geopolitica? Certo che no, chiarisce Maraşo: “il carattere di classe e l’ideologia dei governi di questi paesi sono ovviamente importanti a questo punto in termini di capacità di resistere al sistema imperialista anche dopo la liberazione. Perché il Paese, divenuto indipendente dal sistema atlantico, deve mobilitare tutte le sue potenzialità: l’unità, la coesione sociale e la pace all’interno del Paese sono decisive e questo obiettivo lo si raggiunge attraverso la mobilitazione delle donne e degli uomini”. Insomma se i Talebani sono maturati rispetto a vent’anni fa apriranno il loro governo ad altre forze politiche patriottiche per costruire una coesione e una riconciliazione nazionale contro il “dividi et impera” occidentale.

Sotto il giogo imperialista nessuna liberazione della donna e nessuna laicità è possibile!

Restiamo in Turchia, un tempo baluardo laicista fra i paesi musulmani: “Teoria” è una rivista politica che reca nella sua testata la massima “Lavoratori e popoli oppressi di tutto il mondo, unitevi”, il suo direttore è il giornalista Cemil Gözel, che sull’Afghanistan premette – ricordando un po’ la famosa tesi maoista – che “la fonte delle idee giuste è la pratica sociale: questo vale per tutti i paesi!”. Qual è quindi la pratica sociale che l’Afghanistan ha sperimentato negli ultimi 20 anni? “L’Afghanistan era un paese occupato dagli Stati Uniti, che avevano istituito uno stato fantoccio. Nelle condizioni di occupazione, l’Afghanistan non ha avuto l’opportunità di fare alcun passo avanti in termini di liberazione, indipendenza, unità nazionale e una lotta di classe che avrebbe indebolito l’imperialismo in tutto il mondo. Perché tutte queste dinamiche sono possibili solamente una volta vinta la guerra contro l’occupazione imperialista. Oggi l’Afghanistan, benché guidato dai talebani, è stato liberato dall’occupazione e lo Stato fantoccio imposto dagli americani è stato liquidato”.

Il carattere relativo del progresso

Gözel lo ribadisce a chiare lettere: “essere contro l’imperialismo è l’asse principale: non esiste liberazione, indipendenza o secolarizzazione sotto il giogo dell’imperialismo. La pratica sociale del mondo in via di sviluppo dimostra che il fattore che impedisce lo sviluppo degli Stati è l’imperialismo”. In questo contesto insomma definire se qualcosa è progressista o reazionario muta rispetto a dove avviene: un islamista in Europa è ovviamente reazionario, ma in Afghanistan è progressista in quanto lotta contro l’invasore, che è il problema principale del Paese. Ecco perché – insiste il direttore di “Teoria” – “ogni azione che faccia regredire l’imperialismo è progressista e rivoluzionaria. Questo è il fattore decisivo per noi. Indubbiamente, il benessere sociale e lo sviluppo dei diritti, ora che l’occupazione è finita, dovranno entrare nell’agenda politica futura dell’Afghanistan”. E infine l’affondo contro la sinistra europea che rifiuta di vedere l’imperialismo come asse principale: per Cemil Gözel tali critiche rappresentano un mero “orientalismo” che non aiuta la liberazione dei popoli e anzi: “sotto le loro critiche ai talebani ci sono timidi complimenti all’imperialismo”!