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Karl Marx alla Berlinale 2017

Con qualche mese d’anticipo rispetto al bicentenario della nascita del gigante di Treviri, che cadrà il 5 maggio 2018, il grande regista haitiano Raoul Peck, autore del bellissimo film dedicato a Patrice Lumumba nel 2000 e poi nel 2009 di “Moloch Tropical” sulla tragedia delle dittature anticomuniste dell’America Latina, ha presentato alla Berlinale “Il giovane Karl Marx”, che ripercorre con accuratezza e precisione gli anni che vanno dalla fine dell’esperienza alla “Gazzetta Renana” nel 1843, chiusa per sovversione, attività valsa a Marx il primo di un lungo elenco di espulsioni, fino ai primi del 1848, quando a Bruxelles redige insieme all’amico e compagno Friedrich Engels il “Manifesto del Partito Comunista” per costruire uguaglianza contro l’idea di proprietà borghese, che riduce a denaro ogni relazione sociale, il lavoro, la vita, la famiglia. Commoventi gli ultimi fotogrammi con le prime parole del Manifesto: “La storia di tutte le società esistite fino ad oggi non è stata altro che la storia delle lotte tra le classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola, oppressori ed oppressi, in costante contrapposizione, hanno combattuto una guerra ininterrotta.”

Un film riuscito, bravi i protagonisti August Diehl, Stefan Konarske, Vicky Krieps, che restituisce a pieno le ragioni del comunismo attraverso la storia di una amicizia, ma anche quella di una stagione piena di entusiasmo, impetuosa, nella quale, nonostante l’Europa fosse contrassegnata da potenze fondate sul colonialismo sfruttatore e omicida e sul capitalismo selvaggio, era forte la speranza di una catarsi rivoluzionaria, dell’avvento di una stagione di giustizia sociale.

L’esatto contrario di oggi, in cui l’Europa vecchia e decadente, avvilita per aver scoperto l’incapacità di proseguire il furto delle materie prime energetiche e alimentari del resto del mondo, vive un declino fatto di depressione, disagi relazionali, incapacità comunicative, individualismo autoreferenziale ed isolante dalla realtà e dagli altri, un coacervo di sentimenti restituito perfettamente da quattro film, “Nel corpo e nell’anima” dell’ungherese Ildikó Enyedi, “Requiem per la signora J.” del serbo Bojan Vuletić, con le comunque bravissime Mirjana Karanovic, volto storico del cinema jugoslavo e la giovane e bella Jovana Gavrilović, “Barrage” della lussemburghese Laura Schroeder, “Belinda” della francese Marie Dumora.

Con l’intelligenza e la delicatezza di uno sguardo rispettoso Alain Gomis si immerge in Kinshasa, la più grande città francofona del mondo, sebbene tutti parlino prima di tutto lingala, seguendo “Félicité”, cantante di un povero locale serale, e ci racconta i problemi, le corruzioni, gli slanci e l’umanità di una città fedelmente trasposta sullo schermo, in cui vita, morte, dolore e gioia convivono. Alla prima ora molto documentale ne segue una seconda più poetica, forse la strada migliore per raccontare la Repubblica Democratica del Congo, anche se in parte si perde il ritmo. In Africa si resta anche con “Vazante” di Daniela Thomas, dalla pregevole ed efficace fotografia in bianco e nero, in realtà siamo in Brasile ai primi dell’Ottocento nel Serro della regione del Minas Gerais, si racconta della violenza dei bianchi, padroni e schiavisti, sui neri, ma sono questi a essere i veri protagonisti, con la loro forza e il loro coraggio, le azioni e le parole dei bianchi infatti si rispecchiano negli occhi degli africani e la violenza si fa debole, annunciando futura giustizia.

“Pendular” della brasiliana Julia Murat riporta per intero invece il limite individualistico e autoreferenziale della borghesia brasiliana di oggi, la stessa che ha posto fine, con complicità internazionali all’esperienza progressista iniziata da Lula e continuata dalla Rousseff.

Lascia perplessi che sia stato presentato in concorso “Traccia” della polacca Agnieszka Holland, tanto mediocre e sconclusionato, pasticciato e confuso nella sommatoria di generi giustapposti malamente, che abbiamo la certezza, non lascerà traccia.

Infine la retrospettiva ha proposto il polacco-estone “Test pilota Pirxa” di Marek Piestrak del 1979, che, pur nella ricercatezza del soggetto tratto da Stanislaw Lem, restituisce per intero la difficoltà del campo socialista nel poter investire cifre colossali per la realizzazione di film di questo tipo, il confronto con il contemporaneo “Guerre Stellari” è tragicamente impietoso.

Davide Rossi

Davide Rossi, di formazione storico, è insegnante e giornalista. A Milano dirige il Centro Studi “Anna Seghers” ed è membro della Foreign Press Association Milan.