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“Mr. Gorbachev, tear down this wall!”

The Reagan Show, produzione documentaristica statunitense finanziata dalla CNN e realizzata da Pacho Velez e Sierra Pettengill, ripercorre gli anni ’80 della presidenza Reagan ricostruendo il suo approccio mediatico e il dialogo con il segretario generale del PCUS Mikhail Gorbachev.

Questo documentario, basato quasi esclusivamente su immagini d’archivio realizzate dalla stessa amministrazione Reagan, si pone un obiettivo interessante: raccontare un periodo partendo dalle fonti prodotte dai protagonisti stessi di quegli anni. Il governo Reagan, capace di generare più materiale video delle cinque precedenti amministrazioni messe assieme, non viene graziato dal montaggio che tra fuori scena e sequenze ben inanellate bacchetta senza porsi troppi problemi Ronald e compagnia.

Il vero problema della pellicola risiede a mio avviso nella sua concezione monodimensionale, che risulta a tratti fuorviante. Essa si concentra difatti solo sugli aspetti dell’approccio mediatico e dei rapporti diplomatici con l’URSS tralasciando altri aspetti di politica estera (pensiamo al Nicaragua, all’Afghanistan, alla Polonia) e di politica economica interna come esterna: pochi fotogrammi sono spesi nella contestualizzazione della dottrina neo-liberale negli States e in Gran Bretagna, per cui l’amicizia con la Tatcher viene citata ma le cause vengono a malapena lasciate a intendere.

La strizzata d’occhio iniziale a Trump (“we’ll make America great again!”) mette sullo stesso piano due profili politici che in realtà non hanno molto a che fare, e l’analogia viene ulteriormente sviluppata nel rapporto con i giornalisti e le varie testate come nelle vicissitudini in parlamento (per esempio con il sostegno di democratici e repubblicani moderati al trattato di disarmo nucleare con l’URSS accompagnato dall’opposizione dei repubblicani più conservatori). Il film cerca di vendere un Reagan troppo simile a Trump, un presidente che deve lottare con parte del suo stesso partito in Senato, ma l’analogia dovrebbe fermarsi lì.

Il montaggio dei filmati d’archivio dalla parvenza “oggettivo” conserva altrimenti un suo equilibro. Ma: la sequenza del “fidati ma verifica” (motto giuntogli dalla Russia) citato allo sfinimento dal buon Reagan (tant’è che sarà lo stesso Gorbachev a fargli notare che lo ripete in continuazione), e varie di altre sequenze con risate e un approccio da “fuori onda” possono da un lato dare l’impressione di costituire il principale valore aggiunto della pellicola, ma pure denotare scelte di regia che si perdono un po’ nella mancanza di approfondimento e analisi.

La pellicola tende in generale ad appiattire le peculiarità di entrambi i profili, mentre quella dell’epoca non era difatti una semplice sfida big man contro big man a colpi di barzellette, la situazione – come avrebbe detto qualcuno – era un po’ più complicata. La ricostruzione storica del film  è lungi dall’essere ineccepibile, in quanto drammatizza uno scenario che vorrebbe un Reagan in difficoltà di fronte a uno strapotere mediatico di un Gorbachev capace di strappare consensi trasversali ai due lati della decadente cortina di ferro. A riprova dei limiti di questa visione un esempio su tutti: le magliette prodotte negli USA dai sovietici in occasione di uno degli ultimi vertici, da leggersi come milioni di dollari regalati agli americani. Forse Gorbachev non la stava proprio vincendo come il film cerca di far credere. Gorbachev che ha calato le brache su tutta la linea, attore principale con ruolo attivo e preminente nel disfacimento del blocco orientale. Un po’ paradossale per qualcuno che “stava vincendo” secondo il documentario…

Amos Speranza

Amos Speranza (1992), di formazione storico, è direttore di #politicanuova, il quadrimestrale marxista della Svizzera Italiana, ed è membro del Comitato Centrale del Partito Comunista (Svizzera).