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India, i comunisti cercano di contrastare l’ingiustizia e la diseguaglianza

Agra, Delhi, Lucknow, cambia poco, ovunque tra i poveri che dormono per le strade e tra i bambini che mendicano, centinaia di giovani occidentali passeggiano, inseguendo il fraintendimento di un’India spirituale, senza accorgersi di come l’induismo sia una religione che promuove il razzismo e la discriminazione, con la divisione in caste dei cittadini e la promozione dell’odio per le altre credenze, si susseguono purtroppo le notizie di chiese e moschee date alle fiamme.

Un atteggiamento non diverso dal buddismo, che incita oggi allo sterminio dei musulmani in Birmania e fin che ha regnato l’attuale Dalai Lama in Tibet faceva dormire le donne con gli animali, mozzava le mani ai bambini e ai contadini, i quali, vestiti di stracci, chiedevano soltanto dignità e non una vita di stenti, tutti fatti che piano piano emergono oltre la coltre fitta di una propaganda alimentata da Hollywood, come spiega il documentato libro di Ettinger.

I dalit manifestano

L’India è la dimostrazione di come il problema sia sempre politico, ovvero come il sistema fondato sull’individualismo capitalista generi miseria, diseguaglianza e ingiustizia, trovando qui tragicamente più che altrove assoluta armonia con l’ideologia religiosa dominante. I partiti comunisti indiani cercano di contrastare tale deriva che moltiplica esclusione e povertà. I dalit, gli intoccabili, una quota rilevante della società, una vergogna che dovrebbe vedere svilupparsi un movimento di protesta internazionale, vista l’inefficacia dell’abolizione formale del sistema delle caste avvenuta nel 1950, manifestano con rabbia per le strade chiedendo il più elementare rispetto dell’eguaglianza di remunerazione, di tutela medico-abitativa, di diritto alla scuola per i figli. I comunisti, in un paese in cui la metà della forza lavoro opera nel settore agricolo, hanno mobilitato e mobilitano i contadini in grandi manifestazioni di massa, ma il liberismo dominante contrasta tali iniziative e contribuisce al permanere di situazioni sociali tragiche.

Fatte queste premesse, il sistema socialista cinese è infinitamente più democratico e inclusivo, se il confronto si deve fare con la Cina, che ha come l’India un miliardo e trecento milioni di abitanti. Le differenze sono schiaccianti. In Cina tutte le ragazze e i ragazzi vanno a scuola, in India solo chi può permetterselo, gli altri lavorano oppure elemosinano il pane per le strade, Pechino è inquinata, ma sta cambiando radicalmente, diventando una delle città più ecologiche del mondo, Delhi soffoca in una cappa di inquinamento che vela il sole, peggiorata da un traffico caotico, assordante e sfiancante.

Il primo ministro nazionalista indù Narendra Modi rischia di peggiorare la situazione, con la sua ostilità anticinese e la sua prossimità culturale al Mahatma Gandhi, avvocato in Sudafrica alla fine dell’800, ricordato dalle biografie ufficiali per aver combattuto la discriminazione degli indiani che là vivevano, fatto verissimo, ma dimenticandosi di ricordare con quali argomenti cercasse di convincere i bianchi razzisti, ovvero spiegando che gli indiani non potevano essere paragonati ed equiparati ai neri e che la segregazione dei neri era una cosa buona e giusta. Nel 1947, quando i comunisti indiani hanno vinto le elezioni locali, l’impero britannico si è sbrigato a mettere in mano ai nazionalisti del Partito del Congresso il paese, nel farlo ha perdonato a Gandhi la sua profonda amicizia per i regimi fascisti e nazisti. Gandhi, che scriveva lettere amichevoli a Hitler, aveva visitato l’Italia nel 1931, incontrando Benito Mussolini ed esprimendo parole di entusiastica ammirazione nei suoi confronti.

I comunisti in piazza coi contadini di Mumbai

Per fortuna Jawaharlal Nehru e la figlia di questi Indira Gandhi porteranno negli anni ’50 e ’60 il paese nel solco del Movimento dei Non Allineati insieme alla Jugoslavia di Tito e all’Egitto di Nasser e stringeranno amichevoli rapporti politici ed economici con l’Unione Sovietica. Modi tuttavia pare avere altre intenzioni, i prossimi anni ci diranno se l’India si porrà risolutamente al fianco di Cina, Russia, Venezuela e Iran nella costruzione di un mondo di pace e multipolare o se accetterà di essere conseguentemente succube dell’aggressivo unipolarismo atlantico che già spadroneggia in molti settori e con una martellante propaganda culturale.

Per il momento si ha la certezza che le religioni orientali, in specifico l’induismo, operano per aumentare la diseguaglianza, l’esatto contrario dei monoteismi abramitici, Islam e cristianesimo anche in India come ovunque, pur senza venire meno a tante contraddizioni, promuovono infatti l’uguaglianza e la solidarietà, ma questo i giovani turisti europei, che inseguano il mito del tutto improprio di un’India “peace and love”, non lo sanno e non se ne accorgono, neppure quando visitano i monumenti nazionali, realizzati principalmente da due sovrani musulmani, Shah Jahan e Akbar, tanto che il celebre Taj Mahal è contornato da iscrizioni coraniche e dal nome di Allah, ma come ovvio, quelle strane scritte sono per loro segni strani, non conoscendo nemmeno la differenza tra l’arabo e il sanscrito.

Gli europei sono innamorati di un esotismo che in realtà è solo la superficiale esteriorità di una società in cui le tensioni e le contraddizioni sono la più evidente conferma che gli ideali politici e religiosi dominanti generano diseguaglianza e ingiustizia.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.