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Andrew Spannaus spiega le ragioni della rivolta degli elettori europei

La rabbia contro l’Europa e l’euro che certo deborda oltre la ragionevole avversione al liberismo speculativo della casta eurocratica, nasce dalla consapevolezza dei cittadini della violenza e dell’imbroglio perpetrato contro i lavoratori delle nazioni europee da parte dell’élite politico – finanziaria che da un quarto di secolo ha provato, spesso riuscendoci, a imporsi attraverso una forzatura del consenso popolare. Col tempo il dogma ideologico liberista e speculativo è diventato la teoria politica di una dittatura oligarchica e tecnocratica, tuttavia l’assottigliarsi del consenso per i partiti popolari e socialdemocratici del vecchio continente testimonia, con tutta evidenza, che tale sistema è giunto al capolinea.

Spannaus con parole chiare e vibranti ci prospetta l’alternativa in “La rivolta degli elettori. Il ritorno dello stato e il futuro dell’Europa”. Si deve infatti rimettere al centro un progetto condiviso di Europa che parta dalla cooperazione tra gli stati e non dalla Commissione Europea e della Banca Centrale di Francoforte, un progetto capace di sostenere il lavoro produttivo e manifatturiero e non le speculazioni bancarie e le delocalizzazioni, un progetto volto a dispiegare decisive politiche sociali e non a tagliare i fondi per le pensioni, la scuola, la sanità, altrimenti, se le logiche speculativo – affaristiche prenderanno il definitivo sopravvento, i cittadini reagiranno spazzando via questo sistema soffocante, votando per qualsiasi forza politica dichiaratamente contraria alla barbarie perpetrata in giacca e cravatta, che si nasconde dietro i valori europei, tra l’altro sempre meno rispettati e attuati, a partire dall’occupazione e dalla solidarietà, valori diventati soltanto il baluardo delle speculazioni bancarie, del pareggio di bilancio e del Fiscal Compact, che distruggono lo stato sociale, insieme ad altre mille imbarazzanti, assurde, penalizzanti e vincolanti leggi europee che concretamente agiscono solo per peggiorare la vita dei cittadini.

Spannaus è come sempre chiaro, efficace e diretto. Vale la pena citare alcuni passaggi del libro: “Le ricette dell’Unione sono effettivamente risultate incapaci di produrre una crescita economica durevole. Come i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale per i paesi dell’Africa e dell’America Latina, le riforme strutturali dell’Ue − spesso stilate proprio in collaborazione con l’Fmi, per esempio nella forma della ‘Troika’, che unisce Commissione Europea, Bce e Fmi − non hanno risolto minimamente i problemi economici degli Stati membri. Nel migliore dei casi i costi della crisi si sono spostati sulle fasce più deboli della popolazione, provocando una crescita sbilanciata che nasconde seri problemi sociali in molti settori. Nel caso peggiore − la Grecia, per esempio − la cura è risultata ben peggiore della malattia, in quanto l’austerità ha provocato un crollo delle attività economiche e un aumento spaventoso della povertà.” E ancora: “Se il cittadino tedesco, come anche quello italiano, fosse più consapevole del reale funzionamento dei meccanismi di politica economica internazionale, se la prenderebbe di meno con l’italiano o il greco e di più con i propri rappresentanti politici, le cui scelte peggiorano le condizioni sia dei paesi più in difficoltà, sia dei paesi che in teoria li stanno aiutando, o perlomeno delle fasce meno benestanti della popolazione. Alla fine la distinzione tra vittime e colpevoli diventa meno chiara o, meglio, si rimodula grazie alla consapevolezza che i governi europei hanno accettato un modello di politica economica che non ha funzionato in passato e non funziona ora. Piuttosto che ammettere questo fallimento, si scaricano sui più deboli le colpe e i costi sociali. È il risultato di un dogma monetarista che non permette ai governi di attuare politiche economiche efficaci: occorre seguire tassativamente i parametri del bilancio ed evitare interventi mirati sull’economia reale. L’unico dirigismo permesso è quello finanziario, cioè l’immissione di quantità enormi di moneta nei circuiti bancari, che in teoria dovrebbero essere poi distribuite a imprese e famiglie tramite il credito. Solo che questi soldi alle imprese e alle famiglie non arrivano, prendendo spesso la strada della speculazione finanziaria; fino a oggi il passo successivo è sempre stato quello di creare condizioni monetarie ancora più permissive, pensando che prima o poi funzionerà. È una beffa tremenda per tutti quei cittadini che soffrono le conseguenze dell’austerità o comunque della riduzione delle protezioni sociali e degli investimenti: quando occorrono soldi per la finanza sono praticamente illimitati, ma guai ad utilizzare quei soldi direttamente per i bisogni della gente, si andrebbe contro tutti i principi del libero mercato.”

Spannaus sottolinea come l’Europa di Maastricht, nata nel 1992, sia ben diversa da quella realizzata e costruita nei qurant’anni precedenti: “La motivazione principale dietro la creazione della nuova Unione europea, quella che nasce a Maastricht nel 1992 e si basa su regole monetariste, sull’austerità e su un’economia funzionale alla finanza globalizzata, è stata la limitazione della sovranità nazionale degli Stati membri. L’obiettivo iniziale era la Germania, ma il modello si è prestato benissimo a un disegno più ampio, quello di garantire la continuazione delle politiche economiche preferite dall’élite occidentale dagli anni Settanta in poi. Sono esattamente quelle politiche che hanno portato alla riduzione del lavoro produttivo, all’aumento della precarietà e alle crescenti disuguaglianze tra la minoranza della società, che riesce a beneficiare del mondo dei servizi di alto livello, e la maggioranza che fa sempre più fatica a mantenere un tenore di vita decente.”

Tutto questo si riverbera nella vita quotidiana degli abitanti del continente: “Il fattore principale delle difficoltà economiche dei paesi europei consiste proprio nell’aderenza dogmatica alle politiche proposte dalla stessa Unione. L’austerità, il divieto dell’intervento pubblico, la politica monetaria che perpetua un sistema dominato dai mercati finanziari sono il più grande nemico dell’Europa stessa.”

Spannaus ci ricorda che il liberismo non è all’origine dello sviluppo economico di questi ultimi secoli: “Oggi domina l’idea che il liberismo sia il modello economico che ha reso grande gli Stati Uniti d’America e molti altri paesi occidentali. La verità è un’altra: le politiche economiche seguite dai padri fondatori dalla fine del 1700 in avanti avevano una forte componente di protezionismo e contavano sul ruolo deciso dello Stato. Il libero mercato era il modello proposto dall’Impero britannico, che mirava a tenere le colonie americane in uno stato di arretratezza per garantire il dominio della Gran Bretagna. L’impianto di base che permise i grandi progressi economici negli Usa e in Europa era ancora presente fino a pochi decenni fa. Su entrambi i lati dell’Atlantico il dopoguerra ha visto lo sviluppo di politiche di intervento pubblico che hanno incoraggiato la crescita industriale e fissato regole che dovevano garantire il corretto funzionamento dei mercati. Non si trattava di un modello anti-mercato, ma di un modello in cui non si permetteva agli interessi privati, e spesso transnazionali, di utilizzare il mercato per divenire più potenti degli Stati. Ci sono periodi in cui questa impostazione ha funzionato bene o meno bene, ma l’utilizzo del libero mercato come arma per bloccare l’intervento pubblico è storia recente, utilizzo non motivato dalla promozione della libertà in quanto valore assoluto. L’obiettivo reale è stata la riduzione della sovranità economica delle nazioni, per permettere ai grandi interessi privati di decidere di fatto le politiche economiche senza la difficoltà di gestire un Impero coloniale. Lo Stato nazionale in questo senso ha rappresentato il vero baluardo contro le oligarchie, offrendo ai governi la possibilità di impostare politiche a favore del bene comune. Il punto chiave del processo di globalizzazione vissuto dagli anni Novanta in poi si trova nella riduzione del ruolo delle nazioni. L’aumento degli scambi internazionali, i grandi salti tecnologici (nel mondo delle comunicazioni, per esempio) hanno indubbiamente facilitato l’integrazione mondiale e offerto tante opportunità positive per gran parte della popolazione. L’errore è stato permettere che i maggiori scambi e movimenti diventassero la giustificazione per una politica che ha favorito interessi particolari, grazie all’indebolimento degli Stati e all’aumento esponenziale del potere esercitato attraverso la finanza. Ciò che si era perso con la fine degli imperi coloniali si è in parte riacquistato con l’assalto allo Stato nazionale attraverso la globalizzazione.” Che ha portato con se il dramma della finanziarizzazione dell’economia: “Dal momento della rottura degli accordi di Bretton Woods nel 1971 cominciò una graduale crescita dell’importanza dei flussi finanziari rispetto alle componenti dell’economia reale. Non si trattò di un cambiamento inevitabile, ma piuttosto facilitato da precise decisioni politiche. La deregulation finanziaria degli anni Ottanta e Novanta, partita nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e poi estesa anche agli altri paesi europei, portò infine a un mondo in cui la sorte di interi paesi poteva essere decisa in pochi giorni da gruppi di traders seduti davanti ai computer, oppure da chi riusciva a influenzarli. La globalizzazione finanziaria ha sancito la sconfitta dello Stato nazionale, permettendo ai grandi interessi privati di acquisire un potere decisionale difficile da definire, ma comunque senza precedenti.” Tutto questo ha portato alla degenerazione del progetto unitario europeo: “Le politiche neoliberiste della globalizzazione, con l’incoraggiamento della delocalizzazione produttiva e la creazione di un clima incredibilmente favorevole alla finanza speculativa, sono state assimilate gradualmente dai governi nazionali, spesso guidati proprio dall’Unione europea. È l’Europa che vieta gli aiuti di Stato, è l’Europa che chiede le liberalizzazioni ed è l’Europa che fornisce quantità pressoché illimitate di soldi al settore finanziario, mentre al contempo impone l’austerità ai cittadini. Certo, l’Europa è fatta dei suoi politici e burocrati, provenienti dai rispettivi paesi, ma è indubbio che lo strumento più efficace per imporre queste politiche sia l’Unione europea. Infatti ogni volta che uno Stato membro prende in considerazione un cambiamento di rotta, le pressioni dell’Europa aumentano e comprendono anche la minaccia di azioni legali.”

Il problema è il modello attuale del libero scambio che “premia prevalentemente i bassi costi e dunque le grandi multinazionali, mentre crea non pochi problemi per le economie a imprenditoria diffusa, nelle quali conta di più la qualità dei processi e delle risorse umane. Fare ulteriori passi avanti verso un mercato sì libero, ma in cui quella libertà avvantaggia soprattutto i più grandi, non è un modello vincente per l’Europa. La competizione deve portare tutti verso l’alto, il che significa anche proteggere i più deboli; i grandi accordi commerciali perpetuano invece un modello che ha già fatto molti danni e gli europei ne sono diventati consapevoli.”

Spannaus ci mette in guardia rispetto a un’ulteriore riduzione del ruolo degli stati nazionali: “La vera sfida non è tra gli Stati Uniti e l’Europa; è tra le élite che hanno governato il nostro mondo negli ultimi quaranta anni, facendo gli interessi soltanto della parte alta della società, e chi intende promuovere gli interessi di tutta la popolazione; è tra chi non riesce a vedere la necessità di un cambiamento di rotta e chi capisce che le politiche attuali non sono più sostenibili, e possono portare a sconvolgimenti ben peggiori di quelli visti in anni recenti. Traducendo questa differenza in termini istituzionali, oggi è evidente che per cominciare a cambiare il sistema attuale occorre lo Stato nazionale. Come nella storia passata, gli interessi privati − che riescono a imporre politiche a sostegno di un’oligarchia sovranazionale, indebolendo così la classe media e impoverendo vaste fasce della popolazione − riescono ad aggirare i meccanismi democratici fondamentali delle repubbliche sovrane. La finanza internazionale ha imposto un modello economico che le banche centrali hanno attuato con entusiasmo e che le istituzioni sovranazionali tentano di far rispettare agli Stati nazionali. L’unico veicolo che storicamente ha dimostrato di essere in grado di contrastare le oligarchie che fanno gli interessi dell’1%, attraverso gli imperi coloniali in passato e la finanza globalizzata oggi, sono proprio gli Stati nazionali. Non significa escludere la cooperazione sovranazionale tramite gli organismi collettivi. L’Unione europea potrà pure riformarsi e diventare più rispondente alle esigenze popolari, ma finché non si ristabilirà il primato della politica, democraticamente eletta e volta a promuovere il bene comune, aumentare il potere delle strutture sovranazionali significherà far felice chi con il bene comune ha poco a che fare.”

Spannaus ci spiega come l’idea di sovranità nazionale si accompagni in Europa alle imposizioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, al rifiuto da parte dei cittadini di norme come il Fiscal Compact, che strozzano l’economia reale, ci indirizza verso la sovranità nazionale, che deve diventare un orizzonte per ripristinare i diritti delle nuove classi emarginate e non può essere lasciata alle destre, ci invita a tornare a Westfalia, perché il governo finanziario mondiale è una catastrofe e l’imperialismo, che lui pudicamente chiama “imperi”, ha creato poveri pure nel centro degli imperi stessi: “I grandi temi alla base della rivolta degli elettori che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca hanno un denominatore comune: la sovranità. La globalizzazione economica e finanziaria è osteggiata perché ha favorito la delocalizzazione del lavoro e perché ha permesso alla finanza speculativa di acquisire un potere spropositato sulla politica degli Stati. Tutto questo si basa sull’eliminazione dei confini, soprattutto in termini economici: ormai le grandi società e i grandi capitali possono spostarsi con facilità, un fattore che condiziona pesantemente le decisioni dei governanti che devono fare i conti con la nuova realtà dei “mercati internazionali”, spesso più potenti degli strumenti legislativi nazionali. Anche in politica estera il cambiamento è stato netto. Nel promuovere un sistema di diritti condivisi a livello mondiale, il rispetto della sovranità è passato in secondo piano. Gli interventi militari che puntano al “cambiamento di regime”, oppure al cosiddetto “diritto di proteggere” – due facce della stessa politica –, affermano la supremazia dei valori democratici, definiti dal mondo occidentale, sulle prerogative nazionali. Si tratta di un cambiamento fondamentale: l’abbandono dei principi del Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che ha posto le basi del diritto internazionale per secoli. L’idea di Westfalia è semplice: “gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due”. È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale. Il fallimento dell’élite occidentale è strettamente collegato all’abbandono del concetto di sovranità. Una certa visione del mondo, da attuare con strumenti a volte democratici e a volte no, ha facilitato le politiche che hanno fomentato il malcontento di grossi segmenti della popolazione, che a sua volta vedono in questi “valori” della globalizzazione una minaccia non solo al proprio benessere, ma ancora di più alla propria identità. Oggi, l’idea di un ritorno al “nazionalismo” viene considerato pericoloso, per forza negativo, in quanto associato alle guerre del passato. A guardare bene, però, una ripresa del concetto di sovranità nazionale sembra particolarmente importante proprio per contrastare la perpetuazione degli errori più gravi del mondo occidentale negli ultimi decenni: una politica estera basata su interventi militari a volte difficili da giustificare e una politica economica che ha provocato una serie di crisi che ora si stanno ritorcendo contro la classe che ne ha tratto beneficio, ignorando le conseguenze su buona parte della popolazione. Attribuire alla forma della nazione la responsabilità delle guerre è un altro inganno piuttosto trasparente. Quale sarebbe infatti l’alternativa? Il modello degli Stati Uniti d’Europa prende a modello sempre una nazione, seppur molto più grande dei singoli paesi europei. Le possibilità effettive per superare gli Stati nazionali invece sono due: gli imperi o un governo mondiale. È opinione comune parlare della stabilità portata dagli imperi nei millenni passati. Il rovescio della medaglia era la stagnazione economica e sociale, con condizioni di vita pessime non solo per la periferia soggiogata, ma anche all’interno degli stessi imperi, almeno per gran parte della popolazione. Erano altri tempi, e si può sicuramente discutere quali imperi abbiano fatto meglio o peggio, ma la crescita della popolazione e l’esplosione della cultura e del progresso economico e sociale sono avvenute proprio quando si è passati all’epoca delle nazioni. Il governo mondiale è un’altra tentazione dell’élite. Nei salotti buoni si parla del pericolo della democrazia, del fatto che la gente non dovrebbe votare su temi che non è in grado di capire. L’Unione europea ha già portato all’estremo questo atteggiamento, evitando di sottoporre alla popolazione la costruzione delle istituzioni sovranazionali. Dal punto di vista dei veri diritti umani la tentazione antidemocratica non è solo contraddittoria, ma indifendibile. A lungo termine, quando le politiche attuate dalla classe dirigente non trovano un consenso almeno parziale presso il popolo, tale classe dirigente merita di “perdere il mandato del cielo”, il termine usato dai cinesi per descrivere le rivolte contro un regnante che ha fallito nel garantire il benessere del popolo. Il ripristino della sovranità nazionale, rifacendosi al principio di Westfalia, potrebbe essere la risposta più efficace ai problemi creati dalla globalizzazione. Piuttosto che demonizzare l’esistenza delle nazioni, occorre riconoscere che il modo migliore di affrontare i processi che altrimenti sembrano ingovernabili, e che quindi offrono possibilità a grandi interessi privati di manipolare il sistema a proprio vantaggio, è la politica democratica, che si attua principalmente attraverso le istituzioni nazionali. Per parafrasare la famosa citazione attribuita a Winston Churchill, lo Stato nazionale è la forma peggiore di governo, eccetto tutte le altre forme che sono state provate nel corso del tempo.

Conclude Spannaus, con assoluta ragione, che “il tema della difesa dell’identità nazionale, in particolare se abbinato alla necessità di difendere l’economia nazionale e il benessere dei cittadini, è e rimarrà ancora cruciale in tutto il mondo occidentale”.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.