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Obbligatorietà scolastica a 18 anni: se una voce in più vi sembra poco…

Ho seguito con interesse la trasmissione “Modem” su Rete Uno di martedì 18 dicembre con a tema la proposta del DECS di introdurre un obbligo di formazione fino ai diciotto anni. L’obiettivo dichiarato è quello di mettere un freno al preoccupante dato che vede il 12% dei ticinesi essere senza formazione professionale o accademica all’età di venticinque anni.

Un tema centrale e fondamentale, quello della formazione a misura di tutti, che purtroppo è stato poco tematizzato tanto nella tramissione radiofonica, durante la quale abbiamo assistito a un dibattito sbilanciato e con pochi contenuti tra il ministro Bertoli per il DECS, un esponente padronale come Martinetti (che ha ripetuto il mantra, per lui conveniente, del maggiore contatto tra scuola e aziende), e un economista come Pamini. A loro si è aggiunto l’intervento di un minuto scarso – di più evidentemente la radio non poteva concedere – estratto da una “intervista” a Zeno Casella, coordinatore del Sindacato Indipendente Studenti e Apprendisti (SISA), il quale ha portato un po’ di brio e un’opinione vicina al mondo studentesco che andava certamente valorizzata di più, concedendo in primis il diritto di replica al giovane sindacalista. Si tratta di una proposta, come scritto anche dall’on. Bertoli in un articolo a sua firma apparso su “La Regione” il 17 dicembre, che è giunta sui banchi del DECS lo scorso febbraio da parte di Massimiliano Ay, deputato del Partito Comunista in Gran Consiglio. Perché, dunque, un’emittente radiofonica che svolge servizio pubblico non ha invitato un esponente del Partito Comunista a dibattere, equilibrando il dibattito viste le aree politiche, e permettendo di ascoltare chi ha formulato la proposta originale?

Nella proposta del DECS è, tuttavia, insito un nocciolo potenzialmente problematico: si parla infatti di obbligo di studio fino ai diciotto anni. Questa dicitura è quanto meno opaca, e si presta a svariate interpretazioni, tra cui quella che si tratti esclusivamente di programmi “preventivi” atti a «non permettere loro di rimanere a casa, annoiati sul divano o persi nei social media, solo perché qualcosa non ha funzionato nel percorso obbligatorio, di studio o di apprendistato» (come scriveva l’on. Bertoli nell’articolo sopra citato). Tentando di non cadere in discorsi paternali, inutili e dannosi nello stile del Michele Serra de “Gli Sdraiati”, mi sembra interessante ragionare su due questioni.

In primis sulle cause: chi si occupa di educazione e formazione a livello professionale e accademico sa benissimo che queste problematiche non possono essere ricondotte solo a problemi psicologici o familiari del ragazzo, ma anche e soprattutto – e qui spezziamo una lancia a favore del ministro visto quanto scritto nell’articolo – a problemi inerenti la strutturazione della formazione obbligatoria e postobbligatoria. Ciò significa mettere in discussione il fine della scolarizzazione obbligatoria e quindi, anche, la professionalità e il compito dei docenti: non certo con boutade alla Pamini su bonus e malus, ma sulla loro consapevolezza pedagogica. Si dovrebbe insegnare a partire da qui, dal conoscere davvero quanto si sta facendo, dal comprendere il proprio ruolo educativo, oltre che formativo e/o istruttivo. Si tratta di un processo che, se governato consapevolmente, può accompagnare a capire l’importanza della formazione. È proprio la consapevolezza educativa nell’insegnamento quella che può incidere significativamente nelle vite degli studenti, che può aiutare tutti senza distinzioni ad arrivare ai traguardi auspicati, che può a stimolare l’interesse degli studenti, e che deve invitare i docenti (che devono essere messi nelle migliori condizioni possibili per lavorare) a lottare non solo perché tutti imparino (spesso non viene fatto neanche questo), ma perché tutti possano davvero imparare: una scuola che seleziona, diceva Don Milani, distrugge la cultura. Non è utopia, e non è qualcosa che penalizza “quelli bravi”, come si sente spesso dire: si tratta di una bugia. Loro ce la faranno comunque, ma probabilmente usciranno più consapevoli e con capacità di riflettere sulla realtà sociale che li circonda.

In secondo luogo, la proposta – pur avendo ancora margini di elaborazione – per ora parla di obbligo di studio e non di obbligo di ottenimento di una maturità o diploma. Un sistema scolastico in un paese democratico, non può permettersi di avere persone senza formazione: ne va della salute del tessuto economico, sociale, politico, democratico, ambientale e molto altro. Ogni persona lasciata indietro è un aggravio ai conti dello stato e del welfare pubblico, oltre che un aumento dell’insicurezza generale del nostro territorio. Pensare di smantellare questi ultimi, o di introdurre penalità (come proposto da Pamini) per risparmiare, è dogmatismo liberale, incapace di comprendere le conseguenze delle proprie proposte anche ragionando in termini puramente economici. Investire maggiormente nella formazione e ripensarla nelle sue componenti educative, spesso espulse o concepite come elementi separati (segno che chi si occupa di formazione a livello istituzionale forse così formato non è), significa investire nel futuro nel paese. Sostenere il contrario significa volerne la deriva, l’insicurezza e l’impoverimento, con i costi economici e sociali che essi comportano.

Simone Romeo

Simone Romeo, classe 1993, è pedagogista e dottorando di ricerca in "Educazione nella società contemporanea" presso l'Università di Milano-Bicocca. Già consigliere comunale a Locarno per il Partito Comunista, collabora da diversi anni con sinistra.ch.