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Trump e la politica estera

Sono molti oggi ad aver individuato in Donald Trump un elemento di rottura rispetto alla linea tracciata dall’Amministrazione precedente. Indipendentemente dalle posizioni retrograde in materia di diritti civili che tendono a riportare indietro decenni di lotte e di conquiste (l’aborto, gli orientamenti sessuali, le libertà di movimento), la posizione che si è affermata, anche in alcune fasce della sinistra, è che con il nuovo presidente gli Usa avrebbero fortemente ridimensionato, quando non eliminato, il loro carattere imperialistico, giacché il potenziale aggressivo (o quantomeno l’operato politico) si sarebbe concentrato più verso l’interno che verso l’esterno. Una fascia consistente degli eurasiatisti, affascinata dal suo stile folcloristico e dal radicalismo anti-immigrazione, in un batter di ciglia ha abbandonato i propri obbiettivi geopolitici e si è presto convertita all’“americanasiatismo”.

Questo nuovo schema, tuttavia, sembra essere già saltato in aria con il riacutizzarsi della questione ucraina. Mentre l’esercito di Kiev dà avvio a bombardamenti notturni contro le zone residenziali della città di Donetsk, uccidendo nel sonno, decine di civili, gli Stati Uniti anziché denunciare il massacro, questo vero e proprio crimine di guerra, gridano alle “azioni aggressive della Russia”, e all’“occupazione”, prendendo la decisione di prolungare le sanzioni contro Mosca fino a quando questa non avrà lasciato all’Ucraina il controllo della Crimea, invalidando quindi il voto popolare espresso nel Referendum del 2014. Allo stesso tempo, Trump rivede le recenti politiche distensive verso Cuba, e promette contro l’isola una politica dal pugno di ferro, affermando di voler mantenere operativo e rafforzare il campo di prigionia di Guantanamo nonché di rimettere in funzione le prigioni segrete della Cia.

Sul versante dell’Asia orientale, per ciò che concerne un altro Paese che continua a definirsi comunista, la nuova amministrazione ha già preso accordi con Seul che prevedono un rafforzamento delle relazioni tra Usa e Corea del Sud. Oltre alle ripetute minacce rivolte alla Repubblica Popolare del Nord, le provocazioni verbali sono presto divenute più concrete con l’invio di 300 marines a Pyeongchang, dove si sono svolte esercitazioni militari congiunte tra esercito americano e sudcoreano allo scopo di intimorire la Corea del Nord e aumentarne le preoccupazioni in fatto di sopravvivenza e stabilità.

Duro l’atteggiamento anche contro la Cina, della quale il neopresidente Usa  ha affermato di non essere vincolato alla sua unità territoriale, ciò che equivale a dire che gli Stati Uniti potrebbero fomentarne la disgregazione molto più di quanto non abbia fatto Obama negli otto anni del suo mandato. In questa direzione sembra andare il recente riavvicinamento tra Usa e Taiwan, avvenuto parallelamente alle provocazioni statunitensi sul Mar Cinese Meridionale, dove gli Usa seguitano ad assumere lo sfrontato atteggiamento di parte territoriale in causa. L’obbiettivo, naturalmente, è quello di colpire la Cina per ridurne il peso sul piano economico e politico.

In aggiunta a queste misure, l’Amministrazione Trump si è inoltre mostrata già pronta all’eventualità di uno scontro militare. Questa quantomeno è stata l’opinione di Stephen Bannon (colui che viene considerato il secondo uomo più potente dopo il presidente, stratega della campagna elettorale di Trump ed oggi capo-stratega della Casa Bianca) che alcuni mesi fa ha rilasciato la seguente dichiarazione: “nei prossimi 5 o 10 anni andremo in guerra nel Mar Cinese Meridionale, non c’è alcun dubbio su questo!”.

Va inoltre tenuto presente che le politiche messe in atto da Trump contro i flussi migratori non costituiscono soltanto un problema di ordine interno. Esse si sono per il momento attirate il disprezzo del presidente della Bolivia, Morales e del presidente dell’Ecuador, Correa, che le hanno aspramente stigmatizzate,  denunciandole come un attacco verso i propri popoli. Le restrizioni dei flussi inoltre non hanno un carattere trasversale, ma sono accuratamente selezionate sulla base dell’orientamento in politica estera. Il programma di Washington sembra infatti ora volto ad aprire all’immigrazione politica cubana: i dissidenti anticomunisti che vorranno lasciare l’isola, contrariamente alle persone che provengono da altre nazioni, non troveranno nessun respingimento, ma verranno accolti a braccia aperte. Così l’ingresso negli Usa è stato vietato non già per tutti i cittadini dei Paesi musulmani: non potranno entrare infatti gli iracheni, i siriani e gli iraniani, ma potranno farlo, ad esempio, i sauditi.

Queste restrizioni hanno già leso i rapporti con Iraq e Iran, le cui reazioni non si sono fatte attendere: applicando il “principio di reciprocità” ora neppure i cittadini americani potranno entrare in quei Paesi. Nei confronti dell’Iran, peraltro, la mano dura di Trump, non si limita alla restrizione dei movimenti dei suoi cittadini, ma prosegue attraverso misure sanzionatorie volte ad impedire lo sviluppo di qualunque programma di difesa in grado di scoraggiare le aggressioni esterne al proprio popolo. Se l’Iran non ubbidirà agli ordini, il nuovo inquilino della Casa Bianca si è mostrato pronto all’invasione militare, così come si è detto pronto all’invio delle truppe in Messico se questi non rispetterà il volere di Washington.

Ammesso che l’Iran stia procedendo ad un potenziamento del proprio sistema difensivo, per quale ragione non dovrebbe avere la facoltà di farlo? Ha forse mai mostrato volontà, tendenze o una progettualità espansionistiche? Il massimo che potrebbe accadere a quello Stato, con un rafforzamento militare, è quello di non essere più terrorizzato dalle minacce dell’Occidente.

Ne è ben consapevole Trump, che proseguendo nel complesso la logica dei suoi predecessori, per i quali gli Usa incarnerebbero il ruolo di sceriffo del mondo, ha deciso che l’Iran non ha il diritto di procedere ad uno sviluppo degli armamenti. Niente da dire invece a se stessi che in armamenti spendono una quantità di capitale ormai maggiore di quella di tutto il resto del mondo messo assieme, e nulla da eccepire, naturalmente, contro Israele, possessore di oltre 350 testate nucleari. Al contrario, a questo Stato che ancora nel 2017 deve definire quali siano i propri confini, Trump ha consentito l’espansione coloniale sbloccando il programma di costruzione di 3.000 nuove abitazioni in Cisgiordania. Salvo poi affermare verbalmente, per non rischiare di inimicarsi l’alleato saudita, che l’estensione degli insediamenti, se pure non costituisce un ostacolo ai processi di pace, neppure li promuove.

Possiamo a questo punto domandarci: costituisce tutto ciò un tipo di politica intenta a concentrarsi sui problemi interni? Costituisce una riduzione o una cancellazione della carica imperialistica degli Stati Uniti? Non v’è alcun dubbio, naturalmente, che negli Usa sia attualmente in atto uno scontro, anche feroce, tra poteri. Ma questo scontro non è che l’espressione di un “bonapartismo soft”, in cui nessuna delle forze in lotta intende davvero rinunciare alla dimensione bonapartistica della nazione, così come nessuna intende abdicare al project for the new american century.

Un ultimo punto: ciò che ha determinato sinora, una buona parte delle simpatie e delle antipatie nutrite nei confronti di Trump è stata la dimensione estetica. Disprezzato da chi rivedeva nella sua figura un rozzo e volgare affabulatore privo di rispetto o senso dell’educazione, e ammirato da chi vi rivedeva un distruttore della retorica perbenista delle elites o del politically correct, Trump è stato odiato o amato da molte di quelle anime che guardano alla politica come un fatto estetico, indipendentemente dai contenuti che l’ethos racchiude. Già a metà degli anni Trenta, tuttavia, Walter Benjamin, aveva annoverato, tra i diversi tratti distintivi che contraddistinguevano il fenomeno del fascismo, proprio l’estetizzazione della politica. Quelle anime, pertanto, che denunciano in Trump un fascista, in ragione dei modi burberi, volgari e maschilisti che assume, non stanno facendo altro che guardare alla politica (pur esprimendo poi un diverso giudizio) proprio con quella ottica estetica incoraggiata dal fascismo stesso. Abbiamo in sostanza, per ciò che concerne il regno del politico, un oscuramento dei contenuti ed una focalizzazione dell’attenzione tutta sulle forme.

Quanto detto per Trump, vale naturalmente anche per la precedente Amministrazione: non che i bombardamenti a tappeto ordinati da Obama mietessero meno vittime e seminassero meno terrore soltanto perché circondati da una posa raffinata e signorile. L’eleganza, historia docet, non costituisce alcun tipo di garanzia contro il perpetrarsi della barbarie.  Ora, tuttavia, è Trump a detenere il controllo del più potente Stato e della più massiccia forza militare dell’intero pianeta. È pertanto contro di lui e i suoi più stretti alleati che occorre battersi, al momento attuale, se ci si intende avviare, come d’auspicio, verso un processo di democratizzazione dei rapporti internazionali, verso un mondo, dunque, in cui tra gli Stati viga un rapporto di uguaglianza e non di sottomissione ad un’unica monarchia universale.

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/trump-e-la-politica-estera/

Emiliano Alessandroni

Emiliano Alessandroni ha svolto per diversi anni indagini di tipo teorico e filosofico in Germania e Inghilterra. Collabora attualmente con le cattedre di Storia della Filosofia Politica, Storia della Filosofia Moderna e di Letterature Comparate, presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.