Il governo a guida socialdemocratica (kemalista) uscito sconfitto dalle elezioni del 2002 fu sostituito da Recep Tayyip Erdogan, un “islamico-moderato” come veniva allora dipinto all’unisono dai media occidentali e dall’Unione Europea. Erdogan era alleato a quel tempo di Fetullah Gülen, un importante predicatore islamista e, soprattutto, un importante uomo d’affari che dal 1999 vive a Saylorsburg in Pennsylvania con una green card per sfuggire alla cattura da parte della giustizia turca che già allora lo vuole processare per eversione all’ordine costituzionale.
I tentacoli gülenisti sulla società turca
Gülen era – ed è – a capo, infatti, di una potente e settaria confraternita fondamentalista che stava costruendo in diversi paesi (non solo in Turchia) aziende, scuole ed iniziava pure a infiltrare i partiti (non solo l’islamico AKP, ma pure il socialdemocratico CHP), i mass-media (ad esempio il quotidiano storicamente laico e progressista “Cumhuriyet”), e gli apparati burocratici e di sicurezza.
Se volessimo fare un paragone con la realtà cattolica, potremmo dire che la Cemaat diretta da Gülen è il corrispettivo islamico dell’Opus Dei. Ma in Turchia si parla dell’Organizzazione “F” o “FETÖ” (letteralmente: “Organizzazione Terrorista di Fetullah”), anche con il termine di “Gladio”, ossia un’organizzazione paramilitare del tipo “stay behind” che agisce nell’ombra e al servizio dell’imperialismo atlantico, cioè della NATO.
Eppure, di questo personaggio chiave, prima di questo golpe in Occidente si è sentito parlare molto poco: quasi solo il nostro portale ha regolarmente pubblicato il suo nome, identificandolo come fondamentale per comprendere gli equilibri politici della Turchia.
Secondo quanto dichiarato sulla rete televisiva dell’opposizione laica “Ulusal Kanal” da Dogu Perinçek, storico dirigente della sinistra turca, la confraternita gülenista avrebbe iniziato il suo lavoro di infiltrazione fin dal 1973. Questo relativamente lungo periodo di incubazione spiega come sia possibile che oggi i seguaci della setta siano riusciti a raggiungere i massimi posti di comando della società (generali delle forze armate, rettori dei poli accademici, ecc.).
Il giro d’affari direttamente legato a Gülen, stando al quotidiano della Confindustria italiana “Il Sole 24 ore”, sarebbe stimato in 25 miliardi di dollari di asset. Ma soprattutto a impressionare è la vastità numerica della setta: sono centinaia di migliaia, forse milioni, le persone che in Turchia risultano legate direttamente alla confraternita eversiva. Ecco come spiegare l’estensione degli arresti e delle sospensioni dei pubblici incarichi ordinata dal governo turco in reazione al golpe. Bisogna infatti tenere presente che, ad esempio, il migliaio di decani universitari invitati alle dimissioni nei giorni scorsi dal Consiglio Superiore dell’Educazione (YÖK) sono stati tutti scelti all’epoca in cui l’ultima parola sulle nomine spettava proprio ai seguaci di Gülen. I sospetti quindi di una rete clientelare di amplissime dimensioni, peraltro già denuciata in passato dal partito di opposizione Vatan Partisi, potrebbe quindi trovare conferma.
I legami fra Gülen e gli USA
Il prof. William Engdahl, autore di numerosi saggi di geopolitica e strategic risk consultant, parla inoltre esplicitamente di Gülen non solo come di un progetto utile “per armare l’islam politico come strumento per il regime change” (cioè le famose “rivoluzioni colorate” per rovesciare i governi non abbastanza subalterni a Washington come visto in Serbia, in Libia e in Ucraina), ma afferma senza dubbi che egli sia direttamente legato ad alti funzionari dei servizi statunitensi, di cui ricorre il nome di Graham Fuller impiegato presso la CIA.
Stando poi alle rivelazioni rese pubbliche nel novembre 2015 dal giornale statunitense “Daily Caller” (leggi), vi sarebbero legami finanziari fra Gülen e la campagna presidenziale di Hillary Clinton, con tanto di donazioni dell’imam turco alla ex-segretaria di stato statunitense. Lo stesso presidente Barak Obama non sarebbe del tutto escluso dalla vicenda, come sembrerebbero testimoniare dei contatti fra lui e il gülenista Gokhan Özkok, presidente del “Turkish American Business Development Council”, membro dirigente del “Turkish Cultural Center” e attivista proprio della “Clinton Global Initiative” (leggi).
L’Opus Dei …alla turca
Il comandante partigiano Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica di Turchia, dopo la Rivoluzione nazional-democratica del 1923 inizierà una serie di riforme, fra cui lo scioglimento d’ufficio di tutte le tarikat, ossia le sette islamiche. Deciderà pure di regolamentare e “nazionalizzare” la vita religiosa del Paese, ad esempio abolendo il Califfato, imponendo la lingua turca al posto dell’arabo nelle funzioni religiose, costituendo un ministero per gli affari religiosi che vigilasse sul necessario laicismo delle istituzioni.
Fra le confraternite ve ne erano due – rivali – quella denominata Nur del mistico sufi Said Nursi (deceduto nel 1960), che – clandestinamente – fu maestro di Fetullah Gülen; e quella dei Nasksibendi, il cui leader carismatico sarà l’imam Mehmet Kotku e i suoi seguaci saranno non solo Erdogan, ma anche gli ex-primi ministri Necmettin Erbakan e Turgut Özal. Quest’ultimo in particolare fu il fautore delle riforme neo-liberiste dell’economia turca.
Il vero successo di Gülen inizia proprio costruendo un’alleanza tattica e “contronatura” fra le due confraternite rivali, che si uniscono però per liquidare i kemalisti e indebolire l’esercito. Come spiega bene “Il Sole 24 ore” il terreno d’intesa è quello di dare “libero sfogo allo spirito imprenditoriale delle famose Tigri dell’Anatolia, quella classe media musulmana tradizionalista, esclusa dai kemalisti, e attirata dalla predicazione islamica di stampo quasi calvinista di Fethullah che mette l’accento sul successo economico e individuale”.
Il potere di Gülen si basa inizialmente sulle “dershane”, comunità di studio, di preghiera e di mutuo soccorso che fioriranno anche grazie alle riforme neo-liberali che indeboliranno la scuola pubblica turca adottando il modello americano. Da qui il tutto si è sviluppato costruendo decine di università, centinaia di scuole private e grossi colossi imprenditoriali: il gruppo mediatico “Zaman” (che edita l’omonimo quotidiano), l’organizzazione padronale “Tusko”, il centro finanziario “Bank Asya” (fondato come “Asya Finance” nel 1996 e oggi sesto istituto bancario della Turchia), ecc.
Sarebbe però un errore pensare che i tentacoli gülenisti si fermassero in Turchia: legati direttamente al pericoloso integralista islamico vi sono negli USA le Harmony Public Schools e la Cosmos Foundation, così come in Azerbaijan la Kafkas University che, stando a quanto riporta “Ulusal Kanal” (leggi), sembrebbe essere stata appena chiusa dal governo locale.
L’alleanza Gülen-Erdogan si rompe. E ora…
Almeno dal 2013 i rapporti fra le due correnti islamiste si sono raffreddati, trasformandosi negli ultimi mesi in un conflitto aperto. La linea di Gülen è estremamente dura contro ogni eredità repubblicana di Mustafa Kemal Atatürk, mentre Erdogan punta a mantenere elementi del sistema post-kemalista adattandolo però in funzione presidenzialista e meno laico.
Ma la vera rottura è sulla politica estera che ancora una volta si rivela essere la vera bussola per capire la politica interna di un Paese: i seguaci di Gülen si sono irrigiditi sulle loro posizioni atlantiste, mentre Erdogan ha fatto una svolta più “patriottica” come già la fece tatticamente in passato uno dei suoi predecessori Necmettin Erbakan, eminenza grigia fino alla morte del piccolo partito islamista Saadet Partisi (da cui l’AKP si scisse per diventare forza di governo).
Mentre i gülenisti erano per la ricerca di un compromesso con la guerriglia separatista curda del PKK, come ha ammesso anche Hüseyin Gülerce, ex-giornalista di “Zaman”; Erdogan – sostenuto qui dalla sinistra kemalista – non intendeva accettare la balcanizzazione del Paese, entrando così in conflitto – come peraltro Sinistra.ch aveva previsto in solitaria già anni fa – con i piani del “Nuovo Medio Oriente” progettato da Washington e atto a frantumare, attraverso sollevazioni etniche, l’unità nazionale irakena (nel frattempo ottenuta), siriana e infine iraniana e turca. La conflittualità etnica da un lato e il golpe dall’altro avrebbe gettato il Paese nel caos, che la NATO avrebbe potuto facilmente sfruttare per un intervento stabilizzatore. Perdere la Turchia potrebbe infatti significare l’autodistruzione della NATO: un rischio che a Washington non si possono permettere di correre.
I kemalisti e la sinistra turca dovranno ora osservare con attenzione l’evoluzione della lotta. Anche se l’ipotesi di una vera e propria guerra civile sembra difficile da realizzarsi, si tratterà anzitutto di neutralizzare i gülenisti, salvaguardare la sovranità e l’unità nazionale arrivando a mettere dei paletti alla NATO e ritirando la domanda di adesione all’UE, e infine organizzarsi affinché il potere di Erdogan, che resta ambiguo, venga sostituito da un governo di unità nazionale che impedisca le mire autoritarie e anti-secolariste del Presidente e torni man mano sulla via tracciata da Atatürk sfruttando la riappacificazione con la Russia e la Siria.