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Afghanistan, un futuro possibile dopo un passato terribile

Afghanistan. Da oltre mezzo secolo i media occidentali offrono un’informazione parziale e falsificatoria di quanto accade tra le montagne dell’Asia Centrale. In questi giorni la grancassa dei quotidiani e delle televisioni suona tutta a favore della recente occupazione protrattasi per un ventennio ad opera della NATO, esprimendo aprioristici giudizi negativi sul nuovo governo.

Provare a districarsi in questo bombardamento mediatico che cerca di commuovere emotivamente lo spettatore, indirizzandolo a una ben chiara presa di posizione, è impresa ardua. Cerchiamo dunque di meglio comprendere la realtà e la complessa storia di questo paese, senza le quali è ben difficile esprimere giudizi sulla situazione.

Popolazione cittadina, una netta minoranza

Kabul è passata da due milioni e mezzo di abitanti nel 2000 a oltre quattro milioni di oggi: come sempre l’impetuosa spinta demografica è preponderante, ma la città ha funto anche da richiamo per quanti hanno ritenuto di poter o dover collaborare con gli occupanti occidentali. Le altre città significative dal punto di vista demografico sono Kandahar ed Herat con mezzo milione di cittadini, la splendida Mazar-i Sharif edificata dai discendenti di Tamerlano, con quattrocentomila abitanti, con trecentomila Kunduz e Jalalabad, importante per la sua posizione di snodo d’accesso verso le città pakistane di Peshawar e Islamabad. Nel complesso, contando anche altri centri minori, la popolazione cittadina non raggiunge gli otto milioni di persone, in una nazione di almeno 38 milioni di abitanti. Primo dato, quindi, le città rappresentano una minoranza numerica, geografica e finanche culturale, esprimendo in certi settori un universo valoriale certo distinto da quello delle donne e degli uomini del resto del paese.

Dalla monarchia al socialismo, mentre Washington fomentava la guerra civile e il terrorismo

I comunisti afgani si organizzano nel 1965 nel Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan e offrono un contributo fondamentale prima per l’avvento della Repubblica nel 1973, poi nel guidare la Rivoluzione di Saur del 27 aprile 1978, con la quale si pone fine all’esperienza di governo di Mohammed Daud Khan che in cinque anni non aveva modificato i rapporti economici e sociali del paese. Alla Rivoluzione segue un anno e mezzo turbolento, sotto la guida prima di Nur Muhammad Taraki e poi di Hafizullah Amin, tuttavia le riforme sono impetuose, viene data la terra a ventimila contadini, viene abolita la decima dovuta ai latifondisti dai braccianti, si persegue l’usura, vengono calmierati i prezzi dei beni primari, vengono statalizzati i servizi sociali garantendoli a tutti, si introduce il diritto di voto per le donne, si legalizzano i sindacati, si creano un codice civile e uno penale che riducono l’intromissione religiosa nella gestione della giustizia e vietano i matrimoni per le bambine, la scuola e l’università diventano gratuite e aperte anche alle ragazze. Tutto questo non è opera degli statunitensi, ma dei comunisti afgani, i quali tuttavia commettono anche diversi errori, in una nazione in cui la religione è parte fondamentale del sentimento identitario delle persone e in cui il burqa è stato l’abito delle donne per secoli. Gli eccessi laicisti dei primi due capi di stato rivoluzionari sono corretti dai loro successori, prima Babrak Karmal dal dicembre 1979 e poi dal 1986 al 1992 Mohammad Najibullah. L’appello all’Unione Sovietica giunge per tutelare questo cammino di emancipazione, ancorché in molti casi maldestramente calato dall’alto: l’Armata Rossa non invade l’Afghanistan, come strombazzava all’epoca l’Occidente, ma compie una drammatica missione di sostegno al percorso di modernizzazione iniziato dai marxisti locali. Pagherà questa solidarietà con 26mila caduti e oltre cinquantamila tra mutilati e invalidi.

Le donne afgane hanno potuto iniziare ad andare a scuola solo grazie al governo comunista.

A metà degli anni ’70, mentre alla Casa Bianca si apre la stagione neoconservatrice promossa dal presidente Ford e dai suoi collaboratori Rumsfeld e Cheney, gli Stati Uniti (su indicazione della Trilaterale), fomentano le bande armate afgane decise ad abbattere il nuovo stato socialista. La Trilaterale consiglia infatti di lanciare un grande progetto, supportato dai sauditi, per la formazione di terroristi pronti alla lotta armata contro l’Unione Sovietica. Il sentimento popolare afgano, disorientato quando non dichiaratamente contrario alle riforme socialiste implementate maldestramente senza la necessaria costruzione di un consenso popolare, favorisce i miliziani armati pronti a battersi nella guerra civile. L’Occidente schiera i suoi inviati di guerra e i suoi intellettuali al soldo del capitalismo come Bernard-Henri Lévy in un solo coro a favore dei “combattenti per la libertà” contro l’occupazione sovietica.

Dopo il socialismo, mujaheddin, guerra civile, talebani e occupazione statunitense

Agli albori degli anni ’90 la vittoria dei mujaheddin viene salutata dall’Occidente come il trionfo della libertà, tuttavia le leggi del tempo socialista vengono abolite, le donne tornano tutte sotto il burqa, si scatena la guerra civile, che si conclude con la vittoria degli studenti coranici addestrati in Pakistan, che fondano un nuovo stato, con bandiera bianca e iscrizioni coraniche. I talebani non hanno alcun progetto espansivo, né fomentano il terrorismo, ma danno ospitalità a tutti quei terroristi che, armati dall’Occidente e dalla NATO, hanno agito sui più vari scenari internazionali agli ordini di Clinton e di Bush, dalla Cecenia alla Bosnia.

Dopo aver combattuto i sovietici per conto degli USA, Bin Laden si stabilisce in Afghanistan.

I fatti del 2001 portano all’aggressione e all’occupazione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. È una missione che non ha nulla di pacifico, copre il mercato dell’eroina, prova a rubare le materie prime, senza riuscirci per la presenza di talebani che difendono armi in pugno le ricchezze nazionali, cerca di impedire il passaggio commerciale al mercato cinese. Gli occupanti si dotano di un variegato sistema di collaborazioni, a tutti i livelli, dalle forniture alimentari e materiali alle traduzioni. Una parte di afghani trova conveniente e lucroso collaborare con gli occupanti. Oggi, finita l’occupazione, tali collaboratori sono ricercati dalle forze che hanno prevalso, come accaduto lungo tutto il Novecento, in ogni contesto di guerra civile. Uomini e donne arrestati in questi giorni a Kabul e nelle altre città vengono chiamati a rispondere del loro ruolo in questi venti anni. Il ciabattino e il fornaio e le loro famiglie, non si trovano certo in questa condizione.

A segno della proiezione dell’immaginario occidentale in un contesto totalmente differente, valgano la descrizione di come è stata ammainata la bandiera LGBTQ+ dall’ambasciata statunitense e il presunto straziante racconto di una ventenne che spiega in lacrime di dover cancellare il suo profilo Instagram ed eliminare i suoi più vistosi cosmetici.

Quale futuro per l’Afghanistan?

I collaborazionisti temono evidentemente per la loro vita e quindi si assiepano negli aeroporti e lungo le strade, rivendicando, forse anche con qualche ragione, il diritto di essere accolti come profughi da quell’Occidente che li ha per lunghi anni sfruttati e remunerati. Le scene pietose e drammatiche, le testimonianze strazianti invadono i media europei, cercando di suscitare sentimenti di simpatia verso i collaborazionisti e di avversione verso i talebani e il governo che stanno per istituire, dipinto a tinte tanto fosche da far immaginare l’avvento di feroci tagliagole.

Tuttavia con i talebani la trattativa per il passaggio di poteri è stata portata avanti non solo dagli occupanti occidentali, ma anche in forma del tutto autonoma, da russi e cinesi. Tutti i maggiori protagonisti dello scacchiere internazionale, sia quelli schierati sul fronte unipolare, sia quelli impegnati nella costruzione multipolare, da anni hanno ammesso che i talebani rappresentano la forza militare e politica con il maggiore consenso sul territorio nazionale afgano, ragione per cui hanno iniziato a intavolare un dialogo fondamentale e necessario. Le elezioni succedutesi in questi anni hanno rappresentato una farsa in cui la scarsa affluenza elettorale è stata il segno più evidente dell’assenza di consenso per i governi collaborazionisti.

In svariate occasioni, i talebani sono stati accolti dalla popolazione (qui a Kandahar).

Ad oggi sappiamo che il progetto talebano, mediato e discusso con tutti gli attori internazionali, prevede la formazione di un governo rispettoso di tutte le comunità che compongono l’Afghanistan, inclusivo rispetto alla partecipazione femminile nella vita politica e sociale, a partire dall’istruzione, che nelle città già sotto amministrazione talebana, si dimostra essere garantito.

È abbastanza evidente che l’orientamento internazionale del nuovo governo sia in questa prima fase aperto verso la Cina e la Russia, perché se un tempo gli statunitensi sono stati i grandi sostenitori dei talebani, con armi e finanziamenti, gli avvenimenti di questi ultimi venti anni hanno marcato una distanza per molti aspetti incolmabile.

I cinesi hanno offerto una collaborazione fondata sull’ammodernamento della rete viaria e stradale, un quadro di cooperazione per lo sfruttamento minerario, sostegno tecnico e organizzativo per il passaggio dalla cultura dell’oppio a quella del baco da seta e dello zafferano.

Quale sarà l’esito di questo percorso è difficile oggi da intravedere, perlomeno ora il popolo afghano potrà vivere in un paese sovrano: ipotesi di reale democratizzazione sono possibili infatti solo se prima si conquista l’indipendenza nazionale.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.