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Come un Democratico uccise il Welfare

Pubblichiamo di seguito la traduzione di un articolo di Premilla Nadasen, apparso sul sito dell’edizione online della rivista statunitense “Jacobin”. (Il testo in lingua originale inglese è raggiungibile da qui).

Bill Clinton sviscerò il welfare e criminalizzò i poveri, tutto ciò mentre incanalava sempre più soldi nel sistema carcerario.

L’elezione di Bill Clinton nel 1992 avrebbe dovuto significare un punto di svolta nella politica americana. I liberali esalarono un sospiro di sollievo, credendolo una rottura più che mai necessaria con l’era del “governo snello” e dei tagli allo stato sociale di Reagan-Bush.

Ma l’ottimismo che circondava l’elezione di Clinton ignorava la distruzione che la sua amministrazione avrebbe portato ai poveri e alla classe lavoratrice, in particolare agli afroamericani, e che mascherava non solo la continuità ma l’intensificazione delle politiche “contro i poveri”. Piuttosto che offrire una tregua dalla scure dell’austerità, Clinton portò l’agenda Reagan-Bush un passo oltre. Se la sua amministrazione era un punto di svolta, lo fu nella direzione sbagliata.

Nel 1994, Clinton firmò il “Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, il più grande “crime bill” della storia che allocò 10 miliardi di dollari nella costruzione di prigioni, espanse la pena di morte ed eliminò i fondi federali per l’educazione dei detenuti. Il testo intensificò la sorveglianza poliziesca, il “profiling” razziale e portò all’incarcerazione di milioni di persone per infrazioni non violente come ad esempio il possesso di droga. Contribuì all’inaugurazione dell’era della carcerazione di massa che devastò le comunità di colore (a cui Clinton ha recentemente porso le sue scuse).

Il simultaneo inasprimento della legge federale e la riduzione del suo personale sino ai livello più bassi degli ultimi trent’anni spostò i soldi dei contribuenti dall’impiego di personale operante nei servizi sociali a un incremento dei poliziotti nelle strade.

Fra le tante misure razziste e “anti-poveri” dirette nei confronti degli afroamericani durante la sua amministrazione, la più simbolica fu la riforma del welfare del 1996 che trasformò un sistema d’assistenza esclusivo e iniquo che stigmatizzava i suoi beneficiari in uno che li criminalizzava effettivamente.

Il “Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act” pose fine al “welfare” tradizionale, rimpiazzando il programma d’assistenza federale“Aid to Families with Dependent Children (AFDC)” – con il “Temporary Assistance to Needy Families” (TANF). Il TANF stabilì condizioni più dure alle madri single povere e diede allo Stato maggiore flessibilità nella scelta di come spendere i soldi per il welfare (aprendo la strada alla discriminazione contro le minoranze).

Il TANF proibisce a chiunque di ricevere l’assistenza per più di due anni consecutivi oppure per più di cinque anni sull’arco dell’intera vita. La legge richiede inoltre ai beneficiari degli aiuti di essere impiegati, nella maggior parte dei casi, almeno trenta ore alla settimana per ricevere l’assegno del sussidio, ammontando a un salario orario molto al di sotto del minimo legale.

Una volta che i beneficiari raggiungono la durata massima del loro programma, il TANF li obbliga ancora di più ad entrare nel mercato del lavoro, con scarsa attenzione circa la possibilità che i loro figli possano ricevere le dovute attenzioni o che il salario lavorativo sia adeguato al loro sostentamento. Molti in realtà non sono nemmeno in grado di trovare lavoro. Nel 2012, un rapporto di “Urban Institute” concluse che per i beneficiari che incontravano un ostacolo all’assunzione, il TANF faceva poco o nulla per aiutarli a reintegrarsi nel mondo del lavoro.

Stravolgendo radicalmente il suo scopo, il TANF contiene clausole volte a sostenere il matrimonio e offre corsi di “parenting” (come fare il genitore, N.d.T). La flessibilità che contraddistingueva la riforma del welfare permise allo stato di reindirizzare i fondi dai sussidi diretti d’assistenza verso programmi d’aiuto all’infanzia o sussidi per aziende che assumevano beneficiari del welfare; ciò significa che una grossa fetta dei fondi destinati al welfare pubblico andò a riversarsi nel settore privato.

Gli Stati furono pressati a ridurre il ruolo del welfare e attuarono differenti strategie per dissuadere i bisognosi dal fare domanda d’aiuto. Applicarono complicate e umilianti procedure e fecero molto affidamento sulla rilevazione delle impronte digitali e “drug test” per liberarsi degli “elementi criminali” – anche se c’erano poche prove di una diffusione di attività criminali tra i beneficiari.

Il risultato fu che tutti i beneficiari e i richiedenti l’assistenza furono trattati da presunti criminali.

La sorveglianza delle donne che percepivano un basso reddito colpì in maniera sproporzionata le donne di colore, con il risultato di un maggior numero di bambini neri in affidamento e le rispettive madri in prigione.

Oggi, il welfare e il mantenimento dell’ordine collaborano per monitorare minuziosamente l’operato delle madri che versano in condizioni di povertà.

Queste politiche punitive non erano una novità, ma piuttosto un rafforzamento di un lungo e razziale attacco al welfare. L’AFDC non era controverso quando fu istituito negli anni ‘30. Molte persone aderivano all’idea tradizionale dei “ruoli di genere”, ritenendo che le madri povere che vivevano sole senza un uomo che mantenesse la famiglia dovevano essere supportate dallo Stato allo scopo di permetterle di stare a casa e prendersi cura dei figli.

Comunque, la schiacciante maggioranza di beneficiari a quel tempo era composta da donne bianche. Le donne di colore erano considerate meno meritevoli di ottenere l’assistenza. Lo Stato e le locali amministrazioni dell’AFDC, specialmente nel Sud, escludevano sistematicamente gli afroamericani così come i messicani-statunitensi dai sussidi del welfare attraverso la clausola della “suitable home” oppure di leggi quali la “employable mother laws” che negava l’assistenza alle madri che non possedevano una casa adatta o che erano ritenute essere in grado di ottenere un lavoro e diventare indipendenti.

Quando la migrazione degli afroamericani al Nord si intensificò, sempre più donne di colore chiesero di ottenere l’assistenza, risultando in contrasto al programma di aiuti sociali.

I giornalisti scrissero riguardo alla “frode del welfare” e al problema dell’immigrazione nera e ci furono crescenti richieste di fare marcia indietro. Nel 1967, l’amministrazione Johnson istituì il “Work Incentive Program” (WIN), la prima e vera legge obbligatoria federale sull’occupazione per l’AFDC, che richiedeva agli stati la direzione di una porzione dei loro beneficiari d’assistenza verso dei programmi di impiego.

Questa legislazione epocale diresse il ruolo del welfare dal supporto alle madri “single” verso l’obbligo di queste a prendere impieghi fuori casa. Sebbene simbolicamente importante perché segnò una nuova direzione della politica federale, WIN non fu mai adeguatamente finanziato né significativamente rinforzato. Il “Welfare Rights movement” negli anni ‘60 e ‘70 si oppose all’obbligo di lavoro e combatté per sussidi mensili maggiori, tamponando alcune delle politiche regressive, ma solo temporaneamente.

L’approccio punitivo con cui ci si rivolgeva alla povertà era il risultato del metodo con cui la razza e la povertà si erano interecciate nel dibattito nazionale. Negli anni ‘60, i disordini sociali in strada, le richieste degli afroamericani per l’uguaglianza economica e le iniziative federali contro la povertà disegnarono l’attenzione nazionale per il persistente problema della povertà delle persone di colore. Ma approccio liberale dominante spiegava la povertà come un prodotto della cultura nera, rinforzando la nozione che solo le persone povere erano responsabili per la loro condizione.

Più notoriamente articolata in “The Negro Family: The Case for National Action”, di Daniel Patrick Moynihan, le motivazioni della cultura della povertà passavano per il concetto che una struttura familiare disfunzionale – in particolare per le famiglie monoparentali – era la primaria ragione della persistente disuguaglianza che colpiva gli afroamericani.

La soluzione fu quella di instillare nella mente delle famiglie di colore i valori “propri” del lavoro e del matrimonio. Le donne nere povere furono demonizzate come “welfare queens” una metafora resa popolare da Reagan negli anni ‘70 e ‘80 volta a spiegare come le stesse scegliessero i programmi assistenziali piuttosto che il lavoro per “spremere” tutto ciò che potevano dal sistema. La retorica in questione fu adoperata per giustificare gli enormi tagli alla spesa sociale. Analogamente, la riforma di Clinton fu portata avanti in un ragionamento di “culture of poverty”, evidenziato dal suo linguaggio codificato di dipendenza e di una popolazione che approfittava dei vantaggi del sistema. Gli stereotipi sulle donne furono la base per il dibattito sulla riforma sociale del 1996.

Clinton alluse alla paura del crimine nero nelle strade, al consumo di droga, al fenomeno dei “crack babies”, alla rottura della famiglia e all’esaurimento dei fondi pubblici. Il suo obiettivo centrale, nello smantellare l’AFDC, stando alle sue parole, era porre fino al “ciclo di dipendenza” e “realizzare una riforma dello stato sociale che avrebbe reso il lavoro e la responsabilità la legge della nazione”.

Clinton non gettò dunque le basi per una via alternativa né alle politiche liberali che rimproveravano i poveri per i loro disagi né al neoliberismo economico. Piuttosto, rese ciò che erano delle graduali riforme in una sistematica ristrutturazione della politica federale atta a criminalizzare chi versava in cattive condizioni. Reindirizzò le risorse statali dal supporto finanziario per i bisognosi verso la sorveglianza e la criminalizzazione.

Nell’era del culto del mercato, coloro che non potevano dimostrare la propria autonomia o indipendenza furono identificati non solo come indegni dell’assistenza, ma addirittura come potenziali minacce per la stessa società americana.

Lo smantellamento del welfare perpetrato da Clinton, condito da un linguaggio di responsabilità personale e correzione delle politiche pubbliche, fu il culmine di una tendenza presente tra Democratici e Repubblicani volta a dissuadere e scoraggiare le donne di colore povere ad affidarsi all’assistenza. Per questo motivo, nei cosiddetti “New Democrat” c’era ben poco di nuovo.