Ho letto con intensa partecipazione il contributo concernente Cuba, scritto dal dottor Franco Cavalli e apparso sull’edizione dello scorso 21 giugno del quotidiano LaRegione. Considerando il reciproco rapporto di fiducia che ci lega da anni e la sua generosità nel difendere i deboli e i vinti, chiedo al medico di comprendere alcune mie osservazioni riguardanti la situazione oggetto del dibattito. La prima riguarda il sentimento d’amicizia in generale. Chiamare con un nomignolo affettuoso (Bobo) un alto “dignitario” della nostra radio, sospettato, (non il solo), di confondere il servizio pubblico della RSI come una sua proprietà privata, confesso che ha suscitato in me un certo fastidio e in lettori nostri amici comuni un senso di smarrimento.
Come? Si sono chiesti in molti: personaggi pubblici di grande spessore com’è Cavalli per tenere aperti canali che servono loro per la comunicazione (e la radio è uno dei più importanti), sono costretti a fingere d’essere amici d’individui che non meritano il loro affetto. Purtroppo viviamo in un paese fatto così e giustifichiamo, in buona o mala fede, le peggiori violazioni del diritto fingendo di vivere in un ambiente fatto di complicità famigliare, di gentilezza e di tolleranza. L’assenza di una cultura storica rivela sempre più le difficoltà che s’incontrano quando si vogliono accompagnare fraternamente gli abitanti dell’isola caraibica ad allontanarsi dal fango che ostacola il percorso comune e collettivo di redenzione, di liberazione e di riscatto. Oggi, in un mondo smisuratamente connesso, aumenta la necessità di cercare e trovare, nel campo ideologico del potere politico, dei garanti ideali di questa libertà. Le aristocrazie del denaro, col supporto di Trump, poi di Biden e il complesso del potere imperiale degli USA, hanno sostituito l’influenza di Marx, Lenin, Fidel Castro e Che Guevara. Un tempo, questi quattro protagonisti di una politica solidale, erano garanti del riscatto dei poveri nell’area concettuale dell’égalité ispirata dall’illuminismo.
Una gestione basata esclusivamente sul profitto rapace, ha determinato la decadenza in atto degli Stati Uniti. Dopo il grande conflitto della prima metà del XX secolo, in cui i soldati degli States si sono comportati più che decorosamente, gli USA hanno perso tutte le guerre. Quando lasciano, o fuggono dai campi di battaglia, con la manipolazione dei media riescono a mascherare le sconfitte e a trasformarle, con criteri e sceneggiate giullaresche, in vittorie. Alle umiliazioni subite nei campi di battaglia del medio (Afganistan) e nell’estremo oriente (Viet Nam), hanno reagito con una viltà senza pari, accanendosi contro i deboli e gli indifesi come oggi sono i cubani affamati dal blocco economico da loro imposto all’isola.
A seguito di ciò a me oggi fa pena la signora Amherd, capo del Dipartimento federale della difesa. E’ un ministro di uno Stato la cui origine storica è tutta spiegata dalla volontà e dalla lotta anti imperialista. Malgrado ciò e ripudiando il mito fondante di Tell, con i suoi sei colleghi, si è inchinata servilmente davanti al cappello del balivo americano quando gli ha dato, forse nell’intento di tranquillizzarlo, sei miliardi di franchi per l’acquisto di aerei da combattimento. Questo episodio lo cito ai fini di uscire dall’ambiguità e di accettare l’evidenza dei fatti nella situazione politica in cui viviamo. Abbiamo dimenticato la neutralità. La maggioranza degli svizzeri e delle autorità costituite elvetiche si assoggetta agli ordini tassativi di un imperatore che si attribuisce facoltà taumaturgiche. Il regnante presume di sapere, dove sta il bene e il male quando ci ordina di odiare la Cina e la Russia e vuole essere venerato come un Asburgo del XIX secolo.
Nel caso di Cuba, oggi, nel nome di un anticomunismo obsoleto, è di moda supportare la combriccola dei vili e dei meschini che il secolo scorso, al solo apparire dei barbudos, è fuggita a Miami lasciando i dollari nelle casseforti delle ville dell’Avana. Speravano tutti di poter ritornare in un paio di giorni a riprendersi ciò che avevano abbandonato. Sono passati quasi settant’anni e nelle palazzine del Vedado ci sono ancora i figli degli schiavi neri che lavoravano a tagliar canne da zucchero. Nel frattempo il governo cubano ha riconvertito le giovani prostitute, costringendole a fare le infermiere, ha limitato le attività finanziarie delle banche e impedito le relazioni d’affari con le peggiori organizzazioni criminali statunitensi, sostenute in passato dal dittatore Fulgencio Batista. Nelle vie dell’Avana non s’incontrano più bambini che dormono sui marciapiedi, com’era costume prima della rivoluzione. Malgrado ciò, per ordine dell’impero, noi tutti oggi dovremmo prostrarci al cospetto degli assassini del Che, un medico argentino ucciso ed esposto al pubblico su un tavolaccio a Vallegrande, in Bolivia. Fu ferito e catturato da un reparto antiguerriglia dell’esercito boliviano, asservito a forze speciali statunitensi costituite da agenti “speciali” della CIA. Il giorno successivo, nella scuola del villaggio, venne giustiziato sommariamente e mutilato delle mani. La ferocia di chi in questo crimine agiva su commissione degli Stati Uniti, eguaglia, a mio parere, le peggiori atrocità della storia.
Questo articolo, apparso sull’edizione del 12 luglio 2021 del quotidiano LaRegione, è stato ripreso su questo portale con il consenso dell’autore.