Quando il Muro di Berlino crollò e si avviò la triste fase della demonizzazione e della banalizzazione di tutta l’esperienza socialista della Germania dell’Est, il Partito Socialista Unificato (SED) che l’aveva fino allora guidata iniziò a reinventarsi all’interno del quadro istituzionale della Germania riunificata. La SED, dopo l’epurazione dalle sua fila dei precedenti esponenti comunisti che avevano avuto responsabilità di governo, cambiò nome dapprima in Partito del Socialismo Democratico (PDS) e, nel 2007, attraverso un processo di fusione con il movimento progressista WASG dell’ex-ministro socialdemocratico Oskar Lafontaine, divenne semplicemente La Sinistra, appunto “Die Linke” riscontrando successi elettorali importanti, e non più solo nei Länder orientali.
I partiti eclettici prima schizzano in alto e poi precipitano
Col trascorrere degli anni la situazione però muta, l’opportunismo viene smascherato da sempre più elettori che non si riconoscono più in un partito che, provenendo dalla più seria tradizione marxista ha rinnegato sé stesso e ora si divide in due anime principali: una di destra che pensa solo a formare coalizioni di governo moderate a livello regionale e che talvolta strizza l’occhio persino a Israele; e una di sinistra che però – influenzata anche dai trotzkisti – nel suo “movimentismo” abbandona i lavoratori e schifa i contadini per preferire gli accademici e gli attivisti delle ONG e che ai diritti sociali e sindacali della classe operaia sostituisce i diritti LGBTQ e l’allarme climatico.
Elezione dopo elezione la Linke è così scesa dal 12% nazionale del 2009 al 4,9% del 2021 e i pronostici futuri, alla luce anche dei risultati regionali nelle roccaforti dell’Est, lasciano ora presumere persino l’uscita dal Bundestag. Pochi mesi fa, in Turingia, la Linke è ad esempio crollata dal 31% al 12% e in Brandemburgo dal 10% al 3%. Una condanna all’irrilevanza che evidentemente non fa tuttavia paura a Sarah Lee-Heinrich, ex-portavoce della Gioventù Verde, un’organizzazione giovanile che ha rotto con i Grüne dopo la svolta militarista di questi ultimi, e che sta pensando di aggregarsi proprio alla Linke.

I sionisti provano a fomentare ulteriori scissioni a sinistra
La tensione interna, già elevata a seguito della scissione guidata da Sahra Wagenknecht e da molti parlamentari ormai stanchi delle derive filo-atlantiste della dirigenza, si è manifestata già durante l’ultimo congresso regionale di Berlino, che aveva dovuto discutere di una provocatoria mozione che si focalizzava a condannare la presenza, nel movimento solidale con la Palestina, di un presunto “antisemitismo di sinistra”, adottando la retorica borghese per identificarlo.
La mozione è stata democraticamente emendata dalla maggioranza dei delegati, i quali si sono accorti del subdolo tentativo sionista di infiltrarli: i promotori, offesi dal dibattito interno, hanno colto l’occasione di abbandonare la seduta, accusando il Partito sui media di essere “complice” dei razzisti anti-ebraici. Un’accusa che, soprattutto in Germania, a causa del suo passato, risulta non solo particolarmente infamante ma anche il modo migliore per screditare e infangare qualcuno.
La cosa non deve stupire più di tanto: accanto a elettoralisti di mezza età che non hanno vissuto nel socialismo della ex-DDR e che usano il Partito per ritagliarsi spazi di carriera, all’interno della Linke per anni si sono fatti strada anche ampi gruppi di giovani di buona famiglia, solo fintamente alternativi che, mascherati da una retorica di sinistra, portano avanti in realtà un’agenda politica squisitamente liberal. Esattamente quello che alle nostre latitudini si conosce da anni con il fenomeno della JUSO, la Gioventù Socialista Svizzera.
Solidali con la Palestina… teoricamente ma non in pratica!
Le dinamiche di Berlino si sono riscontrate anche sul piano nazionale: in un clima lacerante, al Congresso si sono scontrate ben quattro mozioni contrapposte tutte incentrate sul conflitto israelo-palestinese, a dimostrazione di quanto quella lotta sia dirimente. La resistenza palestinese, andando a incidere nella stabilità del regime israeliano, nel nuovo contesto geopolitico multipolare riuscirà a impattare anche nella politica interna dei singoli Stati europei, talmente collusi col capitale sionista da risultarne dipendenti persino politicamente e militarmente. Un motivo in più perché a sinistra si continui la mobilitazione filo-palestinese.
Per evitare nuove scissioni nel Partito, il vertice della Linke è riuscito a trovare una “sintesi”: oltre a chiedere il cessate il fuoco a Gaza e in Libano, si dichiara contro l’occupazione delle terre da parte di Israele ma sempre e solo rifacendosi a quanto già prima stabilito dall’ONU. Poi si identifica nel solo governo di estrema destra di Benjamin Natanyahu il vero e unico problema dell’entità sionista (detto altrimenti: ci sarebbero anche sionisti buoni da mettere al governo). Anche la natura genocida delle azioni sioniste non è una definizione scaturita dei lavori congressuali, ma è un semplice riferimento alla vertenza contro il regime di Tel Aviv aperta attualmente presso la Corte internazionale di giustizia. Accanto a questa linea perlomeno “minimalista”, il Congresso ha insistito – giurando e spergiurando – di essere però a favore dell’esistenza dello Stato di Israele (cioè di uno stato coloniale sorto su territorio di un’altra nazione!) e di voler dare priorità alla lotta all’anti-semitismo, riconoscendo di fatto quanto rivendicato dalla propaganda sionista e indebolendo così il movimento di solidarietà con la Palestina.
Durante il dibattito si sono sentite argomentazioni pesanti, totalmente estranee alla tradizione del movimento operaio tedesco, perlomeno di quello che proviene dalla ex-DDR: alcuni delegati sono arrivati persino a chiedere che la Linke prendesse come riferimento la Dichiarazione di Gerusalemme, la quale, equiparando l’anti-sionismo all’anti-semitismo, crea un pericoloso precedente giuridico che potrebbe essere usato per reprimere proprio le manifestazioni filo-palestinesi. Proposta respinta, certo, ma non è un buon segno se è stata discussa in un partito erede della migliore tradizione di solidarietà con la Palestina.
La nuova leadership non tollererà il dissenso
Il Partito che era stato di leader carismatici come Oskar Lafontaine e Sahra Wagenknecht è stato guidato al tracollo elettorale dal duo liberal Martin Schirdewan e da Janine Wissler. Un duo che era riuscito non solo ad esacerbare le frizioni interne fino a giustificare la scissione dell’odierna Alleanza BSW, ma anche a far eleggere a Bruxelles personaggi di rara mediocrità come Karola Rackete, ricca attivista che, dopo essersi fatta bella con il pacifismo e l’aiuto umanitario (o forse dovremmo chiamarla tratta di esseri umani?), ha votato al parlamento europeo per la guerra alla Russia e l’invio di armi al regime di Kiev.

Il Congresso li ha sostituiti con una nuova leadership: Ines Schwerdtner, pubblicista ed ex direttrice della rivista della sinistra accademica “Jacobin” nella sua versione germanica, è stata eletta con il 79% dei voti. Ad accompagnarla sarà Jan van Aken, già ispettore dell’ONU sulle armi biologiche, che è stato eletto con il favore dell’88% dei delegati.
Niente da fare invece per la candidatura alternativa di Emanuel Schaaf. Quest’ultimo, pur sperticandosi nel “condannare l’attacco della Russia all’Ucraina e il terribile attacco terroristico di Hamas”, aveva però osato chiedere al suo Partito di evitare visioni troppo unilaterali e sostenere che entrambi i fatti citati vanno contestualizzati storicamente. Quando poi ha dichiarato correttamente che “la solidarietà internazionale è sempre dalla parte degli oppressi e non degli imperialisti, anche se questo è ciò che la politica mainstream ci chiede” le sue chances di essere eletto sono sparite: è infatti proprio l’ossessione di essere citati dal mainstream mediatico e di abbellire la propria image a guidare oggi i neo-riformisti edonistici che stanno sgomitando in quel che resta della sinistra europea.
Quale è quindi il corso che Van Aken e Schwerdtner intendono imprimere ora al Partito? Lo ha spiegato bene il primo dei due, sottolineando sì l’importanza della lotta per la pace (slogan peraltro piuttosto generico) e contro la produzione di armi (slogan invece piuttosto irrealistico), ma ha anche chiarito che non si tollererà più dissenso interno: la Linke deve secondo lui diventare il polo della “sinistra progressista” contrapposto alla “sinistra conservatrice” della deputata Sahra Wagenknecht, che è diventata ormai una vera ossessione. Chi insomma è ancora comunista e si ostina a difendere una linea anti-imperialista, realmente pacifista e ancorata alla classe operaia dovrà aspettarsi di essere emarginato dall’odierna Linke. Non è un caso che una mozione sull’Ucraina promossa dalla Piattaforma Comunista, la corrente interna alla Linke che fino a qualche anno fa faceva capo proprio a Wagenknecht, è stata respinta perché troppo …“filo-russa”. Ed ecco che torna la russofobia ossessiva, che ormai va letta come una cartina di tornasole: chi cade in essa, anche se dice cose di sinistra, finirà per essere la marionetta dell’imperialismo nella guerra che si sta preparando contro il multipolarismo.

Un partito sempre più autoreferenziale che non sa identificare le priorità
Intanto i problemi organizzativi e politici interni alla Linke crescono: il crollo elettorale nelle roccaforti viene snobbato; tornare a parlare agli operai e concentrarsi sulle periferie viene escluso; gli iscritti che interessano al Partito sono solo gli aderenti al ceto intellettuale che vivono nelle grandi città. Le contraddizioni fra l’ala movimentista e quella concentrata principalmente sul lavoro istituzionale poi cresce sempre di più e ancora pochi giorni fa una serie di eletti regionali hanno restituito la tessera del Partito. Le priorità politiche sono poi tutte sfasate: ci troviamo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, la Germania parla di reintrodurre la leva obbligatoria e di entrare in guerra contro la Russia entro pochi anni. Invece la Linke, il partito che un tempo guidava il movimento per la pace, arriva a votare una fondamentale risoluzione contro lo stazionamento di missili a medio raggio statunitensi in Germania solo alla fine dei lavori, quando un numero importante di delegati è già rincasato, peraltro solo perché forzata da una mozione d’ordine urgente, e dovendosi pure scontrare con il vertice del Partito che ha tentato di opporvisi per non dispiacere troppo ai partner di area rossoverde ormai alleati della NATO. Insomma: si assiste alla fine graduale di una storia umana e politica, ma si stanno aprendo anche praterie enormi da conquistare per l’Alleanza BSW di Sahra Wagenknecht, unica interprete non solo della sinistra nazional-popolare che i cittadini dell’ex-DDR si attendono, ma anche di una chiara linea contro la guerra, il riarmo e la NATO che fa breccia anche a Ovest. Perché ancora una volta si vede che, nonostante la propaganda e l’annessione, la Germania non è ancora stata davvero riunificata!